Perché abbiamo ancora bisogno di don Lorenzo Milani | Why we still need Don Lorenzo Milani

DOI: 10.5281/zenodo.8225384 | PDF | Educazione Aperta 14/2023

Beethoven a Barbiana

Una sera d'estate del '56 don Lorenzo Milani mette un disco a 78 giri sul grammofono usato normalmente a Barbiana per ascoltare le lezioni di francese. È una sonata di Beethoven. La fa ascoltare a uno dei suoi ragazzi; si aspetta che ne goda pienamente come sta facendo lui. Ma il ragazzo non riesce a comprendere quella musica. Il Priore obietta che la musica ha un linguaggio universale, è impossibile non capirla. Il ragazzo lo sfida: faranno ascoltare la sonata a Gino, un contadino che abita lì vicino, e si vedrà se è universale o no. Il buon Gino, ascoltata la musica, commenta: "Ma ti sembra questa l'ora di far chiasso?". Il Priore ne rimane profondamente turbato.

Michele Gesualdi, il ragazzo che sfidò don Milani in quella occasione, racconta l'episodio in Don Lorenzo Milani. L'esilio di Barbiana (San Paolo, Cinisello Balsamo 2016), e lo commenta come segue:

Era evidente la scelta di voler distruggere, con puntiglio, ogni residuo del suo "io borghese" senza però rinunciare ad aprire ai ragazzi di Barbiana lo scrigno che custodiva gelosamente il meglio della cultura del suo vecchio mondo colto e privilegiato. (p. 219)

Vorrei partire da qui per leggere L'equivoco don Milani di Adolfo Scotto di Luzio (Einaudi, Torino 2023). Perché la tesi centrale di Scotto di Luzio è che don Milani invece quello scrigno si rifiutò di aprirlo. Anzi, fece scuola proprio per tenere lontani i suoi ragazzi da quello scrigno. Ma procediamo per ordine.

Equivoci

Più che un equivoco, vi sono per Scotto di Luzio diversi equivoci riguardanti don Milani. Un primo equivoco è quello di un don Milani antiautoritario, punto di riferimento del Sessantotto; perché il Priore aveva tratti autoritari che non nascondeva. Basta leggere la Lettera a una professoressa:

Un ragazzo che ha un'opinione personale su cosa più grandi di lui è un imbecille. Non deve avere soddisfazione. A scuola si va per ascoltare cosa dice il maestro. (Lettera a una professoressa, LEF, Firenze 1996, p. 129)

Una affermazione che pone peraltro una singolare contraddizione, perché la Lettera è opera non di don Milani, ma dei ragazzi di Barbiana. E come può essere che dei ragazzi che non hanno diritto ad opinioni personali scrivano un libro di opinioni personalissime sulla scuola? Non manca nemmeno, nella Lettera, l'elogio della frusta, benché per lo più si riesca a leggerla senza notare questo dettaglio; e sappiamo dalle testimonianze che non era per spaventare i borghesi.

Dunque don Milani era tutt'altro che antiautoritario. E si sbagliava, perché l'autoritarismo è un errore. Del resto, era un sacerdote, ossia un membro, per quanto anomalo, di una istituzione radicalmente dogmatica e autoritaria.

Credo che Scotto di Luzio abbia ragione - abbastanza ragione - anche nella analisi di un secondo equivoco, quello che ha portato il Priore a diventare il (vago) riferimento del riformismo scolastico della sinistra post-comunista. Una stagione politica che è ora giunta a termine, e per l'autore consente di rileggere la figura del maestro di Barbiana. La professoressa della Lettera non c’è più, Gianni è rimasto quello che era, solo “più nutrito, più aggiornato, più connesso”, senza però una lingua che lo faccia uguale. Non è tutta colpa di don Milani, ammette Scotto di Luzio. “La questione che però ci riguarda è se convenga continuare a evocarne lo spettro ogni volta che si tratta di istruzione.” E la risposta evidentemente è che no: lasciamo in pace don Lorenzo e occupiamoci dei problemi reali di una scuola che non funziona. Evocare gli spettri non è mai una buona idea: lo spiritismo non è una grande risposta ai problemi della scuola. Buona cosa sarebbe smetterla di richiamarsi a don Milani senza averlo davvero compreso, magari attribuendogli i persistenti fallimenti di una scuola che dal suo insegnamento ha in realtà imparato poco o nulla, come fa da anni, con ammirevole determinazione e meno ammirevole incapacità di comprendere un testo semplice e chiaro come la Lettera a una professoressa, Paola Mastrocola. Scoprendo che il messaggio di don Milani è urgente per il Gianni iperconnesso forse anche più che per il Gianni contadino.

Cultura contro cultura

Pur sottolineando (a ragione) che don Milani era e voleva essere soprattutto un prete, Di Luzio, che è uno storico della pedagogia, lo inserisce curiosamente nella linea illuministica e massonica di Rousseau e di Pestalozzi, affermando che la Lettera a un amico sul proprio soggiorno a Stans di quest'ultimo è "ancora oggi è un manifesto di tutta la pedagogia radicale e ha le misure esatte dell'ideologia espressa in Lettera a una professoressa". Affermazione discutibile, perché si fatica a trovare una edizione recente di una qualsiasi delle opere del grande pedagogista svizzero (lo stesso Scotto di Luzio cita la Lettera di Pestalozzi da una ristampa del 1999 dell'edizione 1951 de La Nuova Italia; il testo è esaurito da anni). È la linea anti-intellettualistica della pedagogia popolare, il cui tema è l'opposizione natura/cultura: il rifiuto della cultura libresca in nome della "cieca fiducia nelle forze spontanee della maturazione individuale". Una fiducia che il Priore non aveva affatto, per cui sarebbe rimasto prigioniero di una contraddizione tra anti-intellettualismo e pedagogia direttiva. Ma si tratta di una lettura che smarrisce il punto fondamentale.

Nella visione di Rousseau Emilio è un fanciullo ideale, astratto, libero cioè da ogni vincolo sociale e culturale; e solo così si può porre il problema dello sviluppo naturale delle sue facoltà. Problema che non si pone per i bambini di Barbiana, che non sono astratti, ma hanno una identità sociale, culturale e di classe. Come i siciliani con cui Danilo Dolci avvia il suo lavoro educativo nel 1952, due anni prima del trasferimento del Priore a Barbiana. O, se proprio si vuole individuare un predecessore, nonostante le profondissime differenze (prima fra tutte il patriottismo), come i piccoli gitani per i quali Andrés Manjón ha creato le scuole dell'Ave Maria.

Il problema di don Lorenzo non è il conflitto natura/cultura, ma il conflitto cultura/cultura, che in lui diventa anche un conflitto di classe. Con il suo gusto della provocazione, dichiara durante un importante incontro del 1962 con dei direttori didattici di Firenze, che anticipa di temi della Lettera (e che andrebbe sempre letto accanto e insieme alla Lettera):

Faccio questo discorso: "Senti ragazzo, la tua classe sociale, gli oppressi, gli infelici di tutto il mondo, i proletari di tutto il mondo, soffrono di questa data sofferenza che hai tu. Dedica tutta la tua vita a fare sortire questa classe da questa situazione". Cioè - ve lo devo dire - io baso la scuola sulla lotta di classe. Io non faccio altro dalla mattina alla sera che parlare di lotta di classe. E la scuola funziona perché io faccio soltanto questo discorso. (Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, Mondadori Milano 2017, tomo primo, p. 1165)

Vi sono qui due questioni. La prima è che il figlio del contadino non è un foglio bianco sul quale scrivere il sapere scolastico, cominciando dalle lettere dell'alfabeto. La seconda è che il figlio del contadino è un soggetto oppresso.

Perché i poveri vanno male a scuola

Al centro della Lettera a una professoressa sono due letture dell'insuccesso scolastico dei figli dei contadini: quella del riconoscimento e quella del senso. I figli dei contadini non vanno bene a scuola in primo luogo perché la scuola non è il loro ambiente. Quella che vi si studia è la cultura delle classi dominanti. C'è un problema di contenuti, ma prima ancora di continuità delle culture, in senso antropologico. Il modo di essere, di vivere, di pensare, di stare nel mondo del figlio di un contadino è diverso da quello dello studente che normalmente ha successo a scuola. La scuola chiede al figlio del contadino di far propria la cultura alta ed assegna a questo movimento un valore di emancipazione e liberazione. Ma da un lato ciò non funziona, perché frustra il bisogno di riconoscimento che lo studente figlio di contadini ha come qualsiasi essere umano, dall'altro pone un problema politico: una istituzione simile, se fosse efficace, semplicemente eliminerebbe una cultura in favore di un'altra, considerata superiore. Ne ha il diritto? Ciò sarebbe un bene? L'istruzione può consistere semplicemente nel cancellare una cultura, una visione del mondo, sostituendola con un'altra, o occorre fare un lavoro più complesso?

La seconda questione è quella del senso. Perché studiare? Perché si va a scuola? C'è un coro che copre quasi tutto l'arco politico, che risponde: per emanciparsi. E intende questa emancipazione come ascesa sociale. Andando a scuola, il figlio del contadino potrà diventare classe dirigente. E anche qui si pone un problema politico. Poniamo che la scuola sia universalmente efficace: avremo solo una classe dirigente. Chi si dedicherà ad altri compiti che pure sono fondamentali per la società?

Don Milani si unisce al coro, ma con una nota di contrasto. Sì, la scuola - la particolare scuola che è Barbiana, non certo la scuola pubblica - emancipa, perché dà la parola, e senza la parola non si è liberi. Ma emanciparsi non vuol dire diventare classe dirigente. La Lettera contesta con forza la natura utilitaristica del sapere scolastico. "Il diploma è quattrini. Nessuno di voi lo dice. Ma stringi stringi il succo è quello. Per studiare volentieri nelle vostre scuole bisognerebbe essere già arrivisti a 12 anni" (Lettera a una professoressa, cit., p. 129) Il tema è anticipato nel confronto con i direttori didattici che ho già citato. La scuola di Barbiana, continua, funziona perché insegna a studiare non per sé, ma per altri. Non per l'umanità intera, ma per la classe degli oppressi.

Studiare perché?

Al netto della lotta di classe, che non è propriamente attuale, quello che afferma don Milani è forse ancora più vero oggi. La logica della scuola resta una logica utilitaristica: si studia per il voto, si cerca il voto per il diploma, si cerca il diploma per potersi poi laureare, si cerca la laurea per ottenere una sistemazione sociale soddisfacente. La differenza è che ormai questa prospettiva si fa sempre più remota. La disoccupazione intellettuale nel nostro Paese è altissima. E avere un lavoro intellettuale spesso non implica avere una soddisfacente posizione sociale ed economica. Perché studiare allora? Se questa è l'unica ragione, allora non c'è alcuna ragione per studiare. Ed è qui che la lezione di don Milani resta preziosa. La scuola italiana - e non solo, ovviamente - ha una gravissima crisi di senso. Ed è del senso della scuola che don Milani si occupa.

Scotto di Luzio ha ragione di rilevare la pochezza della sua proposta sul piano strettamente didattico. Non c'è una didattica di don Milani. Non c'è un atteggiamento di ricerca, di sperimentazione, di condivisione di pratiche. La sua pratica didattica, segnata dal suo forte carisma personale, scaturisce da una percezione chiara del senso politico di educare ed istruire.

La sua risposta alla domanda di senso è che per istruire occorre avere di mira il bene comune, il "sortirne tutti". La scuola, cioè, dev'essere politica, se vuole essere efficace. L'avarizia - cioè: il fine individuale - non funziona. Pensare di poter appassionare allo studio un adolescente proponendogli un fine utilitaristico significa davvero pensarne male. In una società complessa gli adolescenti (una condizione di per sé innaturale) sono esclusi dalla società; ma essere parte attiva della società è un bisogno fondamentale. Di qui molto del malessere dei nostri studenti. Una risposta alla crisi di senso è legare lo studio a fini politici, ossia alla comprensione della realtà sociale ed al suo miglioramento. Non è l'unica.

Ciechi e muti

Torniamo alla questione del riconoscimento. Per Scotto di Luzio don Milani funziona, per così dire (ma l'immagine è mia), come una porta che separa i suoi figli dei contadini dalla cultura alta. Questa porta lascia passare poco, solo quello che serve: la parola. Ma poi si richiude, e lascia fuori tutto il resto. Fuori di metafora, preoccupato di non imborghesire i suoi figli dei contadini, di fatto don Milani li esclude dalla cultura alta. C'è del vero, ed è un suo limite. Ma è un limite speculare a quello della scuola del suo tempo (e di oggi).

Nella Lettera i borghesi sono per così dire ciechi, perché manca loro l'esperienza reale del mondo, e i poveri sono muti, perché manca loro la parola. "La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la cultura" (Lettera a una professoressa, cit., p. 105). Che non l'abbia ancora posseduta nessun uomo è naturalmente una sciocchezza, ma c'è qui una cosa fondamentale: l'idea di una cultura autentica come sintesi delle culture delle diverse classi sociali. La scuola sarebbe autentica scuola, farebbe cioè cultura autentica, se le riuscisse l'impresa difficile di accogliere in sé anche la cultura contadina - oggi potremmo dire: le culture proletarie che ancora esistono, oltre alle culture di cui sono portatori gli studenti immigrati di prima e di seconda generazione. Ma questo vale anche per Barbiana. L'errore di don Milani è quello di ritenere che i poveri debbano strappare ai ricchi, per usare la sua polarizzazione, solo quel poco che serve loro per non restare muti: un uso essenziale della parola. Che è decisamente poco per operare una sintesi. Ma, soprattutto, rischia di escludere i poveri dalla conoscenza di un mondo culturale straordinariamente vasto, vario, ricco e bello, in nome del disprezzo dei ricchi e della borghesia. Anche se la prospettiva politica del Priore non implica affatto una tale esclusione. La cultura alta va rigettata nella misura in cui resta oggetto di un godimento individuale. Afferma ancora nel confronto con i direttori didattici:

Io potrei far amare il Leopardi perché è Leopardi. Per la gioia per tutti che è di poter intendere un canto di Leopardi, ma per grande che sia il Leopardi, quando una gioia è individuale è minore di quella sociale. Se io dico "Farò leggere a tutti gli operai del mondo il Leopardi!" è più bello, è in sé più cristiano. (Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, tomo I, cit., p. 166)

Leopardi va bene, se diventa di tutti. Ad essere rifiutata - ed è un gesto politico - è l'idea di una cultura come segno di distinzione sociale. Della cultura alta si può prendere tutto, nella misura in cui si riesce a farlo diventare bene comune.

Ripensiamo al turbamento dopo l’episodio di Beethoven. Don Lorenzo stava godendo individualmente di quella musica. Ha cercato di fare di quel godimento una esperienza sociale, ma non vi è riuscito. In quel momento come educatore ha fallito. Di qui il turbamento. Ma questo non vuol dire che Beethoven andava accantonato, chiuso nello scrigno del sapere alto. Vuol dire, invece, che si è posto un problema, come se ne pongono tanti a chiunque educhi: come far ascoltare Beethoven ai contadini.

Alfabetizzare e educare

Nella lettura di Scotto di Luzio don Milani è un antimoderno, un borghese pentito arroccato, per irrisolte questioni psicologiche, nel suo mondo contadino d'elezione, che protegge i suoi ragazzi dalle tentazioni del progresso richiudendoli di fatto nella loro condizione di deprivazione e negando qualsiasi effettiva emancipazione. Mentre la vituperata scuola pubblica, scrive, è riuscita a fare di meglio con i figli dei contadini:

La scuola italiana intanto è riuscita nella sua impresa in quanto ha preso i molti figli dei contadini che ha incrociato nella sua esistenza e li ha portati da qualche altra parte. Li ha fatti studiare strappandoli al proprio ambiente, li ha plasmati secondo le sue esigenze e li ha avviati per il mondo.

A dire il vero i figli dei contadini e degli operai sono stati per lo più espulsi dalla scuola pubblica o orientati verso scuole professionali. Ma ammettiamo che li abbia strappati dal loro ambiente e plasmati secondo le proprie esigenze. È questo il compito della scuola? Strappare e plasmare?

Come educare, il verbo alfabetizzare è transitivo. Richiede un oggetto. C'è qualcuno che educa e alfabetizza qualcun altro. Per Scotto di Luzio è questo il senso della scuola moderna: alfabetizzare il popolo. Abbiamo quindi l'oggetto, il popolo, ossia i poveri. E il soggetto? Naturalmente le classi dominanti. La scuola è l'istituzione con la quale una classe sociale, che ha il possesso di strumenti culturali avanzati, ne fa generosamente dono alle classi subalterne. Le quali, ingrate, per lo più lo rifiutano.

Negli anni in cui matura la riflessione e la prassi di don Milani e in cui, come accennato, Danilo Dolci comincia a sviluppare in Sicilia il metodo della maieutica reciproca, in Brasile Paulo Freire comprende due cose. La prima è che non è possibile alfabetizzare senza partire dal mondo culturale delle persone che si ha la pretesa di alfabetizzare, da ciò che per loro è significativo e importante; la seconda è che la stessa alfabetizzazione ha poco senso se non è parte di un più ampio lavoro di coscientizzazione, se non serve a ragionare sulla propria situazione sociale. È questa la linea comune di don Milani, di Danilo Dolci, di Paulo Freire e in generale della pedagogia critica. L'oggetto dell'educazione e dell'alfabetizzazione diventa soggetto e non, come vorrebbe Scotto di Luzio, in nome di una concezione ingenua delle potenzialità naturali e spontanee, ma grazie a una comprensione profonda di cosa è educare.

La sfida che simili esperienze lanciano alla scuola consiste in questa domanda: la scuola educa? Educa davvero? È possibile educare qualcuno senza, intanto, condividerne le condizioni di vita? Può essere educativa una scuola in cui i docenti non incontrano mai gli studenti nei loro contesti quotidiani, ma sempre e solo in un ambiente artificiale e più o meno asettico come quello della scuola? Può esistere educazione senza un incontro reale tra due culture, senza un riconoscimento reciproco? No, non può esserci educazione.
C'è dunque un equivoco più grave dei diversi equivoci che, per Scotto di Luzio, riguardano don Milani. Un equivoco enorme che riguarda la scuola. La quale si pretende educativa, e invece non educa. Perché l'educazione è un'altra cosa. Quella della scuola è, magari, socializzazione. Insegna come muoversi in società; come fare per occupare una posizione, ottenere un posto, conquistare uno status. La sua logica puramente procedurale non consente altro. La stessa relazione è finta, burocratica. Ed è esattamente questo equivoco che denuncia la Lettera a una professoressa. C'è un mondo che chiede educazione e ottiene socializzazione - e un programma da studiare.

La modernità

In quegli anni e in quei luoghi - Barbiana, Trappeto, Recife - educare voleva dire non solo entrare in contatto reale con una cultura diversa, ma anche interrogarsi a fondo, insieme, sulle trasformazioni in atto. Perché essere soggetti attivi questo vuol dire: capire dove si sta andando, e se è un bene che si vada in quella direzione. Si stava andando, allora, verso la società dei consumi. A don Milani non piaceva. Non piaceva troppo nemmeno a Danilo Dolci. O, come è noto, a Pier Paolo Pasolini. Per Scotto di Luzio questa è uno dei maggiori errori del Priore: quello la Lettera a una professoressa, scrive, "ha imposto alla coscienza educativa italiana nel momento cruciale della grande trasformazione del nostro Paese, è la mera rinuncia alla sfida della modernità, alla fatica di diventare adulti". Nientemeno. Fino al boom economico l'Italia era nella minore età; è diventata adulta, nonostante don Milani, con l'avvento del consumismo.

Ora, comunque si considerino le posizioni di don Milani, che forse non aveva tutti i torti anche sul ping-pong in Chiesa - ma lascio la questione ai cattolici -, su una cosa non c'è dubbio: in un contesto educativo e culturale i cambiamenti vanno problematizzati. E la scuola non lo fa. Non sa e non vuole farlo. La studio della storia, come denuncia la stessa Lettera, si arresta rispettosamente alle soglie del mondo attuale; l'educazione civica resta ancora oggi una farsa. La scuola arranca davanti a qualsiasi cambiamento, chiusa in sé stessa e arroccata nella custodia del suo deposito di sapere. E anche per questo non funziona.

La dura necessità dell'apprendimento

Scotto di Luzio mette la prassi educativa di don Milani sotto la formula romantica della "pedagogia dell'amore"; una pedagogia che, aggiunge, "esiste ai margini della scuola". Temo che quello che Scotto di Luzio chiama amore sia semplicemente la disponibilità a impegnarsi in una relazione educativa. E sì, ha ragione: non ha a che fare con la scuola. Esiste, cresce, sopravvive ai suoi margini.

Scrive Scotto di Luzio:

Don Milani progettava una scuola dell'altruismo. I suoi seguaci si richiamano di volta in volta alla Costituzione, alla pace, alla fratellanza tra i popoli. Tutti valori encomiabili, ma messa di fronte alla dura necessità dell'apprendimento, questa scuola fatica a fare i conti con una constatazione semplice e difficile da mandare giù da parte di tutte le pedagogie progressiste: il fatto cioè che il potere conoscitivo resta tutto dal lato del disciplinare.

Non si può dire che questo passo brilli per chiarezza. Che cosa intende con potere conoscitivo? E cos'è il lato del disciplinare? Immagino che l'autore voglia dire che una scuola che persegue fini etici - o etico-religiosi - è costretta a sacrificare i contenuti, e che una scuola che trasmette pochi contenuti è una scuola poco efficace dal punto di vista dell'empowerment. Ma non è così.

In realtà la scuola si mostra fallimentare proprio "messa di fronte alla dura necessità dell'apprendimento". La necessità di un fine, di un senso della pratica scolastica non nasce dalla sovrapposizione di una concezione valoriale dell'insegnante alla sua pratica di insegnamento, ma è intrinseca al lavoro culturale. Detto in modo più chiaro: la scuola fallisce sul piano degli apprendimenti perché non è in grado di legare lo studio a una qualche forma di azione, a una progettualità, a un senso qualsiasi che non sia quello, sempre più remoto ed improbabile, della propria futura affermazione personale. La scuola acquista efficacia man mano che l'apprendimento si approssima alla vita reale, e ciò accade solo se c'è un fine. Uno studente può studiare la metodologia della ricerca sociale al fine di sostenere una interrogazione e prendere un buon voto. Qui il peso è tutto sul lato del disciplinare, per dirla con Scotto di Luzio. Ma l'apprendimento resterà fragile: la curva di Ebbinghaus farà giustizia della violenza subita. Meglio andrà se gli si chiederà di mettere in pratica quello che ha imparato, raccogliendo, ad esempio, qualche storia di vita. Ma meglio ancora andrà se tutta la classe, strutturata come un gruppo di ricerca, raccoglierà storie di vita al fine di documentare, poniamo, i cambiamenti avvenuti nella famiglia. In questo caso c'è una produzione di conoscenza che è anche produzione di senso, perché quella conoscenza è un contributo alla chiarificazione dei problemi di una comunità. L'apprendimento diventa efficace, perché reale, ma cresce anche il potere, inteso come possibilità di agire in un contesto sociale.

In tutto il mondo, del resto, esiste da decenni la pratica del Service-Learning, che da qualche anno si sta sperimentando (poco, e forse anche male) anche in Italia. Consiste nell'unione di studio e impegno per la comunità. Si analizza un problema sociale, lo si studia attraverso le discipline curricolari, si propone una soluzione, e quindi si impegnano gli studenti per metterla in pratica. Tutti gli studi attestano che si tratta di una metodologia efficacissima per combattere la dispersione scolastica. Perché recupera il senso dello studio: ossia la sua direzione sociale.

La tutela

In un passo della Lettera a una professoressa si invoca la Costituzione. Gianni dice aradio perché così gli ha insegnato il padre. Dovrà imparare a dire radio. "Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. 'Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua'. L'ha detto la Costituzione pensando a lui" (Lettera a una professoressa, cit., p. 19). Per Scotto di Luzio è chiaro che qui c'è una forzatura della Costituzione, che pensava con l'articolo 3 alle minoranze linguistiche; ed ha ragione. Lo dice del resto la stessa Lettera, in nota. Ma è una forzatura non meno grave quella che compie lui stesso, quando afferma che "la trovata dei ragazzi di Barbiana assorbe il povero nella sfera delle minoranze da tutelare e di fatto lo priva di qualsiasi possibilità di pensarsi come un soggetto etico attivo, un attore storico di cambiamento". E qui bisogna rileggere l'Incontro con i direttori didattici che, lo ripeto, andrebbe sempre letto insieme alla Lettera. Al suo solito, don Milani è chiaro fino alla brutalità. La lingua dei suoi parrocchiani è povera, talmente povera che può servire a vendere i polli al mercato, ma non a comprendere il Vangelo.

Non si può parlare la loro lingua perché è una lingua di basso interesse, di bassi vocaboli. Non bassi in senso cattivo, ma non elevati. Ed io non mi ci abbasso al livello dei miei parrocchiani. Abbassarsi al loro linguaggio e non dire più cose alte, a me non va. Io seguito il mio linguaggio alto e quindi o loro vengono al mio linguaggio o non ci si parla. (Don Lorenzo Milani, Tutte le opere, cit., tomo primo, p. 1160)

Nella Lettera si afferma l'esatto contrario:

Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. (Lettera a una professoressa, cit., pp. 18-19) 

Delle due, evidentemente, l'una: o i poveri parlano una lingua poverissima, che non consente loro di accedere alle verità più alte, o sono i veri creatori e rinnovatori della lingua (una posizione, questa, che rimanda al Tolstoj di Jasnaja Poljana). Certo la professoressa potrebbe rivendicare lo stesso diritto di non abbassarsi a parlare il linguaggio dei contadini. Non ha in fondo anche lei da dire cose alte? Se don Milani rivendica il suo non parlare con i suoi parrocchiani, se non imparano la sua lingua, non potrà rivendicare anche la professoressa il diritto di bocciare Gianni? La differenza è nel metodo.

Don Milani comprende che per risolvere il problema linguistico deve fare scuola. E fa scuola. Ma intanto vive a Barbiana, condivide la povertà e la quotidianità dei suoi parrocchiani, si fa loro pari (e al tempo stesso li mette quotidianamente a discutere di ciò che accade in ogni parte del mondo, a proposito dell'essere "attori storici di cambiamento"). E alla fine resta solo la differenza linguistica. Poiché don Milani è entrato pienamente nel mondo di Gianni, Gianni può entrare interamente nel mondo di don Milani. E acquisirne la lingua. Non così nella scuola, che in quanto istituzione chiede a Gianni di lasciare fuori dalla porta dell'aula tutto il suo mondo culturale.

Di questo, ripeto, si tratta. Nessuna richiesta di tutela particolare per il povero. Vero è che la scuola sta andando in questa direzione. I portatori di qualsiasi diversità culturale - che sia di classe o etnica - vengono etichettati come portatori di Bisogni Educativi Speciali, e in quanto tale inclusi semplicemente con una riduzione delle richieste dell'istituzione. La scuola resta identica, chiusa nella sua freddezza istituzionale, ma a richiesta si fa meno esigente, e per questo si illude di essere inclusiva. È un errore pedagogico madornale, ma di cui don Milani non ha davvero alcuna colpa, e al quale è da credere anzi che si sarebbe opposto con forza.

Prendersi cura

La Lettera a una professoressa ha più di cinquant’anni. La nostra società nel frattempo è cambiata al punto tale da diventare irriconoscibile. “Io ho fatto scuola dalla prima alla quinta elementare, perché ai miei tempi i figlioli  dovevano aiutare i genitori con il lavoro, il mi' babbo voleva che io andassi a aiutarlo con i campi, e poi a governa' gli animali”, racconta Marisa Gorelli, classe 1937, intervistata da una studentessa della mia scuola. Siamo nel Senese, un territorio in qualche modo privilegiato rispetto a molte aree del Sud. “Come stavi quando hai scoperto che non potevi più andarci?”, le chiede la studentessa. “Io ero brava e mi piaceva la scuola, quindi restai male e piansi, piansi tantissimo, e non te lo dico così per dire, piansi per davvero”.1 E Rosanna Perugini, di un decennio più giovane: “La mattina mi svegliavo molto presto, circa alle 4.00, per portare al pascolo i maiali aiutata da un cane lupo di nome Furia. Stavo lì per qualche ora e alle 8.00 tornavo a casa per prepararmi per scuola che iniziava alle 9:30. Quando finiva, alle 15:30, tornavo a casa e facevo i compiti per poi aiutare nella pulizia di casa o a rimettere nella fattoria gli animali appena tornati dal pascolo”.

Nessuno oggi viene più a scuola dopo aver portato al pascolo i maiali. Il mondo al di fuori della scuola è cambiato radicalmente. Il mondo dentro la scuola sembra non essere cambiato affatto. Ogni volta che leggo con i miei studenti la Lettera resto colpito dalle loro reazioni. Non stanno leggendo un documento storico. Leggono quella che è ancora, almeno in buona parte, la loro quotidianità. Perfino alcune espressioni sono quelle che usano ancora oggi per parlare di scuola: il “coltello dalla parte del manico”, ad esempio. Oggi non occorre leggere il libro in cartaceo. È possibile mostrare un libro alla lavagna elettronica, o gli studenti possono leggerlo addirittura sullo smartphone. Tecnologicamente le aule sono cambiate. Ma è l’unico cambiamento significativo: per il resto la scuola italiana resta una disperante Gormenghast, che procede anno dopo anno, Ptof dopo Ptof, Rav dopo Rav a perpetuare la sua routine di voti e di scrutini, di programmi da finire e di ragazzi da salvare o meno allo scrutinio.

Per troppo tempo confrontarsi con don Milani ha significato confrontarsi sul tema della bocciatura. Ma una scuola che non boccia non è affatto migliore, se dietro la promozione c’è il vuoto. Un ospedale che voglia curare davvero i malati non li dimette; e fuor di metafora, per la scuola non dimettere vuol dire trattenere. Ma il problema a monte è quello della cura. O del prendersi cura. Don Milani insegna che il fallimento della scuola ha due ragioni. La prima è la sua incapacità di apertura culturale. Depositaria del sapere alto, della cultura prodotta dalle classi dominanti occidentali degli ultimi venticinque secoli, la scuola non sa metterla in tensione, in dialogo, in rapporto dialettico con altre culture – ieri la cultura di una diversa classe sociale, oggi la cultura di classe e le diverse culture degli immigrati di prima o di seconda generazione. La seconda è la sua mancanza di senso. Perché si fa scuola? Per diventare competitivi. Diventare competitivi come singoli e diventare competitivi come collettività. Ma diventare competitivi non è una grande motivazione. Non c’è del moralismo nella denuncia dell’arrivismo scolastico della Lettera. C’è invece molta verità psicologica. Chiunque insegni, e lo faccia in contesti difficili, sa di quali eccezionali trasformazioni sono capaci gli studenti quando li si porta fuori da Gormenghast, al contatto con una situazione sociale reale, alle prese con un compito che richieda qualità umane come l’empatia, la solidarietà, la comprensione dell’altro. Quando si trova un senso che, insegna ancora don Milani, è etico, sociale e politico. Oppure non è.

Note

1 L’intervista fa parte del progetto di Memoria scolastica dell’Osservatorio Socio-Antropologico del Liceo “Piccolomini” di Siena, curato da chi scrive e da Stefania Lio.

 

Antonio Vigilante. Orcid: orcid.org/0000-0003-0001-0332 | Mail: antoniovigilante@autistici.org