Tana libera tutti! Trasformare le narrazioni intorno ai disturbi della nutrizione e alimentazione | Den Free Everyone! Transforming narratives around eating disorders
DOI: 10.5281/zenodo.14603167 | PDF
Abstract. Troppo spesso le rappresentazioni culturali intorno alle storie di chi vive un Disturbo della Nutrizione e Alimentazione (DNA), collocano la lettura interpretativa del disagio e le azioni volte e contenerlo esclusivamente nell’ambito della sfera individuale e medica. La diagnosi, se da un lato aiuta a descrivere l’origine della malattia per localizzarne e oggettivarne la causa, consegna un’etichetta intorno alla quale prendono forma delle narrazioni. Le parole che si scelgono per narrare un’esperienza di disagio sono un potente strumento epistemico. Quando una persona viene “presa in carico” dai servizi diventa “paziente” e oggetto di progettazioni e valutazioni che rischiano di ridurre l’universo discorsivo che dà voce all’esperienza della persona. A partire dalle storie individuali di chi ha vissuto un DNA, indagate con i metodi dell’autoetnografia e della duoetnografia, la ricerca performativa oggetto di questo articolo si è proposta come percorso di emersione delle storie e dei corpi che ha assunto un valore anche politico. La condivisione delle storie individuali all’interno di dispositivi di apprendimento relazionali, e collettivi e l’uso dell’arte performativa come gesto politico per esprimere dissenso, ha permesso di dare cittadinanza al dolore di chi ha vissuto un DNA e di tenere viva una tensione trasformativa nelle storie.
Parole chiave: disturbi della nutrizione e alimentazione, ricerca performativa, narrazioni.
Abstract. Too often the cultural representations of the stories of those who experience a Nutrition and Eating Disorder (DNA), place the understanding of the disorder and the actions aimed at containing it exclusively within the individual and medical sphere. The diagnosis, while helping to describe the origin of the disease in order to localise and objectivise its cause, delivers a label around which narratives take shape. The words chosen to narrate an experience of distress are a powerful epistemic tool. When a person is 'taken into care' by the services, he or she becomes a 'patient' and the object of planning and evaluations that risk reducing the discursive universe that gives voice to the person's experience. Starting from the individual stories of those who have experienced a DNA, investigated using the methods of autoethnography and duoethnography, the cooperative and performative research that is the subject of this article has been proposed as a pathway for the emergence of stories and bodies that has also taken on a political value. The sharing of individual stories within relational, and collective learning devices, and the use of performance art as a political act to express dissent, made it possible to give citizenship to the grief of those who had experienced a DNA and to keep alive a transformative tension in the stories.
Keywords: Eating Disorders, Performative research, Narration.
Premessa
Il contributo descrive il percorso e i primi effetti generati da una ricerca performativa sul tema dei Disturbi della Nutrizione e Alimentazione (DNA) realizzata nel nord Italia, in provincia di Lecco, e che ha coinvolto enti di terzo settore, cittadini e professionisti attivi in ambito culturale e artistico. L’approccio alla ricerca si è fondato su un’epistemologia sistemica e relazionale (Formenti, Luraschi e Cuppari, 2023) e sul riconoscimento del potere agentivo e politico dei corpi nello spazio pubblico (Barad, 2007; Butler, 2017). Obiettivo principale del lavoro era quello di provocare una riflessione sulla tendenza a considerare il disagio dei corpi come un problema riconducibile alla sola sfera individuale e che spesso trova forza nel potere definitorio della diagnosi. La diagnosi, infatti, non è un “progetto innocente” (Urbistondo-Cano e Simon, 2022, p. 136) e porta con sé il pericolo di un’unica storia, fissa, satura e che parla unicamente la lingua della patologia (Cuppari e Formenti, 2023).
La ricerca si è composta di due fasi propedeutiche che hanno creato le precondizioni affinché la fase performativa, oggetto di questo contributo, potesse innestarsi. Il percorso, iniziato a ottobre 2022, ha visto noi ricercatrici impegnarci in una prima fase di scrittura auto-etnografica, volta a posizionarci e a connetterci con la letteratura scientifica che ha indagato il tema dell’anoressia da un punto di vista auto-etnografico, avendo entrambe avuto un passato di anoressia (Cuppari e Luraschi, 2023a). L’analisi della letteratura ci ha permesso di avere coordinate teoriche ed empiriche entro cui collocare il nostro discorso. Negli studi presi in esame viene sottolineata la necessità di far emergere esplicitamente la voce delle anoressiche, oltre le prospettive interpretative dominanti, quella medica e quella femminista. In entrambe le visioni viene confermata una scissione che, nel discorso medico, si focalizza sulla polarizzazione tra mente e corpo che produce un sé disincarnato mentre, nelle teorizzazioni femministe, riguarda l’individuo e la cultura che produce un corpo senza sé (Lester, 2018).
Nella seconda fase della ricerca abbiamo riscritto le nostre storie individuali, attraverso il metodo duoetnografico (Norris, Sawyer e Lund, 2012), riconoscendo, in questo atto narrativo, un potenziale trasformativo e informativo utile, non solo a rileggere la nostra storia personale, ma anche professionale di cooperatrici sociali attive nell’ambito della relazione di cura (Cuppari e Luraschi, 2023b). Questa fase del lavoro ha fatto emergere come metafora connettiva quella della gravità. La gravità se da un lato è comunemente interpretata come condizione di pericolo a cui i corpi sono esposti a causa di comportamenti che, nell’anoressia, li deprivano del nutrimento necessario a sopravvivere, dall’altro lato ha in sé anche la forza attrattiva a cui tutti i corpi sono assoggettati. Lo stesso corpo anoressico attrae sguardi preoccupati, di dissenso o disgusto. Nominare e accogliere le tensioni che abitano una condizione di “gravità” ci ha consentito, attraverso la riscrittura, di riconoscere anche il desiderio di vita e di visibilità insito nel dolore che, se non respinto, può fare del “peso” che affligge una spinta verso la trasformazione (ibidem).
Questo movimento di “uscita dal nascondiglio” ha preso avvio dalla parola che, dallo spazio privato della dimensione intrasoggettiva, ha iniziato ad abitare uno spazio relazionale e intersoggettivo. Questa terra di mezzo, nutrita dalla pratica della scrittura duo-etnografica, è diventata teatro in cui apprendere a disapprendere (Bateson, 1976) le modalità abituali in cui eravamo solite raccontarci e in cui tenere viva una tensione tra l’esistente e il possibile, ricercando inedite connessioni capaci di generare trasformazioni dentro le nostre storie.
Uscire allo scoperto: dal “disturbo” individuale al movimento performativo collettivo
L’uscita allo scoperto dei nostri discorsi sul corpo e sulle nostre esperienze di anoressia ha generato ad un certo punto il bisogno di coinvolgere attivamente i nostri corpi in relazione, riconoscendone la peculiarità della loro voce politica.
Come afferma Straniero (2018) riprendendo Bordieu, “tutto quello che si fa con il corpo o che si mette su di esso pone l’individuo in una determinata posizione, in un certo spazio” (ivi, p. 64). Il corpo e la sua voce sono da sempre oggetto di azioni volte a disciplinarli, attraverso discorsi culturali che, a seconda delle diverse epoche storiche, hanno messo maggiore enfasi sul ruolo dello Stato o sulla responsabilità individuale. Il controllo sociale delle forme del corpo e dei loro appetiti (anche sessuali) chiama in causa la dicotomia natura-cultura e posiziona i corpi e i comportamenti dentro confini di legittimità sociale (ibidem). Ciò che non trova legittimità diventa “disturbo” (in inglese disorders): il disturbo, tuttavia, nel linguaggio medico e nel senso comune, finisce con il perdere ogni riferimento con la dimensione relazionale e culturale che lo ha generato e significato per divenire problema unicamente individuale, diagnosi inscritta nel corpo.
Haraway (2024) ha dedicato molta attenzione alle strutture tropologiche e metaforiche con cui vengono affrontati alcuni problemi e trovate immagini e parole per definirli. Staying with the trouble (Haraway, 2016), stare quindi in relazione con ciò che “disturba” offre per la filosofa la possibilità di apprendere a stare in questa epoca disturbante e coglierne il potere informativo, spiazzante e generativo delle differenze. Una conoscenza siffatta non può che attingere a metodi modesti, disordinati e vulnerabili, profondamente relazionali (Barad, 2007), metodologie incorporate dove chi ricerca è in relazione viva e attiva con le crisi di questo tempo.
La ricerca performativa si fonda sull’idea che tutti i corpi hanno agentività e che materia e significato sono profondamente intrecciati in atti performativi (Barad, 2007). Ne deriva una teoria pratica che intreccia azione e conoscenza, in cui chi ricerca è parte attiva e partecipa alla costruzione del sapere e nel fare questo mette in crisi le categorie tradizionali della ricerca: i dati non sono più “dati” ma co-generati nell’intrazione (intra-action) con il contesto (Barad, 2007). Le ricercatrici sono così impegnate con il proprio corpo sensibile e sensuale nell’analisi e nella comprensione di ciò che accade nel processo. Il loro posizionamento non è statico ma cambia con il procedere stesso della ricerca in un intreccio, eticamente impegnato, di materialità, discorsività e socialità (Ostern et al., 2021), attraverso “forme di analisi multiple che moltiplicano il senso e aprono a possibili trasformazioni” (Luraschi, 2021, pp. 88-89).
La scelta performativa è quindi maturata nel naturale procedere del percorso di messa in movimento delle nostre storie e del materiale narrativo raccolto durante le fasi auto-etnografiche e duo-etnografiche della ricerca. Nel prossimo paragrafo verrà brevemente descritto il processo che ha portato alla realizzazione della video-performance Mangia e in quello successivo ci soffermeremo sui primi risultati generati dal processo.
Tana libera tutti: dal linguaggio scritto all’azione performativa nello spazio pubblico
La “svolta performativa” (performative turn) nella ricerca etnografica nasce dalla consapevolezza dell’esistenza di un doppio limite che vede da un lato voci incorporee (bodiless voices) nella scrittura etnografica e, dall’altro, corpi senza voce (voiceless bodies) che desiderano resistere ai poteri colonizzanti del discorso (Langallier, 1999, p. 126).
Nell’ambito della nostra ricerca sui DNA, questa riflessione condivisa sui nostri corpi e sul nostro passato di anoressia ci ha condotte quasi inevitabilmente al bisogno di “ridare corpo” alle nostre esperienze dentro una scena che presto si è aperta all’esistenza di altre storie. Fin dalla pubblicazione del nostro primo articolo e alla condivisione sulle piattaforme digitali social del percorso di ricerca che stavamo conducendo, siamo entrate in contatto con l’esperienza di altre persone che avevano vissuto in prima persona o da vicino un DNA. Il venire a contatto con queste storie ci ha interrogate circa l’impatto politico del percorso di ricerca che stavamo conducendo. In particolare, la possibilità di far uscire il disagio da una dimensione esclusivamente individuale e da un universo discorsivo che lo relega, in quanto epidemia, nell’ambito della biologia (e quindi dell’inenarrabilità), ci ha consentito di restituirgli cittadinanza dentro la complessità dell’esperienza umana[1].
L’esperienza umana è caotica e disordinata e richiede una pluralità di metodi di conoscenza che sappiano ribaltare i discorsi in una costante emancipazione dei significati. Nella ricerca performativa ciò accade non solo concettualmente ma anche metaforicamente e fisicamente (Spry, 2001). Nella terza fase della ricerca abbiamo raccolto così il materiale narrativo tratto da libri (biografie scritte da persone con storie di DNA, romanzi sul tema, componimenti poetici, …), podcast, articoli di giornale ed eventi realizzati in provincia di Lecco e Milano, da noi organizzati tra febbraio e inizio giugno 2024. La raccolta del materiale narrativo era finalizzata alla creazione di una video-performance collettiva che potesse portare punti di vista altri sui DNA ed essere utilizzata per gli sviluppi del progetto[2]. Gli eventi hanno riguardato:
la nostra partecipazione come discussant alla presentazione di un romanzo fantasy a sfondo autobiografico sul tema dell’anoressia (Alzati e Acerbi, 2023) nella città di Lecco;
due workshop narrativi, uno online e uno in presenza, aperto a persone che avevano incontrato o vissuto sulla propria pelle l’esperienza di un DNA: le parole chiave selezionate insieme alle partecipanti sono state la base per costruire i gesti del flash mob collettivo;
incontri di improvvisazione e composizione coreografica a partire dal materiale narrativo raccolto e che ha coinvolto dapprima un coreografo e Antonella, quest’ultima in qualità di ricercatrice con competenza nell’uso di metodologie di ricerca dance-informed, e poi Silvia e una seconda danzatrice: insieme hanno costituito il gruppo di quattro interpreti delle prime tre scene della video-performance;
un flash mob collettivo dove hanno preso forma le parole raccolte nei workshop narrativi. Al flash mob, che è andato a comporre la quarta scena della video-performance, hanno partecipato più di venti persone afferenti a scuole di danza, compagnie teatrali, operatori sociali, ricercatori accademici, coinvolti attraverso call pubbliche e passaparola.
La creazione della video-performance ha visto quindi la creazione di un gruppo di ricerca e lavoro misto che ha messo in relazione il mondo accademico con quello delle professioni artistiche e del lavoro sociale. Insieme a noi hanno collaborato oltre al coreografo-danzatore e alla danzatrice professionista, entrambi con una storia di DNA, un musicista e un videomaker, entrambi con un’esperienza professionale in campo sociale e teatrale.
In fase di progettazione della video-performance ci siamo a lungo confrontati come gruppo di ricerca sul materiale narrativo selezionato durante le fasi propedeutiche e sul tipo di struttura narrativa che volevamo creare. Metodologicamente ci è stato utile riferirci ad altre ricerche dance-informed (Bangley e Cancienne, 2002; Cuppari, 2024; Ferri, 2018). Il processo di composizione coreografica e musicale ha seguito un percorso per fasi simile a quello indicato da Cancienne (2012, tabella 1). In un primo momento, Antonella insieme al coreografo e al musicista hanno portato il materiale narrativo dal mondo esterno al mondo interno immaginativo (taking-in). Successivamente, ci si è focalizzati sulle risonanze sensoriali, evocative e corporee presenti nei testi (feeling), poi tradotte in immagini e movimento attraverso l’improvvisazione e composizione coreografica. Questo terzo passaggio, che si è allargato anche a Silvia e alla seconda danzatrice, ha dato forma alle prime tre scene e ai gesti del flashmob (imaging and transforming). Infine, coreografie e gesti del flash mob sono andati a comporre le scene della video-performance (forming).
Tabella 1. Fasi del processo creativo ispirate al modello di Cancienne (2012).
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Dalla parola alla danza, dalla danza alla parola: produrre ambiguità per trasformare le narrazioni sociali intorno ai DNA
“Ci sono storie che intrappolano e storie che salvano. […]
È sorprendente accorgersi di quanto poco basterebbe
per vivere, o sfiorare vite, radicalmente diverse.”
(Aviv, 2023, pp. 32-35)
La video-performance Mangia è stata presentata in occasione della Giornata mondiale della salute mentale del 10 ottobre 2024, attraverso una campagna di divulgazione mediatica che ha coinvolto, per il momento, i canali di comunicazione digitale degli enti sostenitori del progetto (figura 1).
Come insegnano gli studi sull’arts-based research (Leavy, 2009), prerogativa dei linguaggi artistici è quella di innestare nel processo di ricerca una productive ambiguity (Eisner, 1997), un’ambiguità cioè capace di trasformare le tensioni che disturbano le attuali comprensioni in opportunità di apprendimento individuale e collettivo. Influenzata principalmente dalla descrizione delle esperienze estetiche di Dewey (1934) e dalla nozione di flusso di Csikszentmihalyi (1990), l’ambiguità diventa per Eisner produttiva quando l’incontro con la differenza e con un linguaggio altro stimolano curiosità, immaginazione e la considerazione di nuove possibilità e prospettive (Shipe, 2019). Al fine di conferire al video tale ambiguità, si è scelto di dare alla sceneggiatura una struttura semplice, di caratterizzare poco i personaggi e di non inserire nella traccia audio i testi del materiale narrativo delle precedenti fasi di ricerca e che hanno ispirato la danza, fatta accezione per una frase in apertura che ha avuto la funzione di contestualizzare al minimo quello che seguiva.
Il video si è così composto di quattro scene sostanziali:
Scena 1: una persona arriva correndo dal bosco, scende delle scale di un centro sportivo che portano in uno spogliatoio; lì comincia a svestirsi.
Scena 2: nello spogliatoio c’è un’altra persona che tiene tra le mani una grande cornice. Le due persone sono ora entrambe vestite dello stesso colore, nero, e iniziano una danza di rispecchiamenti.
Scena 3: la persona che era arrivata nello spogliatoio si trova spinta, respinta fuori nel corridoio dove altre due persone, vestite di rosso, la tirano, si lasciano tirare, la seguono nel movimento, la prendono in braccio, la posano a terra, l’abbracciano e poi, gradualmente, tutte e tre si dirigono verso le scale e l’uscita (figura 2).
Scena 4: le tre persone sono ora affacciate su di un campo di calcio che dà su un paesaggio naturale di lago e montagna. Nel campo ci sono altre persone che danzano una coreografia comune di gesti, poi queste raggiungono le tre e tutte insieme cominciano una processione che si inoltra nel bosco, da dove la persona all’inizio del video era giunta.
Al fine di raccogliere i primi effetti generati dal processo di realizzazione del video e dalla visione dello stesso, abbiamo chiesto alle persone che hanno partecipato alla realizzazione del video di condividere le loro riflessioni sull’esperienza, per dare valore non solo al risultato finale (il video) ma anche al processo che lo aveva generato. Di seguito alcune restituzioni[3]:
Per quanto mi riguarda quello che mi ha colpito molto della giornata di riprese è stato essere come in una condizione surreale, mi sono sentita staccata dal resto del mondo, dalla quotidianità. Questa è stata la componente emotiva prevalente. Un’altra cosa che mi ha colpito è lo sguardo di P. durante i momenti di relazione, molto intenso, molto forte, al punto tale che mi sono resa conto che, quando la mia attenzione si abbassava nella ripetizione, il suo sguardo mi rendeva consapevole di questo abbassamento di livello, questo filo molto forte nel contatto dei nostri occhi. E poi sono stata colpita dal dito (rotto) di A., anche se so che nel lasciarsi prendere dal flusso, dal flusso bisogna saper prendere quello che arriva.
Ripenso ancora ad A., al suo dito rotto.
Per me è stato importante partecipare a questo flash mob. Ho un’amica che in questo momento è ricoverata in ospedale per anoressia ed essere qui è un modo per farle sentire che ci sono.
Nella prima citazione, il tema dello sguardo nel rispecchiamento e nella ripetizione assume una qualità differente rispetto a quanto emergeva dal materiale narrativo di partenza: mentre nei testi originari esso era intriso di giudizio e di controllo, qui ora lo sguardo diventa relazione e possibilità di situare il corpo, di renderlo nuovamente presente. Questa differenza può diventare così informazione per avere nuove chiavi di lettura delle storie e aprire nuove possibilità di azione.
Nelle prime due citazioni, inoltre, viene rievocato l’incidente che ha provocato un piccolo infortunio ad Antonella. Questo è avvenuto durante le riprese della terza scena, che per noi rappresentava il processo di cura che può aiutare le storie a “uscire allo scoperto”. Sia l’evento della frattura che la visione del video ci ha messo invece di fronte alla complessità di questa scena che non era fatta solo di movimenti carezzevoli ma era espressione delle tensioni che attraversano il percorso che porta una storia ad abitare lo spazio collettivo.
Nella terza citazione, infine, pronunciata da una delle partecipanti al flash mob, viene espressa la vicinanza emotiva con l’esperienza di anoressia di una persona cara e che passa per un esserci che coinvolge l’intero corpo e la sua relazione con la scena pubblica.
Il processo di realizzazione del video e la possibilità di cominciare a prenderne le distanze per guardare gli effetti generati dalla sua ambiguità produttiva ci sta offrendo la possibilità di sentirci parte di una vicenda collettiva, come esemplificato nella poesia che chiude la video-performance e scritta dopo la giornata di riprese:
La forma di un corpo non dice
del suono inudibile delle ossa
del tempo scandito dal petto
della fame delle mani
siamo forti di una forza incapace
di reggersi sulle proprie gambe
la forza dei nostri corpi
ha la forma di un abbraccio
(A. Cuppari)
Nel momento in cui stiamo scrivendo abbiamo scelto, in accordo con gli interlocutori del territorio che fino ad oggi hanno sostenuto la ricerca, di utilizzare la video-performance come stimolo per avviare un processo di riflessività critica collettiva sul tema che possa coinvolgere agenzie educative del territorio (istituti scolastici, centri diurni), presidi socio-sanitari, operatori sociali, volontari e cittadini.
Conclusioni
In un recente articolo uscito su “Animazione sociale”, storica rivista degli operatori sociali, il filosofo Marco Rovelli pone l’attenzione sulla necessità di riattivare la dimensione politica (nel senso di prendersi cura della polis, della vita in comune) nella cura del disagio psichico. Il presupposto è quello per cui ciò che diciamo di essere e ciò che siamo ha una natura fondamentalmente relazionale ed è l’emergenza di un processo che lo precede (Rovelli, 2024). In particolare, l’autore si sofferma sulle caratteristiche di una società della performance che spinge le persone ad evitare il fallimento, a inseguire il successo in ogni campo e a competere e che genera nei giovani (e non solo) forme di sofferenza depressive (tra cui viene citata anche l’anoressia).
Tali riflessioni sono molto in linea con la “svolta relazionale” che sta attraversando diversi ambiti di studio e di ricerca (Barad, 2007). Ci sembra interessante notare come, nell’ambito della ricerca oggetto di questo contributo, la parola “performance”, che nel discorso di Rovelli è il diktat imposto dalla società e da contrastare, è diventata nella ricerca da noi proposta un metodo con il quale decostruire e ricostruire le narrazioni intorno ai Disturbo della Nutrizione e Alimentazione (DNA). Entrambi i significati attribuiti alla parola diventano veri in relazione al con-testo a cui si riferiscono e la possibilità di vederli entrambi permette di rivitalizzare la nostra relazione con le parole che scegliamo per raccontare e raccontarci.
In questa possibilità di prendersi gioco delle parole riteniamo si possa collocare il senso di una ricerca che si pone in modo vivo, attivo e, perché no, anche irriverente (Cecchin, 1987) con i discorsi del nostro tempo. La possibilità di “dare corpo” al disagio psichico individuale dentro una dimensione relazionale e collettiva ha permesso di connettere esperienze individuali, farne emergere le forze insite nella relazione per dar forma a nuove storie che si sono posizionate sulla scena pubblica. L’utilizzo di metodologie arts-informed (Leavy, 2009) ha inoltre consentito di generare una “produttiva ambiguità” (Eisner, 1997) che, pur attingendo dal materiale narrativo raccolto durante le precedenti fasi di ricerca, ne ha preso le distanze, permettendo agli attori di divenire spettatori attivi delle proprie storie.
Tale danza dei posizionamenti può costituire il pre-testo per decostruire alcune parole che abitualmente gravitano intorno all’esperienza di chi vive un DNA e provare a riabitarle in modo rinnovato. Questo approccio nei confronti delle storie di sofferenza, anche quelle non riconducibili a un’etichetta clinico-diagnostica, si avvicina a quell’attitudine che la sociolinguista Vera Gheno (2024) definisce grammamore, cioè l’impegno a instaurare con le parole una vera e propria relazione d’amore, sana, libera e matura, riconoscendo in questo impegno il potere di cambiare il mondo: perché la salute passa anche dalle parole.
Riferimenti bibliografici
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Aviv R., Stranieri a noi stessi, Iperborea, Milano 2023.
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Butler J., L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell'azione collettiva, Nottetempo, Milano 2023.
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Le autrici
Antonella Cuppari, PhD., tutor e cultrice della materia in Consulenza familiare (laurea magistrale in Scienze pedagogiche), collabora con il dipartimento di Scienze umane per la formazione R. Massa, Università degli studi di Milano Bicocca. È responsabile dell’Area sociale della cooperativa sociale La Vecchia Quercia di Calolziocorte (LC) e dell’Area ricerca e innovazione dell’Impresa sociale Girasole di Lecco (LC). È danzatrice nel collettivo di performers brianzoli Osteoporosys Dance Theatre (Piero Bellotto). Per Edizioni Dialoghi ha pubblicato la silloge poetica Che fine fanno i corpi (2023). Silvia Luraschi, PhD., pedagogista, analista biografica a orientamento filosofico – Sabof, couselor e insegnante di Metodo Feldenkrais. È professoressa a contratto in Consulenza pedagogica presso l’Università degli studi di Bergamo. Collabora con il dipartimento di Scienze umane per la formazione R. Massa, Università degli studi di Milano Bicocca in qualità di cultrice della materia, docente a contratto e ricercatrice esterna. È autrice del libro Le vie della riflessività: per una pedagogia del corpomente (Armando, 2021). È coordinatrice di servizi educativi complessi presso la cooperativa sociale Comunità Progetto di Milano.
Note
[1] A tal proposito è da notare come, nel volume curato dal Ministero della Salute che discute i risultati del progetto CCM – Piattaforma per la lotta alla malnutrizione in tutte le sue forme (triplo burden: malnutrizione per difetto, per eccesso e da micronutrienti) (Dalla Ragione, Vicini, De Santis e Ferri, 2022), si parli di DNA come di un’epidemia nascosta, richiamando quindi un universo discorsivo che si riferisce alla diffusione per contagio di una malattia e che poco ha a che vedere con i DNA.
[2] Le attività legate a questa fase di ricerca, compresa quella di creazione del video, sono state realizzate grazie al supporto, anche economico, di due Enti di Terzo Settore della provincia di Lecco per cui Antonella lavora come responsabile dell’area sociale e culturale (cooperativa sociale La Vecchia Quercia, Calolziocorte) e referente dell’area ricerca e innovazione di Impresa Sociale Girasole (Consorzio Consolida, Lecco).
[3] Le restituzioni sono estratti dalla trascrizione anonimizzata di messaggi via Whatsapp che le ricercatrici hanno raccolto con il consenso dei/delle partecipanti nei giorni seguenti il flash mob.