“Prove tecniche” di scrittura tra sociologia, teatro sociale e cinema documentario | “Technical Redoings” of Writing: Sociology, Social Theatre, and Documentary Cinema
DOI: 10.5281/zenodo.14603035 | PDF
Abstract: Il contributo presenta un processo di scrittura condivisa realizzato a partire da una intervista che è stata anche video-registrata con l’idea di associare a questo articolo un podcast. Le prospettive analizzate sono due: una epistemologica, legata alla esplicitazione delle conoscenze e una metodologica, connessa con il modo in cui questo testo è stato redatto.
Parole chiave: scrittura condivisa, teatro, sociologia, documentario, ricerca collaborativa.
Abstract: The contribution presents a shared writing process created starting from an interview which was also video-recorded with the idea of associating a podcast with this article. The perspectives analyzed are: an epistemological one, linked to the clarification of knowledge and a methodological one, connected with the way in which this text was drafted.
Keywords: Shared writing, theatre, sociology, documentary, collaborative research.
Premessa
Questo contributo nasce dall’idea che la scrittura possa essere considerata uno spazio materiale e immateriale di riflessività e di rielaborazione tra pari (Kaufman, 2013). I tre autori (una sociologa accademica, un’operatrice di teatro sociale, un documentarista) per anni hanno condotto un proprio percorso di studio e di sperimentazione sulle forme e la valenza che può assumere l’uso di strumenti partecipativi nel proprio lavoro quotidiano (nella ricerca sociale, nell’ambito del teatro sociale e del video-documentario). Tra il 2023 e il 2024 gli incontri sporadici tra loro, che erano avvenuti in modo saltuario e a geometria variabile, sono diventati “interazione focalizzata” (Goffman, 2008). Accanto al piacere di sperimentare individualmente si è scelto, quindi, di confrontarci e avviare una riflessione comune. Questo ha portato alla determinazione di dedicare tempo e attenzione a ciò che ognuno di noi conosceva e aveva provato sul “campo”.
È grazie a questa circostanza (Becker, 2007) che si è scelto di imbastire una scrittura collaborativa su un tema di interesse comune: la sperimentazione degli strumenti e dei metodi di coinvolgimento delle persone che abitano e vivono i luoghi in cui si decide di lavorare.
Si è pensato infatti che l’uso di questo tipo di scrittura potesse essere utile per mettere a fuoco e, allo stesso tempo, far evolvere la riflessione su alcuni aspetti di natura metodologica. La scrittura collaborativa è stata una “palestra” in cui allenarsi a mettere a punto, in maniera situata, i temi e i tempi di lavorazione da condividere. Inoltre, il decidere insieme cosa e come scrivere ha avuto una triplice valenza: è stato un esercizio di riconoscimento intersoggettivo; è servito per prendere le distanze da se stessi, in quanto professionisti, e guardare, così, al personale posizionamento sul campo; è stato utile per verificare se (e quanto) la propria cassetta degli attrezzi fosse adatta a supportare i processi di co-produzione di conoscenza.
È interessante sottolineare che la possibilità che ci si è dati di scegliere questo approccio nasce dalle biografie dei tre autori: una sociologa che si occupa di strumenti partecipativi, ricercatrice di professione dentro l’università, un’operatrice di teatro sociale e docente invitata di Teatro dell’oppresso in un istituto universitario e un documentarista, con diversi anni di insegnamento presso un’accademia di design e comunicazione.
È anche per questo che il contributo assume il valore di una “prova tecnica”, come direbbe Goffman (2001, pp. 96-109), in cui “tutte le parti possibilmente sono provate insieme e la prova finale, insieme a un copione, permettono più o meno un’anticipazione completa di ciò che avverrà in circostanze reali” (ivi, p. 97).
1. “Prove tecniche”, ovvero: il processo di scrittura collaborativa
La scrittura di un testo a più mani può tradursi in gradi diversi di partecipazione. Non è detto infatti che l’esperienza di collaborative writing sia il frutto di una interazione fra pari ma può essere anche l’esito di un processo di apprendimento asimmetrico (“mentoring” o “directing”) tra un docente-maestro, ad esempio, e uno studente-apprendista (Hart, 2000). Quella di cui però parleremo in questo testo è quella indicata in alcuni studi come “collegial” in cui “authors sharing the work how colleagues” (ivi, p. 342).
Nel momento in cui si è iniziato a mettere in pratica questa modalità di scrittura si è avuto conferma di come siano necessarie alcune competenze relazionali e organizzative che si richiamano di seguito e che verranno riprese nelle nostre conclusioni. Alcune di queste probabilmente è utile già possederle (specialmente se il tempo a disposizione è poco), altre invece possono essere apprese e affinate anche durante il processo di scrittura collettiva.
Man mano che il lavoro di stesura dell’articolo è proseguito si è prestata attenzione a creare i presupposti per una interazione e un confronto tra gli autori: ad esempio, le riunioni sono state fissate per tempo e il testo e i materiali sono stati condivisi attraverso delle cartelle su cloud. Accanto a questo aspetto, è stato necessario prendersi il tempo per confrontarsi su come comporre le idee diverse o gli stili di scrittura differenti. Ha di certo avuto una funzione facilitante l’essere avvezzi alla pratica della gestione alternata dei tempi individuali e del tempo collettivo nell’ambito della produzione, rendendo più semplice l’intreccio di momenti di scrittura individuale con momenti di rilettura comune in cui vagliare, annettere o espungere i suggerimenti che ciascuno aveva prodotto su quanto scritto dall’altro. A tal proposito siamo intervenuti sullo scritto con modalità differenti: in alcuni casi è stata utilizzata la classica funzione di revisione proposta da un foglio Google condiviso, in altri si è proceduto attraverso evidenziazioni di colore diverso che mostravano quanto aggiunto e/o tagliato del testo su cui avevano lavorato gli altri e, in altri ancora, attraverso l’inserimento di commenti che anziché intervenire direttamente sul testo suggerivano modifiche in una colonna a margine del testo stesso. Tutto ciò sempre al fine, comune e triplice, di permettere ad ogni co-autore di seguire il filo del ragionamento degli altri, di rendere simmetrico il potere di scrittura, correzione e ri-scrittura e, infine, di contrastare l’“effetto Ctrl Z”, ovvero poter salvare dall’oblio della cancellazione l’evolversi della materia riflessiva.
È stato, infine, importante che i tre autori avessero dimestichezza con l’ascolto degli altri e l’abitudine a prendere decisioni ponendo le questioni in termini non solo di problem solving, ma anche di problem setting. A questo proposito, ci si è così chiesti come riuscire a dare spazio alle conoscenze di tutti e tre: scrivere singolarmente e condividere i diversi contenuti? Scrivere reagendo a quanto scritto dagli altri? Rispondere autonomamente alle stesse sollecitazioni? Rispondere contemporaneamente a domande poste da un soggetto esterno?
In ultima analisi, possiamo dire che è servita una buona capacità di autoriflessione e di gestione dei micro-conflitti che di volta in volta affioravano (Shafie, Maesin, Osman, Nayan e Mansor, 2010).
Decidere di scrivere insieme ad altri, oltre alle difficoltà appena prospettate, presenta però anche dei vantaggi. I principali probabilmente sono riconducibili alla possibilità di arricchire il testo grazie all’intreccio dei diversi punti di vista, facilitando anche la contaminazione tra le differenti conoscenze e competenze (Curtis e Lowry, 2004) in modo anche da supportare con più efficacia i risultati del proprio lavoro di ricerca (Hart, 2000).
Si tratta di una scrittura che custodisce delle ambivalenze, forse anche delle polisemie. È certamente più faticosa di quella individuale. Si richiede di riscrivere, chiarire, spiegare anche più volte e a seguito dei suggerimenti degli altri. Si richiede la pazienza di co-progettare e poi di modificare in corsa il progetto senza smettere di condividerne forme e obiettivi. Probabilmente allena anche a vivere in maniera meno impattante la frustrazione che può derivare da un referaggio cieco non del tutto positivo. Al contempo può arrivare a diventare, anche, uno spazio di “liberazione” per il ricercatore stesso:
Although equal in academic rank and status, the authors work in separate disciplines, a difference that has contributed to conflicts of voice, authority, and commitment in their research. Such problems notwithstanding, the authors conclude by suggesting that heteroglossic reports may have a liberating effect on researchers as well as on the ethnographic others they represent (Kirsch e Mortensen, 1996, p. 28).
La negoziazione dei significati e dei contenuti, la determinazione di un linguaggio e di uno stile comune nonché l’accoglienza reciproca di saperi diversi presuppone, però, il riconoscimento degli altri autori come competenti e come “in grado di” generare nuova conoscenza scientifica (Decataldo e Russo, 2022; Beresford, 2000). La scrittura collaborativa diventa anche spazio di gestione delle asimmetrie di potere (Cahusac de Caux e Pretorius, 2024). Questa considerazione assume maggiore rilievo se i co-autori appartengono a campi di sapere e mestieri differenti, come in questo caso, e non sono solo accademici dello stesso ambito disciplinare che per mestiere sono socializzati a un certo tipo di scrittura. Nell’atto di costruire un’esperienza di collegial writing va posto in evidenza, dunque, come abbia avuto una valenza sperimentale la messa in dialogo anche di codici e strutture semiotiche differenti. Ciascuno dei tre autori aveva di fatto già precedentemente praticato forme di scrittura collaborativa, in seno al proprio ambito di lavoro: scrittura drammaturgica scaturita dalla conoscenza “incorporata” (embodied) e dall’azione traslata all’interno di un atto performativo in un caso, scrittura che precede la produzione audiovisiva in un altro, scrittura accademica che intreccia risultati di ricerca sul campo a riflessioni teoriche in un altro ancora.
Come vedremo nella seconda parte dell’articolo, è proprio mettendo al centro le nostre differenze “radicali” (Cardano e Gariglio, 2022) che abbiamo trovato una traiettoria che fosse convincente e condivisibile per tutti e tre e che allo stesso tempo potesse rendere intellegibile, anche ad altri, il processo partecipativo che sta alla base di questo contributo.
Ciò che è apparso subito evidente è stata la necessità di muoverci dentro un frame teorico che, da un lato, valorizzasse i singoli background formativi tra loro molto distanti, e dall’altro, avesse dei punti di contatto così da permetterci di dialogare e di definire insieme una domanda cognitiva e un metodo di lavoro.
2. La co-autorialità, ovvero la cornice teorica, la domanda e gli strumenti di ricerca
Il tempo e la relazione hanno giocato un ruolo fondamentale per individuare un terreno comune. La cornice teorica è diventata gradualmente sempre più nitida2 e questo ci ha permesso di combinare i principi pedagogici dell’educazione popolare (Freire, 1967; 1970) e il modello metodologico del teatro sociale (Bernardi, 2004) e della drammaturgia di comunità (Dalla Palma, 2002) con l’autonomizzazione della produzione audiovisiva emancipata da media, istituzioni e mercato (Cattaneo et al., 2007) e la sociologia pubblica e critica (Burawoy, 2007; Gorur, Landri e Normand, 2023).
Elemento in comune e trasversale tra questi tre approcci è il rilievo dato a tre aspetti: 1) la co-produzione della conoscenza (Tarsia, 2023; Bell e Pahl 2018) e quindi il riconoscimento dell’esistenza di saperi diversi (Giorgi, Pizzolati e Vacchelli, 2023; Pellegrino e Massari, 2021) e della necessità di un approccio interdisciplinare (Tarsia, 2024); 2) il riconoscimento di un tema comune come motore del processo di ricerca e di costruzione della relazione, in un’ottica di “interdipendenza del compito” (Lewin, 1948), in quanto la pluralizzazione dei problemi e la ricerca comune delle soluzioni favoriscono processi di “impoteramento” personale e collettivo (sull’uso di “impoteramento” anziché empowerment: Nadotti, 1998; Borghi, 2020). Ci si interroga e si analizza insieme per poi intervenire sulla realtà modificando il percorso individuale di ciascuno; 3) la narrazione come momento di ricomposizione del disordine che caratterizza l’esperienza di vita delle persone, siano esse i ricercatori o i soggetti che "abitano" il campo (Rice, LaMarre, Changfoot e Douglas, 2018).
In questo frame teorico si è deciso di rispondere a queste due domande: la scrittura collaborativa tra autori di discipline e professioni diverse facilita un’azione di “riflessione in azione” (Schön, 1993)? Inoltre, può tale scrittura supportare l’esplicitazione di saperi taciti e incorporati (Polanyi, 2018) utili a co-costruire concettualizzazioni nel campo accademico e nel lavoro sociale?
Punto di partenza della scrittura collaborativa è stato sottoporsi a un’intervista discorsiva (Cardano e Gariglio, 2022) che chiamasse in gioco uno sguardo esterno. È stato necessario individuare un intervistatore che definisse le domande e realizzasse l’intervista. Abbiamo chiesto la collaborazione di Giada Maria Tripodi, proponendole di usare la nostra conversazione come materiale di lavoro per la sua tesi sulle asimmetrie di ruolo fra ricercatore e partecipante, terapeuta e paziente – la ringraziamo per l’attenzione con cui ha costruito la traccia delle domande e per la cura con cui ha svolto l’intervista. Anche la modalità di svolgimento dell’intervista è stata oggetto di discussione: intervista singola, a coppia, a tre? In presenza o a distanza? Audio-registrata o anche con video? Sarebbe stato meglio conoscere le domande prima oppure no? La scelta è ricaduta su una intervista a tre voci, in presenza, audio e video-registrata di cui si conoscevano gli assi tematici ma non le singole domande.
3. Simulare la prova, ovvero: la realizzazione dell’intervista
La simulazione della prova prende avvio un lunedì afoso di inizio estate del 2024. Si decide di incontrarci presso la sede del Comitato AddioPizzo onlus di Messina (che ringraziamo per la disponibilità: la scelta degli spazi ha un suo rilievo, soprattutto nella ricerca che usa metodi partecipativi e creativi) dove è stata allestita, in modo permanente, una piccola sala incisione che viene usata per registrare dei podcast. Siamo in quattro: i tre autori e la studentessa incaricata di intervistarci. Nell’ottica della sperimentazione, l’intervista è stata anche video-registrata con l’idea di associare a questo articolo un podcast: tra le possibilità si è anche immaginato di verificare se l’uso di due linguaggi, quello della scrittura e quello audio-visuale, potessero servire a promuovere l’interesse per i contenuti di questo contributo anche all’esterno dal target accademico “fisiologicamente” più affine al formato e al linguaggio del contributo stesso. Le domande proposte dall’intervistatrice hanno sollecitato i tre autori su questioni come: la costruzione della domanda cognitiva, la committenza, l’uso di tecniche e strumenti di lavoro, l’etica della ricerca, il posizionamento sul campo, il livello di coinvolgimento delle persone nelle diverse fasi del lavoro. Sono temi noti ma qui affrontati in una cornice meno tradizionale, ovvero quella degli strumenti partecipativi e creativi (Giorgi, Pizzolati e Vacchelli, 2022).
Alle domande poste i tre autori hanno risposto senza seguire un ordine prestabilito, bensì a partire da chi si sentiva maggiormente sollecitato e successivamente gli altri, come vedremo nell’esempio riportato nel prossimo paragrafo, si agganciavano a volte riprendendo e confermando un tema o una frase, a volte discostandosi, secondo un processo dialogico che ha alla base l’esigenza di problematizzare la realtà rendendo solidali il riflettere e l'agire dei rispettivi soggetti (Freire, 1970).
4. Un esempio di scrittura collaborativa: come si costruisce la domanda nella ricerca partecipativa?
Di seguito riportiamo il dialogo tra i tre autori in riferimento ad uno dei temi su cui si è stati sollecitati durante l’intervista. Il tema è quello del come sia possibile co-produrre la domanda di ricerca con le persone sul campo. Proprio perché è una questione su cui si sta dibattendo molto in questi ultimi anni nei tre ambiti di competenze degli autori, abbiamo ritenuto che questo potesse essere un esempio interessante per offrirne una lettura da tre punti di vista molto diversi. Inoltre, l’inserimento di questo breve estratto dal dialogo tra i tre rimanda anche a un’ulteriore esigenza. Se in questo contesto fino a ora sono state condivise le nostre riflessioni teoriche usando un linguaggio più da addetti ai lavori, ora il tentativo è di proporre un registro diverso che possa ingaggiare anche chi si sofferma su queste pagine incuriosito e interessato al tema ma senza essere “del mestiere”.
All’interno di una ricerca partecipata la costruzione della domanda non è mai un affondo in verticale, ma è un processo di elementi concatenati in cui, per dirla con Becker (2007), quello che accade è l’esito di qualcosa che è stato preceduto a sua volta da qualcos’altro e che verrà seguito da qualcos’altro ancora. Tale concatenazione non è lineare, né circolare, bensì spiraliforme, in quanto permette di tornare nuovamente nello stesso punto, ma ad un livello per così dire superiore (Coghlan e Cirella Shani, 2012), scoprendo ogni volta che gli accaduti fanno sì che il passaggio successivo sia carico di una consapevolezza maggiore e quindi permettono di far evolvere il processo.
Parto da una cosa che ha a che fare col documentario. Werner Herzog si pone come obiettivo quello di raccontare nei suoi film delle storie che non siano mai state raccontate. Mostrarci qualcosa che non sia mai stata vista prima. A questo punto mi chiedo: l’originalità della domanda è effettivamente quello che cerchiamo? O forse è la complessità della domanda che fa la differenza? Cioè come non abbiamo mai posto quella domanda che è stata posta tante volte (Mauro, documentarista).
Nel mio caso la domanda di ricerca nasce in due modalità. La prima è banalmente un’urgenza mia. Non posso nascondere che è mia. Poi la leggo come condivisa, mi risuona nei discorsi fatti dal gruppo, però di fatto, nello sceglierla, nel confezionarla è la mia. La seconda mi appassiona molto di più, ma mi rendo anche conto che è un lavoro lungo e delicato. Succede quando la domanda nasce dai partecipanti, dalle persone con cui co-costruisco. Per farlo però bisogna partire veramente da una rilevazione di bisogni, di letture del mondo, quindi non soltanto da quello che sento come bisogno personale, ma da come leggo il mondo. E quindi è anche un lavoro per cui, da una lettura a volte confusa e disordinata, piano piano e collettivamente, si arriva a formulare, un'unica domanda (Mariagiovanna, operatrice di teatro sociale).
Facendo riferimento anche a quello che diceva Mariagiovanna, a me viene in mente che la costruzione della domanda è un processo. La domanda di ricerca è l’esito, o forse anche solo un passaggio in un processo. E quindi pensare all’idea di processo ci dice anche che non è qualcosa di finito, ma piuttosto un fluire che dobbiamo seguire […]. Un altro elemento importante è l’immersione. Cioè, secondo me, per costruire e co-costruire domande di ricerca è necessario immergersi, immergersi riuscendo comunque a mantenere una giusta distanza dal contesto, dalle relazioni con le persone. E immergersi anche nello studio, quindi non solo nell’esperienza. Anche qui il riferimento è a Becker: oscillare tra uno stare dentro le situazioni e un uscirne, cercare di capirci, da fuori, qualcosa e poi ritornarci (Tiziana, sociologa).
Ce lo siamo detti tante volte con Tiziana: forse l’obiettivo vero della ricerca è proprio quello di approfondire la domanda. Cioè, arrivi alla fine della ricerca e non hai una risposta, ma un approfondimento della domanda da cui eri partito. E quindi una nuova domanda da cui ripartire (Mauro, documentarista).
La rappresentazione visiva di questo, secondo me, è il processo a spirale di Freire. Cioè il fatto che ritorno nello stesso punto, ma che ogni volta è accaduto qualcosa. C’è un processo, sono entrata e uscita, e quindi questo cerchio si è allargato. Non è il cerchio di prima: ci ritorno ma con una consapevolezza, una lettura, un arricchimento differente e che mi viene dagli altri. Certo, poi sulle tempistiche della committenza abbiamo molto poco spazio e questo, davvero spesso, arriva anche ad inficiare un processo (Mariagiovanna, operatrice di teatro sociale).
Concordo pienamente. Aggiungo che, di solito, la committenza se ti commissiona qualcosa è perché, in termini metodologici sa già che più o meno ci si è trovati (Mauro, documentarista).
Sì, secondo me, almeno nella mia esperienza, si può lavorare nell’"educare" le committenze a capire effettivamente di cosa stiamo parlando. Perché a volte su questi temi della relazione, della partecipazione c’è tutta una retorica per cui chi ti commissiona un’esperienza di ricerca, un qualunque tipo di attività, ha in mente un prodotto ma senza avere chiaro quale sia il processo che porta a quel prodotto. Allora è importante lavorare, fin dall'inizio, con la committenza facendo comprendere meglio quali sono i passaggi, anche in quel rapporto di riconoscimento con le persone, perché altrimenti il rischio è che le persone vengano reificate, diventino oggetto, cose (Tiziana, sociologa).
5. Prime conclusioni parziali
All’inizio di questo contributo ci siamo detti che avremmo usato la scrittura collettiva per parlare di un tema connesso con gli strumenti di ricerca partecipativa. Abbiamo scelto di concentrarci su come si co-costruisce la domanda di ricerca con le persone che abitano il “campo”. Nei diversi paragrafi abbiamo messo in evidenza come la prospettiva che si è deciso di adottare fosse quella della ricerca sociale, intesa come pratica che diventa, nel coinvolgimento diretto delle persone, anche stile di lavoro che presta attenzione al modo in cui ci si avvicina ai “mondi della vita” (Schütz, 2002), delle persone che si incontrano nei quartieri, nelle strade, negli uffici che abbiamo frequentato e che abbiamo attraversato singolarmente e insieme. L’assunzione di questa prospettiva ha permesso sia di mettere a valore diversi modi di intendere la ricerca sociale quanto di trovare un primo terreno comune: quello di un atteggiamento di “curiosità epistemologica” (Freire, 2004) su ciò che accade nei luoghi in cui si ha accesso.
Nella premessa avevamo messo in evidenza come usare la scrittura collaborativa per ragionare sul tema della co-produzione della domanda avesse ingaggiato ognuno di noi su tre dimensioni.
5.1 Il riconoscimento intersoggettivo
Nel riascoltare l’intervista ci si è resi conto di come il nostro modo di comunicare non fosse caratterizzato dalla necessità di dibattere per far prevalere una posizione o un punto di vista quanto piuttosto dalla volontà di dialogare per «raggiungere tutti insieme una visione più approfondita delle questioni in gioco» (Sclavi e Buraschi, 2022, p. 4). Come si può leggere (dai nodi tra le diverse risposte) c’è un’attenzione all’ascolto e una curiosità per ciò che l’altro dice. Questo perché l’attenzione alla dimensione relazionale è un aspetto imprescindibile nella scrittura qui sperimentata e riconosciuta, a partire dalla tipologia definita da Hart come collegiale.
Un’ulteriore riflessione ha a che fare con l’ordine dell’esperienza ricreato dal processo narrativo: se obiettivo di chi scrive insieme è comprendersi reciprocamente e farsi comprendere, è chiaro che diventa necessario "semplificare" (scremare? scartare? ridurre?) le idee e i ragionamenti e per fare questo è altrettanto necessario che ciascuno degli autori sia disponibile a lavorare ad una forma di scrittura in cui si perde qualcosa della propria elaborazione.
Coinvolgere i soggetti nel processo di produzione della conoscenza, consentendogli di prendere una distanza cognitiva dalle interazioni abituali e dalle strutture di potere consolidate per sviluppare nuove interpretazioni della realtà attraverso momenti ricorsivi di spiazzamento, inteso come spazio di nuove riflessioni possibili (Tarsia, 2020; Sclavi, 2003), significa sicuramente sviluppare nei soggetti coinvolti «possibilità inedite di azione» (Freire, 1968, p. 75) nella consapevolezza, tuttavia, che perché ciò accada bisogna superare, seppur in senso hegeliano, le singole istanze (ragionamenti, parole, elaborazioni) di ciascuno.
5.2 Il personale posizionamento sul campo e la cassetta degli attrezzi da co-autore
L’esperienza dell’intervista “a tre” ha interpellato gli autori su un piano del contenuto e dei significati in relazione al proprio modo di relazionarsi con le persone che incontrano sul campo. La traduzione del testo orale a testo scritto ha permesso di continuare a riflettere sul tema scelto ma ha anche sollecitato delle considerazioni sull’opportunità della scelta dell’articolo per comunicare all’esterno ciò che volevamo dire. A seguito di questi ragionamenti si ritiene utile affiancare all’articolo anche il montaggio di un podcast che ci permetterà di capire in seguito, grazie alla scelta di presentare l’articolo ad una rivista open access, quanto i due “prodotti” (articolo e podcast) siano scaricati.
Sarà interessante avere un riscontro su quante persone leggeranno o ascolteranno prima di tutto per comprendere come i due linguaggi utilizzati per sviluppare le riflessioni degli autori portino con sé un interesse quantitativamente differente.
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Le autrici e l’autore
Mariagiovanna Italia è operatrice di teatro sociale all’interno di Officina SocialMeccanica (Catania). Ha conseguito un dottorato in Italianistica presso l’Università degli studi di Catania ed è docente invitata di Teatro dell’oppresso dell'Istituto universitario Pratesi a Soverato, affiliato alla Facoltà di Scienze dell’educazione dell'Università pontificia salesiana. Mauro Maugeri è autore di documentari con i quali ha partecipato a festival internazionali vincendo numerosi premi. È formatore accreditato del programma ministeriale Cinema e immagine per la scuola e membro del Consiglio Nazionale di UCCA. Insegna montaggio e produzione audiovisiva nell’Accademia di design e comunicazione Abadir di Catania. Tiziana Tarsia è professoressa associata di sociologia presso il dipartimento Cospecs dell’Università di Messina, dove insegna anche Ricerca sociale in contesti formativi e socio-educativi. Tra i suoi temi di interesse: il lavoro sociale, analisi delle pratiche sociali e uso di strumenti di ricerca partecipativa e creativa nell’ambito di contesti “di vulnerabilità”, migrazioni e servizi sociali.