MuDiB: il Museo diffuso Bicocca. Un museo in divenire che valorizza le interconnessioni | MuDiB: Bicocca’s distributed museum. A museum in the making that reinforces interconnections

DOI: 10.5281/zenodo.10646088 | PDF

Educazione Aperta 15/2024

This paper narrates a journey, that of the setting up of MuDib, Milano-Bicocca University’s distributed museum. This is a museum institution with an unconventional structure. It does not occupy a defined physical space, but rather a relational dimension, with the direct engagement of several types of audience. Over the centuries, universities around the world have set up museums within their walls: focused on disciplinary knowledge and founded with educational and research aims, these museums boast a long and glorious tradition. In contrast, the University of Milano-Bicocca, which celebrates its first twenty-five years of existence in 2023, has taken a different path, opting to draw out the value of its existing heritage by creating a distributed museum. This museum in the making, whose work of cataloguing and digitizing is ongoing, also pursues the aim of fostering connections: between the University’s departments, by amplifying their research, with other university museums, by remaining in constant dialogue with them, and with the wider community, in terms of official cultural institutions and all bodies, associations, and citizens with an interest in engaging with Bicocca’s heritage. One of the first initiatives of MuDiB was the curatorship of a small exhibition entitled Birth: Birth is Not Enough, which opened on 28 September 2023 and included a series of related events across the campus. 

Keywords: Distributed museum, education, interpretation, relationships.

Introduzione

Ormai da alcuni decenni i musei sono stati oggetto di un processo di continua trasformazione, che ha posto il pubblico, o meglio i differenti pubblici (Bollo, 2008), al centro delle varie progettualità realizzate, arricchendo quella linea prospettica che già, nell’ormai lontano 2004, Alessandra Mottola Molfino aveva ben definito e che sostanziava nello “spostamento dell’interesse […] dagli oggetti da conservare alle comunità di fruitori” (Mottola Molfino, 2004, p. 19).

Si è trattato, nel tempo, di un movimento di confronto, e talvolta scontro, tra posizioni più legate alla tutela e alla conservazione, e posizioni volte alla promozione della fruizione, e della produzione culturale dei pubblici (Bertuglia, Infusino e Stanghellini, 2004). Queste direzioni, lungi dal contrapporsi sempre in modo frontale, hanno provato, nel corso degli anni, a comporsi in una prospettiva più articolata e complessa. Va però sottolineato come la focalizzazione sulla valorizzazione del ruolo del pubblico, non avesse voluto in alcun modo abbandonare o trascurare gli oggetti conservati, che hanno continuato a essere materia di una sistematica azione di ricerca e di studio. Gli stessi materiali culturali, posti in una connessione dialettica con i fruitori del museo, grazie ad appositi progetti educativi, diventavano così i mediatori attivi (Damiano, 2020) dell’incontro, del confronto, della relazione, della scoperta e dell’apprendimento. Così scriveva Silvia Dell’Orso (2009, p. 22) sottolineando il percorso che gli enti museali stavano realizzando, evidenziando lo sforzo, che soprattutto l’Italia stava mettendo in campo per recuperare una prospettiva, già estremamente familiare in molti paesi europei:

uno sforzo collettivo di riscatto del ruolo del museo, dunque, voltando pagina rispetto a quanti lo hanno voluto pensare sinora solo come luogo di studio, tutela, conservazione di patrimoni di varia natura. Uno sforzo che allinea l’Italia a quanto già avviene da anni in Europa e oltreoceano, individuando nel museo un luogo innanzitutto di mediazione culturale, obbligato per questo ad affiancare alle pur imprescindibili attività di conservazione quelle di divulgazione, informazione, coinvolgimento della comunità.

La nozione stessa di “museo”, come istituzione, strettamente legata al concetto di trasmissione e costruzione del sapere, come ben aveva prefigurato Georges-Henri Rivière (2007), fra i fondatori della nuova museologia, ha vissuto e vive ancora attualmente di questi confronti, scontri, cambiamenti, non potendo mai acquietarsi, figlia come è di una realtà sociale, culturale, politica in continua trasformazione e mutamento (Dell’Orso, 2009).

Di questo percorso, non sempre facile, né lineare alcuni passaggi salienti, nell’epoca più contemporanea, sono stati i processi che hanno portato alla formulazione della nuova definizione di museo, approvata il 24 agosto 2022 a Praga durante l’assemblea generale ICOM e che qui è opportuno ricordare:

Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano in modo etico e professionale e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze.

In questa enunciazione si può notare come sia sottolineata un’attenzione mirata nei confronti dei concetti di: accessibilità e inclusione, promozione della diversità e della sostenibilità, ricordando le azioni proprie di questa istituzione che vede nella: ricerca, collezione, conservazione, interpretazione ed esposizione le sue principali missioni.

Si tratta di una definizione che ha saputo placare, in certo modo, una diatriba interna, specchio di quanto lo stesso museo sia sempre al centro di un dibattito culturale che mai si acquieta. Sicuramente l’enunciazione appena riportata è meno forte, rispetto a quella proposta a Kyoto, nell’assemblea generale ICOM del 2019, che parlava dei musei come

spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, conservano reperti ed esemplari in custodia per la società, salvaguardano ricordi diversi per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone.

In ogni caso nelle due definizioni, che attestano le trasformazioni delle ipotesi legate alle finalità di questa istituzione, è opportuno sottolineare come sia dedicata una specifica cura non solo agli aspetti materiali, propri delle collezioni di molti musei, ma anche a quelli immateriali, oltre a una dimensione fortemente relazionale in cui il pubblico ha un posto rilevante. In queste proposte la riflessione relativa alla costruzione del sapere diventa un dato importante, in cui le memorie, codificate negli oggetti e nelle storie, e la loro salvaguardia si sanno porre in dialogo con l’evoluzione della società, nella evidenza di una cultura che si trasforma, vivificandosi (Hooper-Greenhill, 2005).

Il concetto di museo diffuso

A partire da queste prime riflessioni sulla definizione di museo, poste ad avvio del contributo, che vogliono testimoniare un dibattito vivo e coinvolgente che si confronta sulle finalità di questa istituzione, oltre che sulle prospettive d’azione all’interno di una società in costante cambiamento, il secondo punto che in questo scritto si vuole affrontare è quello relativo al museo diffuso. All’interno dell’Università degli studi di Milano-Bicocca la scelta operativa, nel momento in cui si è avviato un processo legato alla valorizzazione del patrimonio contenuto nei suoi dipartimenti e nelle altre strutture universitarie, è stata quella di optare per l’istituzione di un museo diffuso. Questa decisione ha voluto dire sottolineare un aspetto specifico di questa università, che si sviluppa come un campus aperto all’interno del quartiere, alternando edifici universitari ad abitazioni civili, oltre che a imprese, centri di ricerca, istituzioni culturali (Bigatti e Nuvolati, 2018). Le scelte dell’architetto Vittorio Gregotti, con le sue alternanze di piazze ribassate e rialzate, ipotizzate come potenti collettori di traiettorie, predispongono percorsi tra le vie immaginate come arterie rettilinee che tagliano verticalmente il territorio (Gregotti, 2002; Morpurgo, 2017).

Io penso che il suo carattere insediativo offra qualche interesse proprio a partire da un’interpretazione dell’idea di campus universitario più fortemente integrato sia ad altre funzioni produttive, abitative e di servizio, sia perché volto verso una parte del comprensorio lombardo più densamente e attivamente abitato. Le soluzioni architettoniche dei due più importanti nuclei universitari muovono verso questo principio di integrazione, aperto alla frequentazione pubblica, in confronto diretto con il mondo del lavoro e quello dello studio e della ricerca. Questa volontà si rivela nella sequenza e concatenazione degli spazi pubblici, nel loro disegno e nella graduazione dei loro livelli di accessibilità (Gregotti, 2002, p. 89).

Ecco che le collezioni non concentrate in un unico luogo, ma collocate nei vari dipartimenti da cui hanno tratto la loro origine, unite a specifiche raccolte nate da percorsi di ricerca o studio, con alcuni punti di valorizzazione, ben si prestano a confrontarsi con il concetto di museo diffuso e con le finalità proprie di questa proposta culturale. 

Per approfondire correttamente questa definizione è meglio rifarsi a chi l’ha creata e pienamente utilizzata. Tra i primi vi è l'architetto milanese Fredi Drugman che negli anni Settanta-Ottanta con questa enunciazione espresse una forte attenzione allo stretto rapporto che intercorre fra un territorio e il patrimonio lì conservato. La sua successiva teorizzazione sottolineava come gli enti preposti alla conservazione non avessero, in questo caso, solo il compito di realizzare azioni legate alla custodia, raccolta, studio sistematizzazione, ma che dovessero diventare veicolo di partecipazione degli abitanti e delle istituzioni in un processo il più possibile collettivo e condiviso. L’obiettivo primario del museo diffuso, come teorizzato da Fredi Drugman, era dunque quello di far riscoprire alla popolazione la propria identità attraverso un distretto culturale, ovvero una rete di opere, esposizioni, tracce e luoghi di interesse storico-artistico sparsi nella zona interessata, alimentando il rapporto con il territorio e ritrovando sul campo i segni delle vicende storiche che ci si proponeva di scoprire e approfondire. Questa progettualità in azione introduceva un sistema innovativo, capace di creare ambienti di apprendimento sinergici e interattivi. Dall’altro lato gli stessi residenti dei luoghi erano direttamente implicati, spinti, in questo processo, a tutelare i propri beni culturali e a farli conoscere. Drugman ne parlava come di una

organizzazione diffusa, a rete, ramificata del museo come sistema complesso di servizi preposti prioritariamente alla conservazione, ma radicato alle origini, alle fonti dei beni culturali […] e al sistema dell’istruzione […] che consenta di partecipare a una creazione collettiva […]. Un museo che non può più esaurire il ciclo conservazione-informazione entro le vecchie mura di pochi tipi edilizi ripetuti, ma si attesta in capisaldi del territorio, punti nevralgici già riconosciuti tali o per antica storia o per attuale coincidenza con la contemporanea dimensione turistica, gastronomica, geografica, ambientale… (Drugman, 1982, p. 24).

Il patrimonio, inteso in questa prospettiva, diventava così collettivo (Cuzzani, 2010; Scazzosi, 2011), spingendo verso una mappatura delle eredità materiali e immateriali meno note e diffuse, che necessitavano della testimonianza delle singole persone o delle comunità. In questa direzione sono nati molti musei diffusi ed ecomusei, con l’obiettivo prioritario di attivare forme di partecipazione della popolazione volte alla conservazione e alla rivitalizzazione del proprio patrimonio culturale.

Drugman, che si occupava di museo diffuso, quel particolare tipo di museo che già negli anni Ottanta affrontava il difficile tema della conservazione degli oggetti nel loro contesto. Una dimensione che obbliga a confrontarsi con lo spazio aperto e accetta la sfida di dare un senso al caotico reale, obbliga a interloquire con le amministrazioni degli enti locali, le associazioni culturali e sociali, i musei, le biblioteche e le persone. Il suo modo di affrontare la ricerca e il progetto conquistò subito la mia fiducia perché era sempre alto, impostato in modo scientifico, superava il folclore, si misurava con altre esperienze europee e oltre” (Drugman, 1982, p. 23).

Accanto a Fredi Drugman anche altri studiosi, del calibro di Andrea Emiliani, con una prospettiva più legata alla storia dell’arte, stavano prospettando una stessa valorizzazione della relazione tra opere e territori, recuperando la mai sopita battaglia tra lo sradicamento degli oggetti verso una musealizzazione ipotizzata come salvifica e garante di una più ampia conoscenza del bene, e il mantenimento degli stessi all’interno del loro orizzonte di creazione e vita. In questo caso fondamentale è il riferimento alla Lettres à Miranda (1796)[1] in cui Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy si opponeva con tutte le sue forze all’esproprio delle opere d’arte dalle varie nazioni, che in quel momento Napoleone Bonaparte stava realizzando.

Spezzettare il museo d’antichità di Roma sarebbe una ben… alta follia, e con una conseguenza… irrimediabile. […] Il vero museo di Roma, quello di cui parlo, si compone, è vero, di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi, d’iscrizioni, di frammenti di ornamenti, di materiali da costruzione, di mobili, d’utensili, etc. etc., ma nondimeno è composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche, dalle rispettive posizioni delle città in rovina, dai rapporti geografici, dalle relazioni fra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel paese stesso (Scolaro, 1989, p. 126).

Il valore culturale del contesto, in cui le opere erano nate, diventava un elemento ritenuto imprescindibile per dare avvio a una rete di relazioni germinatrici, che in modo potente permettevano da subito di collocare, conoscere, studiare gli oggetti, ripensarli in un’ottica contemporanea.

Tutte quelle opere estratte dalle scuole, che formano le collezioni dell’Europa, non sono che dimostrazioni insufficienti del modo di dipingere e di imitare di ogni scuola, e… quei pezzi isolati, distaccati dall’insieme della loro teoria, non potrebbero avere la stessa proprietà istruttiva che avevano nel loro paese (Scolaro, 1989, p. 148).

Il riferimento allo studio e alla costruzione delle conoscenze degli intellettuali che allora giravano l’Europa e soggiornavano, soprattutto in Italia, nell’ambito del Grand Tour, vivendo concretamente un’esperienza immersiva, diventa così uno dei riferimenti cardine contro la sottrazione delle opere dal loro contesto:

il profitto che ricavano in Italia coloro che studiano, consiste soprattutto nelle ricerche, nei confronti e nei paragoni che quel viaggio comporta. Distruggere l’effetto di quei confronti decomponendo le scuole, è mutilare e imbastardire l’insegnamento (ivi, p. 152).

Musei universitari

Passando dal museo diffuso ai musei universitari, è fondamentale, anche in questo caso effettuare un breve approfondimento. Solitamente, quando ci confrontiamo con le realtà universitarie, che hanno una lunga storia, troviamo la presenza di uno o più musei, all’interno di queste istituzioni. Si tratta di musei che sono nati dalla straordinaria tradizione didattica ed educativa di questi luoghi, che hanno nella loro missione obiettivi di ricerca, formazione, condivisione culturale (Boylan, 1999; Kozak, 2016; Warhurst, 2014). Questi musei sono stati intesi fin dall’inizio come spazi di esercitazione didattica, di indagine, scoperta in cui si sono confrontati ricercatori, docenti e studenti.

I musei universitari hanno gli strumenti – hanno i veri oggetti, i veri ricercatori e i veri laboratori. Hanno accesso alla conoscenza così come viene prodotta ora e sono quindi probabilmente in una posizione migliore rispetto a qualsiasi altra istituzione per riflettere le complesse questioni della raccolta, dello studio e dell’interpretazione del patrimonio scientifico, artistico e culturale contemporaneo e del patrimonio immateriale (Lourenço, 2008, p. 321).

Per gli atenei nuovi, ovviamente, si tratta di un percorso completamente diverso. In molti casi non esistono prestigiose collezioni, nate dalla storia dell’istituzione e dall’insegnamento che in questi luoghi è stato realizzato. C’è però, anche nelle università di più recente fondazione, un percorso articolato che vede nella ricerca e nella didattica due poli costantemente in dialogo, e questa relazione crea numerosi oggetti culturali materiali e/o immateriali che è interessante e significativo condividere con la comunità interna ed esterna. Nel caso dell’Università di Milano-Bicocca, numerosi dipartimenti avevano già, nei luoghi da cui provenivano, alcune collezioni storiche, molti però, nella crescita della loro ricerca, ne hanno acquisiti di nuovi o li hanno essi stessi creati. Il passaggio fondamentale perché questo sviluppo culturale non resti patrimonio dei singoli dipartimenti, strettamente legato alle discipline lì insegnate, è che il processo di valorizzazione di quanto è già in essere, venga posto in comunicazione con tutta la comunità scientifica e civile. In questo caso un momento importante nell’avvio di questo processo, atto costitutivo del museo, è stato quello che ha promosso la prima inventariazione del patrimonio dei singoli dipartimenti, a opera dei docenti referenti del Centro interdipartimentale di ricerca sul patrimonio storico artistico e culturale (BiPac). Successivamente si è attivato un lavoro di catalogazione sistematica ancora in atto, unito alla creazione di un sito dedicato al Museo diffuso, dove tutte le opere potranno essere trovate, presentate grazie a un’esplicita e coerente narrazione (Colombo, 2020). Un ulteriore passo compiuto è stato quello legato alla creazione del logo, da parte del grafico d’Ateneo Domenico Di Nobile, che ha realizzato tre tipologie diverse, ispirate al nastro di Moebius e alle macchine volanti di Leonardo, per sottolineare l’interrelazione costante tra le parti, che sono state oggetto di una votazione da parte della comunità universitaria. La scelta del logo ha attivato un processo partecipativo, che ha visto oltre 500 persone esprimere la loro preferenza.

Birth: nascere non basta. La prima esposizione del MuDiB

Mentre questo percorso, appena iniziato, sta compiendo i suoi primi passi, volti a farsi conoscere e riconoscere all’interno della comunità accademica, uno dei passaggi fondamentali, non avendo il museo a disposizione un luogo fisico e riconoscibile, è stato quello di individuare nelle esposizioni temporanee con una cadenza semestrale una modalità per connettere i patrimoni dei vari dipartimenti, mettersi in relazione con le varie realtà presenti nel quartiere e nella città, coinvolgere pubblici diversi, con una particolare attenzione agli studenti universitari. La specificità delle mostre MuDiB è quella di individuare una tematica attuale, legata alle ricerche dell’Ateneo, che veda il lavoro di più dipartimenti, esponendo alcuni oggetti della collezione, solitamente poco visibili, realizzando attività di mediazione con la comunità studentesca, professionale, cittadina, prevedendo l’osservazione e la valutazione delle ricadute (Zuccoli, 2014). La volontà è, infatti, quella che siano più attori a essere curatori della mostra e che la stessa divenga spazio di dibattito e confronto sulle tematiche più contemporanee.

Birth: nascere non basta è dunque la prima esposizione di MuDiB che è stata inaugurata il 28 settembre del 2023[2]. Questa mostra affronta il tema della nascita, articolandolo in quattro nuclei tematici: la nascita umana (con una specifica attenzione alla professionalità ostetrica), curata dal Dipartimento di Medicina e Chirurgia; la nascita delle idee e dei progetti, curata dal Dipartimento di Scienza dei Materiali; la nascita in natura (piante e insetti), curata dal Dipartimento di Biotecnologie e Bioscienze; la nascita del Museo diffuso. Poiché l’intento prioritario di questo museo è quello di porsi in dialogo con il territorio e con le diverse realtà culturali con obiettivi affini, si è scelto di ospitare alcuni oggetti provenienti da alcune istituzioni culturali del quartiere, oltre ad altri provenienti dai musei universitari della Lombardia. Il lavoro condiviso sulla scelta degli oggetti, sull’allestimento, sulle didascalie e i pannelli (Ciaccheri, Cimoli e Moolhuijsen, 2020), sulle azioni da realizzare è stato uno dei primi banchi di prova per sperimentare e avviare un confronto anche disciplinare, individuando nelle stesse modalità espositive interattive un’opportunità per avviare una relazione più partecipata.

Conclusioni

Al termine di questo contributo sembra importante soffermarsi su alcuni punti legati alla creazione del Museo Diffuso Bicocca (Zuccoli, Nuvolati e Capurro, 2021) che è ancora ai suoi primi passi realizzati. Certamente il non avere a disposizione un luogo fisico deputato alle collezioni può essere interpretato come una limitazione, ma può anche essere inteso come la necessità di attivare fin dall’inizio un costante dialogo (Basso Peressut, 2005; Montella, 2020; Vai, 2014) in primo luogo con la stessa comunità universitaria, dagli studenti ai docenti al personale, promuovendo l’incontro tra dipartimenti e istituzioni dedicate, in secondo luogo con il quartiere e il territorio, recuperando storie e valorizzando patrimoni che il cambiamento continuo del quartiere ha talvolta oscurato (Rimoldi, 2017). Si tratta di un museo fuori dal museo (Ribaldi, 2005), senza una sede fissa, i cui oggetti possono essere incontrati camminando negli spazi universitari, cercandoli nello spazio virtuale, e che attendono un lavoro condiviso di più attori (studenti, docenti, personale, cittadini) per restituire la loro storia e per interrogarsi, mettendoli in relazione con altri oggetti (materiali e immateriali) presenti nel quartiere o in altri luoghi, costruendo così narrazioni inedite e approfondendo o dando vita a nuove ricerche.

Note

[1] Il titolo Le Lettres à Miranda è in realtà un’abbreviazione del primo titolo della pubblicazione che originariamente era Lettres sur le préjudice qu’occasionneroient aux arts et à la science, le déplacement des monumens de l’art de l’Italie, le démembrement de ses écoles, et la spoliation de ses collections, galeries, musées, etc.. Questo breve pamphlet ebbe un’ampia risonanza per il dibattito che scatenò e, per questo, fu oggetto di numerose ripubblicazioni, talvolta unite ad altri scritti dello stesso Quatremère.

[2] Si precisa come in queste esposizioni siano tre le curatrici coinvolte, oltre ai molti docenti curatori degli aspetti più strettamente scientifici e disciplinari, si tratta di Elena-Gemma Brogi, Rita Capurro e Franca Zuccoli.

Riferimenti bibliografici

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L'autrice

Franca Zuccoli è professoressa ordinaria di Didattica e Pedagogia speciale presso il dipartimento di Scienze umane per la formazione dell’Università degli studi di Milano-Bicocca. Coordinatrice del corso di dottorato in Patrimonio immateriale nell’innovazione socio-culturale. È delegata della Rettrice per le attività museali. È stata supervisore del Dipartimento educativo della Fondazione Arnaldo Pomodoro (2007-2011). Collabora con numerosi musei per progetti educativi, di formazione e mediazione.