“Per vivere da pari in questa società": 150 ore, educazione linguistica e conquista della parola. | “To Live as Equals in This Society”: 150 Hours, Language Education, and the Empowerment of Speech
DOI: 10.5281/zenodo.14603554 | PDF
Abstract: Questo studio esplora l’importanza attribuita all’interno dei corsi 150 ore all’ educazione linguistica come strumento di emancipazione politica ed inclusione sociale avvalendosi anche delle riflessioni fatte da Tullio De Mauro su insegnamento della lingua italiana, plurilinguismo idiomatico e critica alla pedagogia linguistica tradizionale. Attraverso materiale d’archivio e testimonianze autobiografiche si vuole mettere in evidenza una didattica dell’italiano orientata a valorizzare l’oralità e le competenze linguistiche preesistenti dei lavoratori, attraverso metodi innovativi basati sulla discussione, l’autobiografia, il lavoro di gruppo e l'uso critico del giornale. Le esperienze descritte testimoniano un approccio pedagogico che mette in primo piano la pratica linguistica contestualizzata e una cultura partecipativa con la finalità di andare oltre il mero conseguimento dell’obbligo scolastico e promuovere il reale riscatto culturale e sociale dei corsisti.
Parole chiave: 150 ore, educazione linguistica, didattica dell’italiano, educazione degli adulti.
Abstract: This study explores the importance attributed within the "150-hour courses" to linguistic education as a tool for political empowerment and social inclusion, drawing on the reflections of Tullio de Mauro on the teaching of the Italian language, idiomatic multilingualism, and critique of traditional linguistic pedagogy. Through archival material and autobiographical testimonies, the aim is to highlight an approach to teaching Italian that emphasizes orality and the pre-existing linguistic skills of workers, using innovative methods based on discussion, autobiography, group work, and the critical use of newspaper. The experiences described reflect a pedagogical approach that foregrounds contextualized linguistic practice and a participatory culture, with the goal of going beyond mere fulfillment of compulsory schooling and promoting real cultural and social advancement for course participants.
Keywords: 150-hour courses, linguistic education, Italian language teaching, adult education.
“Tutti gli usi della lingua a tutti”[1]: educazione linguistica ed inclusione sociale
Per molti essere colti significa sapere leggere e scrivere. Siccome molti operai non sanno leggere né scrivere, passano per ignoranti. Ma noi vediamo che i contadini e gli operai tra loro parlano. Essi conoscono lo strumento più antico e più facile per comunicare tra di loro. Ma questi conoscono poche parole. Se dovessero parlare in consiglio comunale i borghesi gli riderebbero in faccia. Se emigrano all’estero o si spostano da una Regione all’altra dell’Italia, né capiscono né si fanno capire. Allora stanno zitti. Finché ci sarà uno che conosce 2000 parole e un altro che ne conosce 200, questi sarà oppresso al primo. La parola ci fa uguali (Scuola 725, 2020, p. 14).
Negli anni Sessanta l'Italia si trovava di fronte a sfide significative in materia di analfabetismo e disuguaglianze educative. Nonostante i progressi economici del Dopoguerra, il paese era ancora profondamente segnato da disparità culturali e linguistiche che limitavano le opportunità di integrazione e crescita per ampi strati della popolazione, in particolare le classi sociali più svantaggiate. Questo contesto di deprivazione verbale e di disuguaglianza sociale è stato ampiamente denunciato, come noto, dalle riflessioni di don Lorenzo Milani che, in Esperienze pastorali (1958) e poi in Lettera a una professoressa (1967), aveva messo efficacemente in luce i meccanismi selettivi della scuola e la necessità di un intervento educativo mirato:
Non faccio più che lingua e lingue. Mi richiamo dieci venti volte per sera alle etimologie. Mi fermo sulle parole, gliele seziono, gliele faccio vivere come persone che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi (don Milani, 1956).
Della centralità avuta dal parroco di Barbiana era ben consapevole un’altra figura fondamentale nel panorama linguistico e sociolinguistico italiano del XX secolo, il cui lavoro ha avuto un impatto duraturo sulla comprensione e sull'insegnamento delle lingue in Italia, Tullio De Mauro (Bruni, 2012):
per quanto mi riguarda non credo che dobbiamo stancarci dall’additare a noi stessi tratti e caratteri della sua scuola: imparare con gli alunni; […] l’impegno nella conquista del sapere anche arduo; l’attenzione costante al linguaggio, alla lingua che ci fa eguali; la passione, che è fatta di carità o, se la parola spaventa, di solidarietà e di fede democratica (e di rispetto per la Costituzione), perché non uno resti indietro (De Mauro, 2004, p. 12).
Nei primi anni Sessanta la sociolinguistica non era quasi neppure nata[2] ma De Mauro forniva già, nella sua Storia linguistica dell’Italia unita (1963), le prime descrizioni delle varietà dell’italiano, esplorando e analizzando il linguaggio come fenomeno sociale, contribuendo significativamente alla riflessione su come le disuguaglianze linguistiche riflettano e perpetuino disuguaglianze sociali:
le diverse lingue, nel loro intreccio, nel loro oscillare, bisogna che tutti le possano conoscere e dominare per vivere da pari in questa società, non da sudditi, non da esclusi, non da reietti, ma da persone libere, partecipi all’elaborazione delle scelte della comunità (De Mauro, 2018, p. 23).
Fortemente critico nei confronti della pedagogia linguistica tradizionale, fondata sull’imitazione di modelli letterari (visti come unici depositari della “buona lingua”), ma lontana dal saper apprezzare gli usi linguistici più creativi, De Mauro ha lavorato a stretto contatto con associazioni come il Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti (Cidi) e il Movimento di Cooperazione educativa (Mce), intessendo scambi fruttuosi con molti dei suoi aderenti, da Mario Lodi a Gianni Rodari, da Dino Zanella a Gisella Galassi. Determinante il suo ruolo nella formulazione delle Dieci Tesi per un'educazione linguistica democratica, un documento cardine pubblicato dal GISCEL (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica) nel 1975 con l'obiettivo di promuovere una riflessione sull’insegnamento della lingua italiana e una visione dell'educazione linguistica[3] volta a formare cittadini capaci di partecipare attivamente alla vita sociale e politica, attraverso un approccio inclusivo e critico, rispettoso della diversità. Un elemento centrale delle tesi era infatti rappresentato dall'enfasi sul plurilinguismo come risorsa culturale e cognitiva da valorizzare all'interno di un contesto educativo che non doveva limitarsi alla sola lingua standard ma riconoscere e potenziare le varietà linguistiche presenti tra gli studenti, favorendo così il rispetto delle differenze. Inoltre, veniva ribadita la centralità dell'oralità e l'importanza di una formazione adeguata e continua per gli insegnanti, considerati fondamentali per la realizzazione di una vera educazione linguistica democratica. Si trattava, in breve, di sovvertire l’ordine costituito illustrato dal famoso saggio Le vestali della classe media (1968), opera di grande importanza nel panorama della critica sociale e pedagogica, dove si può leggere, come affermazioni rappresentative del senso comune di molti insegnanti di fronte all’accesso delle classi popolari alla scuola media unificata:
Gli allievi di una volta avevano una preparazione di base che gli allievi di oggi non hanno. Oggi bisogna rifarsi da capo per metà del primo anno. Non conoscono i vocaboli, usano forme dialettali e ignorano le cose più semplici. (Barbagli e Dei, 1968, p. 113)
Il livello di preparazione attuale è molto inferiore. [...] Si tratta di intelligenze grezze, da plasmare, da ragazzi di terza o quarta elementare. Ci vorrebbe una riforma delle elementari per portare su ragazzi più preparati, altrimenti la scuola media diviene un corso postelementare. Vedi per esempio nella lingua italiana gli errori di grammatica, non conoscono gli accenti, l’apostrofo, la punteggiatura, i verbi reggenti (ivi, p. 114).
L'introduzione della scuola media unica nel 1962, che estendeva l'istruzione obbligatoria fino ai 14 anni, sembrava offrire nuove opportunità di mobilità sociale ma la pedagogia linguistica tradizionale, con il suo orientamento monolingue, continuava ad escludere chi non si conformava ai modelli normativi della lingua considerata standard. Un tipo di educazione che si rivelava quindi molto distante da ideali democratici ed inclusivi, dove la lingua non era considerata un diritto costituzionale ma un mero strumento per mantenere le divisioni sociali che oltretutto ignorava il plurilinguismo idiomatico (De Mauro, 1963) che contrassegnava il paese. Ne sono emblematica prova i Programmi per la scuola elementare del 1955 che, pur consapevoli della dialettofonia diffusa, manifestavano nei confronti dei dialetti un atteggiamento di ricusazione totale. Come ricorda anche Silvana Loiero, i Programmi contrastavano inoltre tutte le caratteristiche tipiche del parlato, spronando a modellare il parlare allo scrivere:
Si eviti che i fanciulli confondano i modi del dialetto coi modi della lingua; perciò si cercherà ogni occasione per disabituarli dagli idiotismi e dai solecismi. Nella didattica della lingua, ai fini della sincerità dell’espressione, l’insegnante tenga presente che una persona dimostra tanto meglio la sua padronanza di linguaggio, ossia di raziocinio e di gusto, quanto più scrive come parla e parla come scriverebbe” (Programmi 1955, Loiero, 2019, p. 387).
Sin dalla scuola elementare veniva dunque privilegiata la produzione sulla comprensione, e in particolare la produzione scritta a scapito di quella orale. Inoltre si chiedeva agli allievi di adeguarsi ad un unico modello, facilmente controllabile, rappresentato dalla realizzazione di usi formali, oscillanti tra il letterario e il burocratico ossia una varietà d’italiano lontano dagli usi quotidiani della lingua sia nel lessico sia nella sintassi, definito da De Mauro negli anni ’60 come “l’antiparlato” e successivamente ridenominato “scolastichese” (Loiero, 2019, p.388). A farne le spese erano soprattutto gli studenti che andavano a popolare le scuole medie che non si conformavano al modello linguistico ideale,
nel senso che non erano capaci di scrivere bene e di adeguarsi alle norme di realizzazione della lingua secondo le regole della grammatica normativa: parlare come un libro stampato poteva avere un senso per i figli di laureati, i cosiddetti Pierino del dottore, per dirla con Don Milani (Scuola di Barbiana, 1967), che sapevano scrivere e parlare adeguandosi allo stile posseduto dalla classe dominante. Per i tanti Gianni, invece, che non appartenevano alla ditta, il pericolo paventato da De Mauro era quello dello sradicamento dall’ambiente espressivo in cui erano nati o la loro esclusione dal sistema educativo (ibidem).
Le 150 ore tra recupero dell’obbligo scolastico e bisogno di alfabeto
La scuola media rispondeva ad un bisogno reale di istruzione ma evidenziò ineluttabilmente il problema delle bocciature e della selezione scolastica che aveva carattere sociale, geografico e anagrafico costringendo il Gianni del linguaggio di Don Milani a frequentare scuole serali o popolari. Fu proprio questo lo “strano studente” (Santamaita, 2021, p. 154) a caratterizzare in modo predominante le aule della cosiddetta “scuola delle 150 ore”, concepita come un vero e proprio laboratorio di innovazione didattica anche nel campo dell'insegnamento della lingua italiana, dove la pluralità delle esperienze linguistiche dei partecipanti, incluse le loro varietà dialettali e le competenze comunicative preesistenti, erano riconosciute e valorizzate.
L’idea delle 150 ore, elaborata dal segretario della CGIL Bruno Trentin e realizzata con il Ccnl metalmeccanici del 1973, prevedeva il diritto a permessi retribuiti per frequentare presso istituti pubblici o legalmente riconosciuti, corsi di studio al fine di migliorare la propria cultura. Dentro vi confluivano l’esperienza dei Cos (Centri di orientamento sociale) di Aldo Capitini, le idee di Danilo Dolci e di Paulo Freire sulla coscientizzazione delle classi subalterne, le lezioni di Alberto Manzi nel programma tv Non è mai troppo tardi (spesso seguito collettivamente anche in fabbrica), e ovviamente la critica radicale alla “scuola di classe” di Lettera a una professoressa che ebbe un impatto enorme anche su tutto il sindacato. L’istituto prevedeva tre livelli di utilizzo: corsi monografici universitari, corsi sperimentali abbreviati presso le scuole medie superiori, infine il recupero dell’obbligo che rappresentò la modalità privilegiata. Tale indicazione prioritaria era dovuta al fatto che la maggioranza dei lavoratori non era ancora in possesso della licenzia media inferiore:
Nel 1970 solo il 18% dei lavoratori aveva completato la scuola dell’obbligo e il 65% aveva la scuola elementare. Si trattava di dati estremamente negativi, tanto più grave se si tiene conto che il 66% dei giovani in età scolare riusciva ad arrivare al conseguimento per la scuola dell’obbligo e che quindi ben il 34% dei giovani veniva espulso dalle strutture scolastiche privo della indispensabile cultura di base (Dore, 1977, p. 14).
Di fronte alla constatazione che il sistema scolastico veniva palesemente a violare il diritto-dovere all’istruzione, la scelta del movimento sindacale acquisiva il significato politico di attuazione del dettato costituzionale (art. 34: “L’istruzione inferiore impartita per almeno 8 anni è obbligatoria e gratuita”). Una proposta di scuola che, in netta contrapposizione con il modello educativo tradizionale che imponeva un'istruzione distante dalla realtà quotidiana degli studenti, si configurò come un progetto di inclusione sociale e partecipazione democratica dove la lingua diveniva un mezzo per abbattere le barriere culturali e costruire una società più equa.
De Mauro fu un convinto sostenitore di questo nuovo istituto come dimostra il saggio Educazione linguistica e 150 ore. A suo avviso l’entrata dei lavoratori nella scuola attraverso l’avvio dei corsi di scuola media aveva fatto rapidamente maturare la presa di coscienza circa il superamento dei vecchi meccanismi di istruzione e discriminazione e la necessità di elaborazione e progettazione di nuove linee didattiche, conformi agli obiettivi di un movimento di massa che avvertiva nel diritto all’istruzione e alla cultura un momento decisivo per il suo avvenire e per l’avvenire della società:
Il problema della crescita culturale di lavoratori e lavoratrici è restato in Italia per lungo tempo mal noto e avvertito […], le responsabilità delle classi dominanti sono evidenti. In Italia la scuola di base è servita a tenere in una condizione culturale subalterna milioni e milioni di lavoratori e lavoratrici, attraverso i decenni della storia postunitaria e perfino della storia repubblicana nel nostro paese (De Mauro, 1976, p. 136).
Un punto di vista condiviso anche da un altro autorevole studioso, meritevole di menzione: Armando Petrucci. Paleografo di fama internazionale e professore universitario, Petrucci era profondamente impegnato nella battaglia contro l’analfabetismo, un fenomeno da lui attribuito in larga misura al neocapitalismo perché considerato funzionale al suo sviluppo selvaggio. Un impegno che, per Petrucci, non si limitava al solo piano teorico ma che si concretizzava anche in un coinvolgimento diretto e attivo sul campo come docente:
Corsi di paleografia per operai? Sì, perché no? Fu anzi quasi naturale, e molto importante, che ai corsi di Petrucci, dedicati alla storia della scrittura e del libro, partecipasse un folto nucleo di operai poligrafici, i quali diventavano così più consapevoli del passato e delle fondamenta del loro mestiere. Dunque più padroni del proprio lavoro: più liberi (Mordenti, 2022 p. 153).
E sono proprio professionalità e competenze del corpo docente a rappresentare un punto focale nella riflessione che De Mauro offre nel saggio sopra citato, soffermandosi lungamente su come qualsiasi intervento didattico all’interno dei corsi dovesse necessariamente partire dalla presenza di insegnanti adeguatamente preparati sia sul piano delle conoscenze sociolinguistiche sia su quello delle metodologie glottodidattiche:
Ancora oggi in Italia è possibile transitare e sortire felicemente (si fa per dire) da facoltà di Magistero e Lettere e da corsi abilitanti, senza aver mai inciampato in questioni come: che cos’è e come funziona il linguaggio, che cos’è una lingua, come si impara a parlare, a leggere, a scrivere, che rapporto c’è tra parlato e scritto in una frase? [...]. E quali sono le parlate che hanno corso oggi in Italia? Come è fatta l’Italia linguistica? Come è fatta e da dove viene la lingua italiana d’oggi? Quali sono gli strumenti scientifici per conoscerla? E per insegnarla? […]. Nell’inconsapevolezza di come funziona il linguaggio generazioni di insegnanti hanno concorso a bloccare lo sviluppo verbale dei loro allievi e ricacciarli indietro, nella massa dei non o dei poco scolarizzati, votati a una condizione socialmente e culturalmente subalterna. Vincere questa inconsapevolezza, trasformarla in elemento di riflessione autocritica e critica, è decisivo (De Mauro, 1976, p. 135).
In un contesto segnato da un’aspra critica del libro di testo, si chiedeva agli insegnanti lo sforzo ulteriore di superare gli inadeguati strumenti che avevano a disposizione rappresentati da manuali che presentavano diverse limitazioni, come “una insufficiente sensibilità nei confronti del destinatario, una scarsa sensibilità agli obiettivi assegnati all’azione educativa e la mancanza di collegamento tra teoria e pratica” (Simone, 1976, p. 23). De Mauro prosegue sottolineando che nell’abito delle 150 ore l'educazione linguistica non doveva limitarsi a trasmettere uno standard linguistico predefinito, avrebbe dovuto invece tener conto della complessità della comunicazione umana, che integra costantemente elementi verbali e non verbali, linguistici ed extralinguistici. Questo approccio riconosceva la natura dinamica della lingua e il suo continuo evolversi, nonché la necessità per i parlanti di adattarsi a contesti comunicativi diversi e in continua trasformazione. Per tradurre queste indicazioni di massima in lavoro da compiere nei corsi era necessario un ulteriore ingrediente, altrettanto fondamentale:
Per tutta la durata del corso deve valere il rovescio di un vecchio proverbio: la parola, qualunque parola, dialettale, smozzicata, imprecisa mal scritta, pronunciata con l’accento sbagliato, qualunque parola è d’oro e il silenzio è d’argento. Qualunque parola è sempre meglio della condizione di lungo silenzio in cui le classi subalterne sono state tenute per secoli nelle società borghesi e in quella italiana in particolare. Senza questa fase di liberazione dal silenzio, di liberazione di tutte le capacità verbali ed espressive orali e scritte sono improponibili i due momenti successivi. Il momento dell’individuazione dell’ambiente e retroterra culturale di ciascun lavoratore e il momento terminale dell’acquisizione di un atteggiamento autocritico nei confronti delle formulazioni verbali (De Mauro, 1976, p. 155).
La proposta di De Mauro si distingueva per il rifiuto di un approccio normativo e prescrittivo all'educazione linguistica riconoscendo il valore intrinseco dell'esperienza personale e immediata dei lavoratori come punto di partenza per l'apprendimento. L’educazione linguistica dunque non si poneva soltanto come un mezzo per acquisire competenze tecniche ma diveniva un processo di emancipazione che consentiva agli individui di prendere coscienza del proprio retroterra culturale e sociale, di interrogarsi criticamente sulle proprie espressioni linguistiche e di partecipare attivamente alla costruzione di significati condivisi. Una visione con profonde implicazioni pedagogiche e sociali in grado di offrire preziose indicazioni per la didattica rivolta agli adulti: dalla centralità dell'esperienza personale all’ apprendimento autodiretto e partecipativo passando per un’educazione problematizzante e trasformativa, liberare la parola, dare voce a chi è stato storicamente silenziato, promuovere una partecipazione attiva e critica nella società. Un aspetto tanto più importante quando lo si collega ai problemi che affliggevano lo sviluppo del Mezzogiorno come rende conto la testimonianza che segue, emblematica dei livelli di istruzione diffusi all’epoca, soprattutto tra la manodopera immigrata:
Io provengo da una famiglia di contadini ed a leta di 11 anni che o finito la quinta mio padre mi ha portato con lui in campagna. Ed poi a leta di 12 anni ero stufo di lavorare in campagna. non che non mi piaceva il lavoro ma non rendeva abbastanza. Ed così decise di emigrare in prov. di Varese ed sono partito con lui poi rivando qui o lavorato nei cantieri come manuale ed dormire in pensione poi o lavorato per un anno in uno stabilimento di tessitura, per motivi dei miei parenti poi sono venuto a lavorare a Milano ed o lavorato un’altra volta nel muratore come cottimista, poi sono andato militare ed quando o finito o deciso di entrare di nuovo in fabbrica […] (corsista, Prime esperienze sulle 150 ore, Fondo Flm b. 13854 fasc. 4).
In un quadro caratterizzato da immigrazione e frequente uso dei dialetti era più che necessario adottare all’interno dei corsi un approccio inclusivo che evitasse di considerare queste espressioni linguistiche come il male assoluto e riconoscesse e rispettasse invece le radici culturali di tutti i partecipanti, favorendo una maggiore integrazione e coesione sociale:
Il dialetto è una malerba? Secondo alcuni l’uso dei dialetti sarebbe un male. A costoro i dialetti sembrano brutti, incivili, sbagliati, e chi parla dialetto è accusato di sgrammaticare. Per costoro, insomma, una trentina di milioni di italiani, dovrebbero da un giorno all’altro smettere di usare i dialetti e di punto in bianco dovrebbero tutti quanti cominciare a parlare in ogni occasione come un libro stampato. Bisognerebbe dicono costoro, strappare la malerba dei dialetti. Intendiamoci è molto importante che tutti i cittadini dello stesso paese sappiano usare la stessa lingua, […] è la prima condizione di una vera parità fra i cittadini. Bisogna quindi ottenere che al più presto tutti siano in grado di usare l’italiano e lo usino abitualmente. Tutti e non solo 18 o 20 persone su 100 [...]. Ma per arrivare a questo giusto obiettivo, non è necessario disprezzare i vecchi dialetti e cercare di distruggerli. I dialetti sono come la campagna e la lingua è come la città (De Mauro, estratto da La lingua italiana e i dialetti, dispensa FLM 13.866 fasc. 6).
Deficit di istruzione delle classi popolari, sottosviluppo scolastico e culturale, bisogno di prima scolarizzazione erano pertanto fenomeni che segnavano ancora profondamente la realtà sociale italiana. Una domanda di alfabetizzazione e di formazione di base che, come documentato da Duccio Demetrio (1976; 1977), emerse frequentemente anche all’interno dei corsi 150 ore evidenziando un problema nazionale che influiva non solo sulle competenze professionali, ma soprattutto sulla partecipazione politica e sociale. Impegnato nei corsi per l’alfabetizzazione di base a Milano, Demetrio ha avuto il merito di porre l’attenzione sull’importanza del nuovo istituto contrapponendolo al modello assistenziale praticato fino ad allora, in cui il congelamento culturale dell’analfabeta era funzionale al mantenimento del suo ruolo sociale subalterno:
Le aule finalmente piene, le 150 ore hanno dato una risposta reale alla domanda di alfabetizzazione: quando gli analfabeti frequentavano solo le scuole serali e domenicali senza un tempo pagato (conquistato) le aule erano infatti semideserte o del tutto vuote. E questo non per scarso interesse ma per il peso dello sfruttamento: dopo otto ore di lavoro pesante, magari con la casa lontana o con i turni da fare e gli orari sfasati, l’istruzione diventa davvero quasi irraggiungibile e fatto puramente individuale (Demetrio, 1976, p. 18).
Il tempo di studio retribuito si accompagnava inoltre ad un insegnamento dell'abc che cercava di coinvolgere attivamente i corsisti raccogliendo storie di vita, inchieste di fabbrica e volantini che venivano riassunti con parole o frasi molto semplici illustrate da disegni su cartelloni. Frasi che
permettevano da una parte di oggettivare la storia onde facilitare la discussione e il ripensamento critico su di essa, dall’altra di utilizzare le singole parole per una serie di esercizi (scomposizione, ricomposizione, riscrittura, ricerca di sinonimi) (Demetrio, 1977 a, p. 119).
“Parlare, ascoltare, leggere e scrivere”: una nuova didattica dell’italiano
Un importante problema di cui il sindacato intese farsi carico fu rappresentato dalla formazione degli insegnanti (Lichtner, 1986).
Non si trattava di un problema da poco, data la complessità degli elementi che dovevano concorrere alla riuscita del progetto. Intanto non bastavano entusiasmo o una disponibilità generici: alla motivazione politica doveva affiancarsi una preparazione particolare perché i protagonisti e le caratteristiche del rapporto educativo erano cambiati (Tornesello, 2006, p. 65).
La pressoché assoluta novità dei corsi costituiva un elemento dirompente sul piano didattico e costrinse tutti i soggetti istituzionali coinvolti, dal ministero della Pubblica istruzione ai sindacati, a porsi la questione di una specifica formazione per gli insegnanti chiamati a tenerli. Si trattava spesso di personale docente appena laureato e senza esperienza didattica, la cui formazione non era specificatamente orientata all’educazione degli adulti, tanto meno verso soggetti inseriti in un contesto lavorativo rispetto al quale gli aspiranti insegnanti erano per lo più estranei ed impreparati. Il sindacato si impegnò così fin dal principio nell’organizzazione di percorsi di formazione, trovandosi a collaborare, specialmente dopo il riconoscimento ministeriale del 1974, con i provveditorati e con “enti di fiducia” (Facoltà di Sociologia di Trento, Facoltà di Pedagogia di Torino, Isfol, Formez). La formula prescelta consisteva in un corso di una settimana all’inizio e una serie di incontri in itinere i cui obiettivi sono ben rappresentati da questo estratto da un corso preparatorio:
Il seminario preliminare deve chiarire innanzitutto agli insegnanti le finalità delle 150 ore, le richieste culturali che provengono dai lavoratori, gli obiettivi che perseguono le organizzazioni sindacali. Articolazione. A) Alfabetizzazione: come valorizzare il patrimonio linguistico posseduto dai lavoratori ed arricchire la loro capacità espressiva. B) Programmazione didattica: come si individua, partendo dalla domanda culturale dei lavoratori, un piano di studio omogeneo e coerente C) Ricerca D) Il lavoro di gruppo E) Didattica delle singole materie (Frisone, 2014, p. 41).
Il corpo insegnante, come già indicato, mancava inoltre di studi approfonditi in ambito sociolinguistico e di strumenti idonei per la didattica. A fronte di queste lacune, l’esperienza di Barbiana e successivamente Le dieci tesi per l’educazione linguistica furono i riferimenti teorici per un approccio alla lingua italiana “volta ad ottenere più la spontaneità dell’espressione che non il conseguimento di una correttezza linguistica costretta all’interno di un rigido sistema di regole” (Pasero e Zatta, 1982, p. 24). Educatori e insegnanti trovarono ulteriore supporto nei corsi promossi dalla “Commissione formazione e aggiornamento docenti 150 ore”, struttura del Ministero della Pubblica Istruzione che intesseva rapporti di collaborazione con altre associazioni. Un esempio significativo è rappresentato dal Cedos (Centro esperienze e documentazione operatori scolastici), organo della federazione milanese Cgil Cisl Uil, al cui interno operava un apposito gruppo sulla didattica delle lingue che si riuniva settimanalmente presso i locali della Società Umanitaria con i contributi, tra i tanti, di Luisella Erlicher e Paola Melchiorri.
L’impegno di questi soggetti è testimoniato da una vasta produzione di dispense, pubblicazioni e bollettini che documentavano le esperienze didattiche e fornivano strumenti pratici e teorici per supportare i colleghi. Ne rappresentano un emblematico campione i testi che seguono: Facciamo italiano (che riporta l’esperienza torinese di un corso di aggiornamento per insegnanti del 1976-1977); 150 ore zona Gorgonzola. Note su linguaggio e abilità di base a cura della commissione 150 ore sull’insegnamento della lingua italiana (con una relazione di Armando Petrucci su Scrittura, libro e lettura come strumenti di classe); i volumi a cura del Cedos, 150 ore. Bilancio con i lavoratori (1976) e Nuove tendenze delle 150 ore (1982, con un saggio Il problema dell’educazione linguistica di E. Pasero e G. Zatta); L’educazione linguistica per gli adulti di Raffaele Simone che contiene un’indagine sul problema dello sviluppo linguistico degli adulti nei corsi 150 ore svolta su iniziativa della Regione Emilia Romagna (volta a preparare un successivo ed efficace intervento formativo diretto a porre gli insegnanti in “condizione di rispondere alla richiesta di linguaggio avanzata dai lavoratori”, 1976); Viaggio nell’Italiano popolare (che racconta un’esperienza di ricerca sull’educazione linguistica di base partita dall’analisi degli elaborati dei corsisti 150 ore). È proprio una dispensa di italiano contenuta nell’ archivio FLM (13.866/6, con un estratto da De Mauro La lingua italiana e i dialetti) a fissare in modo molto efficace il principale obiettivo di intervento da perseguire nella didattica dell’italiano ossia l’autonomia a livello linguistico, definita come:
la capacità di intervento attivo e non delegato sulla realtà attraverso mezzi di comunicazione quali la comunicazione verbale, la lettura, la scrittura. Questo significa non solo avere cose di cui parlare o leggere o scrivere, ma anche sapere come parlare, leggere e scrivere. Il problema dei lavoratori che non intervengono in situazioni sotto controllo (come ad esempio nel corso) viene spiegato dagli stessi in questo modo: non so come dirlo. Autonomia linguistica significa […] passare da un codice ristretto a un codice elaborato (150 ore zona Gorgonzola, Flm 13840 fasc.3.1).
Si trattava dunque di
superare l’orientamento tradizionale che muove da un concetto di competenza linguistica definito sulla base di una concezione astratta della lingua come sistema, si esaurisce in una non meno astratta capacità del parlante di riconoscere e produrre frasi linguisticamente accettabili, dove l’accettabilità linguistica è determinata esclusivamente sul piano sintattico o nel migliore dei casi semantico (Bazzanella e Geuna, 1979, p. 32).
Un orientamento che trascurava la dimensione pragmatica della comunicazione e la capacità di adattare il linguaggio al contesto reale
che si esplicita nella capacità del parlante di produrre non frasi formalmente corrette ma efficaci in quanto adeguate alle intenzioni del parlante e alle caratteristiche del contesto in cui avviene la comunicazione. In breve cogliere il senso di un discorso e trasmettere un senso attraverso un discorso diventa il tipo di competenza a cui si fa riferimento[4] (150 zona Gorgonzola, 13840.3.1, p. 2).
Nelle 150 ore questa impostazione trovava un rafforzamento non solo a causa delle poche ore a disposizione ma soprattutto in considerazione della particolarità dell’utenza: adulti “già provvisti di un patrimonio linguistico che andava valorizzato e che non si doveva artificiosamente cancellare” (Pasero e Zatta, 1982, p. 24). Di conseguenza, la priorità di intervento si orientava verso il potenziamento delle competenze linguistiche esistenti, focalizzandosi su aree fondamentali come “parlare, ascoltare, leggere e scrivere” (ibidem):
L’ordine di questa sequenza non è casuale ma risponde ad un preciso piano di intervento che non è quello in uso tradizionale nella scuola. “La pedagogia linguistica tradizionale punta i suoi sforzi in questi direzioni: rapido apprendimento da parte dei più dotati di un soddisfacente grafismo e del possesso delle norme di ortografia italiana; produzione scritta anche scarsamente motivata (pensierini, temi); classificazione morfologica della parti della frase (analisi grammaticale), apprendimento a memoria di paradigmi verbali; classificazione cosiddetta logica di parti della frase; capacità di verbalizzare oralmente e per iscritto apprezzamenti, di solito intuitivi di testi letterari, solitamente assai tradizionali; su intervento correttivi, spesso privi di ogni fondamento metodico e di coerenza, volti a reprimere le deviazioni ortografiche e le (spesso assai presuntive) deviazioni di sintassi, stile e vocabolario (Giscel)" (Bazzanella e Geuna, 1979, p. 30).
Con riferimento al metodo l’attenzione fu quindi posta sulla discussione, sul lavoro di gruppo, la decisionalità del collettivo, lo stretto rapporto insegnanti-studenti per la programmazione didattica e la gestione dei corsi. Docenti, esperti e sindacalisti collaboravano alla costruzione e conduzione delle lezioni e i contenuti forniti dagli studenti passavano attraverso un processo di discussione collettiva che li coinvolgeva in prima persona, evitando l’accumulo di nozioni e fornendo la percezione di una cultura utile alla comprensione della realtà. Una metodologia che guardava con attenzione alla cultura orale, espressione autentica della vita e delle esperienze delle persone comuni, al di fuori delle élite culturali e intellettuali. In una dispensa di un corso 150 non a caso ci si chiede: “perché la domanda di imparare ad esprimersi prevale su quella di imparare ad usare la parola scritta, al punto da imporre come metodo principale la discussione?” (Chiaretti, 1976, p.84):
La richiesta di imparare a scrivere rimane priva di un rapporto con l’ambiente esterno al corso. In fabbrica l’unica attività sindacale ad avere un carattere di massa è la pratica dell’assemblea dove l’abilità ad usare la parola parlata diventa il principale strumento di partecipazione e affermazione. Allo stesso modo nel rapporto di lavoro, nel confronto con i capi è determinante l’abilità ad usare la parola parlata (Rossetti Pepe, 1976, p. 74).
Lo testimoniano bene anche le parole di Dela Raci e Vanna Toso rilasciate in un’intervista del 2007 a cura di Lidia Martin sul numero 14 di Zapruder:
C’era una domanda […] di strumenti linguistici, di valorizzazione della lingua orale. Mi ricordo i miei alunni parlavano benissimo, anche perché erano più politicizzati, ma davanti al foglio bianco ammutolivano, per cui c’era il problema di superare l’impatto con il testo scritto (2007, p.103).
La discussione diveniva inoltre particolarmente importante con studenti non alfabetizzati per
predisporre nel corso dell’apprendimento una sistematica provocazione sui contenuti con i quali l’analfabeta non è in contatto perché questi sono trasmessi solo con la stampa ed entro gli altri canali di cui dispongono gli alfabetizzati. L’analfabeta in situazione urbana è isolato; la sua comunicazione si svolge entro un ambito parentale o amicale ristrettissimo (Demetrio, 1977 b, 167).
Per quanto riguarda la lettura:
inizialmente come al solito, si tratterà di conoscere la reale situazione di partenza, cioè di sapere quali testi sono di uso normale tra gli allievi e quali capitano loro occasionalmente sott’occhio (fotoromanzi, volantini) [...] sui quali esercitare un’analisi […] e poi focalizzare l’attenzione sui testi più lontani dall’esperienza quotidiana dei corsisti (stralci di linguaggio burocratico o letterario). È infatti importante che un parlante sappia adeguatamente produrre e capire tutti quei tipi di testi che sono correttamente utilizzati nella comunità di cui è membro e coi quali si trova a ad avere a che fare nell’attuazione dei suoi diritti e doveri di cittadino e nella partecipazione alla vita di comunità (Bazzanella e Geuna, 1979, p. 42).
Le indicazioni sindacali proseguivano sul rifiuto del libro optando per la preparazione di materiali specifici fornendo ai corsisti manuali autoprodotti con il ciclostile: un ulteriore medium, che svolse un ruolo fondamentale nella contestazione operaia e studentesca a partire dal 1968, tanto da caratterizzare e rappresentare pienamente quegli anni di conflitto sociale, politico e culturale:
I libri. Troppo elementari, senza nessun problema vivo, fatti su misura per un certo tipo di allievo, che in fondo deve solo veder sottolineate dal libro le idee che ha già in testa. Noi lavoratori studenti studiamo più sui giornali che sui libri: ed è logico che certe frasi trite, certi luoghi comuni che i nostri libri ancora riportano ci infastidiscano e non fanno altro che rivelare l’insufficienza dei testi scolastici (Corsista, Perché le calze sono rosse, Flm, b. 13855 fasc.6).
Si trattava di esigenze di cambiamento già avanzate negli anni precedenti dal Movimento di Cooperazione Educativa e da iniziative come la Biblioteca di lavoro curata da Mario Lodi, a cui rispose un pullulare di progetti che fornirono testi teorici con esempi di esperienze didattiche alternative utilizzati anche nei corsi 150 ore. Esempio concreto di questa cultura è dato dall’utilizzo del giornale. La scelta del quotidiano, tradizionalmente accusato di insegnare un cattivo italiano (Cavazzoni, 1976, p. 14), era dovuta alla facilità che presentava la sua lettura in classe, offrendo al lavoratore l’opportunità di maturare capacità critica per smontare i meccanismi persuasivi della lingua attraverso l’esame di titoli, impaginazione, fotografie, testi di cronaca. Va inoltre ricordato che a partire dal 1970 alcuni consigli di fabbrica iniziarono a pubblicare propri giornali e bollettini, si pensi a "L’Assemblea", periodico dei lavoratori della Montedison Ferrara. Funzionale alle richieste di rinnovamento utili alla ricerca e all'arricchimento personale fu anche la costituzione di biblioteche di corso con letture caratterizzate da un'impronta critica e realistica che mirava a far riflettere i partecipanti su dinamiche storiche e sociali e sulle proprie condizioni di vita superando l’atteggiamento passivo nei confronti dello studio.
Infine relativamente allo scrivere il contesto educativo delle 150 ore rappresenta ancora oggi un ottimo esempio dell’utilizzo conoscitivo e relazionale del metodo autobiografico:
Ben prima della nascita dell’Archivio di Pieve Santo Stefano in Italia, nei corsi 150 ore per lavoratori, non si contavano le iniziative didattiche che intendevano restituire a donne e uomini senza scolarità una dignità in quanto narratori di sé. E, a tal proposito, basterebbe disseppellire, la moltitudine di documenti e di studi approfonditi su quella vicenda che rappresentò la prima, vera, campagna di lotta contro l’analfabetismo adulto nel nostro paese, per rendersi conto di quanto si facesse adottando modalità di coinvolgimento e di riconquista dell’alfabeto e del piacere di leggere e scrivere: di farlo per la prima volta o di tornare a farlo (Demetrio, 2004, p. 48).
Nell’ambito dei molteplici corsi per l’alfabetizzazione primaria o il recupero e nella sperimentazione didattica dell’insegnamento dell’italiano, si puntava proprio sulle storie personali che servivano ad enucleare i temi portanti rispetto alla questione dello studio, in rapporto alle condizioni personali e sociali passate e presenti. L’idea di fondo era collegare, coerentemente con gli obiettivi del modello, apprendimento ed esperienza di vita e di lavoro (Dati, 2022, pp. 99-157).
Conclusioni
“La più articolata indagine sociologica e pedagogica” (Morganti 1982, p. 141) sui risultati conseguiti con i corsi delle 150 ore, per quanto legata ad una specifica realtà geografica, fa emergere risultati largamente positivi che possono essere qui riportati come esempio utile a evidenziare traguardi e competenze linguistiche acquisite dai corsisti. Realizzata nel periodo accademico 1978-1979 dalla Facoltà di Magistero, guidata dal prof. Filippo Maria De Sanctis, pioniere dell'educazione degli adulti in Italia, la ricerca si concentrava sui corsi offerti in 20 distretti scolastici della Toscana intervistando 1410 ex corsisti.
Dopo i corsi risultava innanzitutto crescente la volontà di proseguire gli studi, l’adesione al tessuto associazionistico e la partecipazione alla vita di organismi democratici, un deciso incremento di iscrizioni a sindacati e partiti, cooperative e associazioni culturali; aumentata risultava anche la partecipazione alla vita di quartiere, agli organismi collegiali della scuola, ai gruppi redazionali di fabbrica e di quartiere. La maggior parte dei corsisti dichiarava che l’istituto aveva avuto un impatto positivo su tutta la vita quotidiana, confermando l'efficacia del programma nell'ottenere risultati concreti e utili nella pratica comunicativa, nella capacità esprimersi, di leggere e comprendere testi complessi, come le buste paga. Di seguito alcuni esempi estratti dal questionario (De Sanctis, 1981):
Dopo il corso:
So leggere meglio la busta paga 316 (22, 41%)
Conosco meglio i miei diritti di lavoratore 429 (30, 43%)
Sono più critico al cinema e alla tv 299 (21, 21%)
So trattare meglio con il padrone 207 (14, 68%)
So fare meglio le quattro operazioni 463 (32, 84%)
Mi esprimo meglio in italiano 395 (28,01%)
Dopo il corso quando devo scrivere una lettera mi sento[5]:
A mio agio 1090 (77, 30%)
Incerto 251 (17,80%)
Preferiscono farmela scrivere 69 (4,90%)
Dopo il corso leggo libri:
Con maggior facilità 750 (53, 19%)
Con minor difficoltà 209 (14, 82%)
Non leggo libri 331 (23,48%)
Nr 120 (8,51%)
Dopo il corso nei confronti di persone più colte mi sento:
A mio agio 972 (68, 94%)
Incerto 362 (25, 67%)
A disagio 41 (2,91%)
Nr 35 (2, 48%)
L'indagine conferma il ruolo fondamentale dell'educazione linguistica come strumento di emancipazione sociale e politica producendo significativi risultati non solo sul piano cognitivo, ma anche su quello civico e partecipativo, di trasformazione e inserimento attivo nella società. Questi risultati sono in linea con le riflessioni di Tullio De Mauro sulla necessità di una pedagogia linguistica capace di superare il tradizionale modello scolastico, valorizzando invece l'oralità, il pensiero critico e l'uso contestualizzato del linguaggio. I corsi delle 150 ore si sono rivelati dunque un laboratorio pedagogico d’avanguardia, non solo per il loro approccio innovativo, ma anche per la loro capacità di coniugare il miglioramento delle competenze linguistiche con una reale trasformazione sociale. L’impegno nel promuovere una didattica partecipativa e orientata al dialogo ha reso evidente come l’educazione linguistica possa essere un fattore cruciale per l’inclusione e l’emancipazione, confermando che il diritto alla parola è, in ultima analisi, diritto alla cittadinanza attiva e che “i problemi di educazione linguistica sono problemi politici” (De Mauro, 1976, p. 155).
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L’autrice
Monica Dati ha conseguito il dottorato di ricerca in Teoria e storia dei processi formativi, svolge attività di ricerca in questo settore disciplinare presso l’Università telematica degli Studi IUL. Si occupa di Public History in ambito educativo, con focus su Storia della lettura e biblioteche. Tra i suoi interessi di ricerca anche la dimensione storica dell’educazione degli adulti con un’attenzione particolare al tema delle 150 ore.
Note
[1] G. Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 1973, p. 10.
[2] Ancora non erano diffusi termini come diatopia o diastratia, pertanto non si etichettavano gli italiani regionali come esempi di variazione diatopica e l’italiano popolare come esempio di variazione diastratica (Giacolone Ramat 2003, Gensini 2005).
[3] Il concetto di educazione linguistica è stato introdotto in Italia da Giuseppe Lombardo Radice (Turnone 2020, D’Aprile 2020).
[4] “Per l’articolazione del corso si è seguito un orientamento teorico legato alla linguistica pragmatica e alla linguistica testuale” (Bazzanella, Geuna, 1979, p. 29)
[5] Ulteriore piccola dimostrazione di questo cambiamento è rinvenibile nella creazione di un gruppo di lettura presso la biblioteca di Novate Milanese negli anni '80 su iniziativa di alcuni corsisti, documentata all'interno della pubblicazione del Cedos Nuove tendenze nelle 150 ore della scuola di base (1982).