Memorie d’infanzia per una mitologia del minuscolo | Childhood memories for a mythology of the minuscule

Staatsbibliothek zu Berlin (Kulturforum). Licenza CC-BY-SA-4.0.

DOI: 10.5281/zenodo.10647105 | PDF

Educazione Aperta 15/2024

Letteratura per l’infanzia è letteratura/6. A cura di Cristina Bellemo

Quando il bambino era bambino,

camminava con le braccia ciondoloni, 

voleva che il ruscello fosse un fiume,

il fiume un torrente

e questa pozzanghera il mare.

Quando il bambino era bambino,

non sapeva di essere un bambino,

per lui tutto aveva un’anima

e tutte le anime erano un tutt’uno.

 

Comincia con questo Elogio dell'infanzia di Peter Handke il capolavoro che Wim Wenders firmò nel 1987, Il cielo sopra Berlino, e che gli valse il premio per la migliore regia a Cannes. Il film racconta, in una Berlino ferita ancora dalla guerra e umiliata dalla costruzione del muro, onnipresente per tutto il film, di una città abitata da angeli e uomini, ma anche e soprattutto da bambini.

Damien, uno degli angeli protagonisti, è pervaso dal desiderio del peso di un corpo vero che gli permetterebbe di abbandonare la leggerezza spirituale e prendere forma, sostanza, potendo così amare non più per finta, come dice in uno dei più bei dialoghi di tutto il film, e potendo finalmente vivere nel qui e ora e non più nel per sempre. Accanto ai due angeli protagonisti, Damien e Cassiel, compare la figura del vecchio poeta, Homer, che a un certo punto, mentre sale affaticato le scale dell’immensa Staatsbibliothek di Berlino, pronuncia queste parole:

Narra Musa del Narratore l’antico bambino gettato ai confini del mondo e fa che in lui ognuno si riconosca.

Una dichiarazione di poetica da parte del regista che sarà il filo conduttore di tutto il film. Sono i bambini infatti gli unici a vedere gli angeli, a parlare e porre loro domande esistenziali, le stesse che Peter Handke pone nel seguito della poesia, citata per intero nel film:

Quando il bambino era bambino,

era l’epoca di queste domande:

perché io sono io, e perché non sei tu?

Perché sono qui, e perché non sei lì?

Quando comincia il tempo e dove finisce lo spazio?

La vita sotto il sole è forse solo un sogno?

Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo

quello che vedo, sento e odoro?

C’è veramente il male e gente veramente cattiva?

Come può essere che io, che sono io,

non c’ero prima di diventare,

e che una volta, io, che sono io,

non sarò più quello che sono?

Una poetica che restituisce ai bambini un pensiero profondo, domande grandi, una visione d’infanzia che ha al centro lo sguardo dei bambini e la loro natura, radicata in un tempo e in uno spazio altri rispetto al mondo degli adulti.

Nei contributi che mi hanno preceduto sono stati proposti molti e interessanti spunti di riflessione che hanno posto al centro la questione della relazione tra libri, bambini e adulti (Giovanna Zoboli). Vorrei proseguire questa tessitura offrendo un punto di vista ulteriore, che origini dallo sguardo dell’adulto, straniero all’infanzia (Gaia Colombo), lontano nel tempo e nei ricordi da quella fase così significativa della sua esistenza. Un adulto che tuttavia invoca la Musa per divenire Narratore, come dice il vecchio poeta Homer, di quell’antico bambino gettato ai confini del mondo.

Perché, mi sono chiesta, è così fondamentale che un adulto possa divenire narratore dell’infanzia? Di quale infanzia? E ancora, chi è il bambino gettato ai confini del mondo verso il quale si esprime l’augurio di potersi ognuno riconoscere? Divenire narratore di un’esistenza dalla quale si è irrimediabilmente lontani: questo parrebbe essere il compito di chi scrive e illustra storie dedicate a bambine e bambini, un compito arduo, difficile (Susanna Mattiangeli), perché bisogna fare spoliazione di attese, proiezioni, necessità di addomesticamento del non ordinato che le azioni dei bambini rivelano, gettando luce su quegli spazi marginali che l’infanzia frequenta e rende vivi, significativi (Nadia Terranova). Scrivendo per bambine e bambini abbiamo come orizzonte delle nostre storie bambini in carne e ossa, ma anche inevitabilmente bambini idealizzati e immaginati sulla base di quelli che ci portiamo dentro, bambini che sono stati figli o nipoti. A questo elenco dei bambini destinatari, guardando il film, mi sono resa conto che si sarebbero potuti aggiungere i bambini interlocutori, bambini che parlano, che chiedono, con i quali porci in dialogo, in ascolto, ma ai quali spesso prestiamo scarsa attenzione, sia nella vita reale che nella letteratura per l’infanzia, chiusi come siamo in gabbie di senso che ci spingono a immaginare senza vedere (Antonella Capetti).

Ma, credo, non siamo lontani dai bambini reali e da quelli della letteratura solo per età anagrafica, o per distrazione, o solo ancora per via di una serie di immagini distanti dall’infanzia reale che i bambini di oggi si trovano a vivere. Ne siamo distanti perché nel diventare adulti abbiamo imparato a fare a meno della nostra infanzia, come se fosse non necessaria in quanto passata, una condizione dalla quale ci siamo evoluti. Non è un caso che spesso l’infanzia è percepita come un’età per lo più funzionale al divenire adulti, non un’età in sé, abitata dunque da uno sguardo altro, ma non per questo meno significativo rispetto a quello adulto.

Nel film gli unici essere umani in grado di vedere e ascoltare, entrare in dialogo con gli angeli sono proprio i bambini, i quali, vedendoli, non temono che ciò che percepiscono sia inesistente, la fiducia in quell’Altrove da loro abitato non mette in discussione le loro visioni. Come creature di quell’Altrove, di cui scrive assai bene Giorgia Grilli (2021), i bambini frequentano spazi marginali, e hanno con quella dimensione spazio-temporale, invisibile allo sguardo adulto, una relazione di dialogo, sono interlocutori che hanno importanti cose da dire. Come traghettatori da quel mondo che si trova oltre, tornando da lì, portano in dono visioni, parole, gesti, domande, piccoli pezzi di vita, minuscoli frammenti di miti, che noi narratori dovremmo aver cura di accogliere e raccontare. In una lettera a Fernanda Pivano del 27 giugno del 1942, Cesare Pavese (2021, pp. 9-10) scrisse così:

Andando per la strada del salto nel vuoto, capivo appunto che ben altre parole, ben altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Che insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quell’esperienza che è il mio posto nel mondo.

Il concetto trova sviluppo in un saggio dal titolo Del mito, del simbolo e d’altro (Pavese, 2021, p. 15) :

Ora, carattere non dico della poesia, ma della fiaba mitica è la consacrazione dei luoghi unici, legati a un fatto a una gesta a un evento. A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo. Così sono nati i santuari. Così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico. Ma il parallelo dell’infanzia chiarisce subito come il luogo mitico non sia tanto singolo, il santuario, quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia la casa, che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve, ecc., e tutti li anima del suo brivido simbolico.

Pavese aveva con quell’Altrove una relazione profonda che traduceva al mondo attraverso la parola poetica, credeva anche nei miti, quelli classici e quelli minuscoli che l’infanzia frequenta e raccoglie, custodendo tutto nella memoria di un pozzo profondo abitato da quel brivido simbolico, che trasforma le cose, gli oggetti, i fatti in simboli appunto. In Mal di mestiere, che fa parte della medesima raccolta Saggi sul mito (Pavese, 2021, p. 41), leggiamo:

Di qui nasce che il più sicuro vivaio di simboli sia quello dell’infanzia: sensazioni remote che si sono spogliate, macerandosi a lungo, di ogni materia, e hanno assunto nella memoria la trasparenza dello spirito. […] L’illusoria ricchezza del reale non può essere giustamente valutata se non da chi sa che solo è nostro ciò che abbiamo posseduto sempre […]. Un solo documento c’interessa sempre e riesce nuovo: ciò che sapevamo fin da bambini. Perché davvero nell’infanzia eravamo un’altra cosa. Piccoli brutti inconsapevoli, il reale ci accoglieva come accoglie semi e pietre. Nessun pericolo che allora lo ammirassimo e volessimo tuffarci nel suo gorgo. Eravamo il gorgo stesso. Ma la storia segreta dell’infanzia di tutti è fatta appunto dei sussulti e degli strappi che ci hanno sradicati dal reale, per cui – oggi una forma e domani un colore – attraverso il linguaggio ci siamo contrapposti alle cose e abbiamo imparato a valutarle e contemplarle.

Memorie d’infanzia che costituiscono per Pavese le premesse per quella poetica del mito, secondo la quale non si dà poesia, e dunque letteratura, se non si attinge costantemente a quel fondo di ricordi, di sensazioni, di esperienze che sono state poste nell’infanzia e che, rievocate, costituiscono l’unico modo per conoscere pienamente la natura umana, propria e altrui. Pavese non a caso scrive brivido simbolico, perché la frequentazione di quegli spazi ha a che fare con la percezione di un Altrove intraducibile per la mentalità adulta, dove gli oggetti, la vegetazione, gli animali, le cose in generale, pur continuando ad avere una forma assimilabile al reale, rivelano allo sguardo del bambino l’appartenenza a un mondo altro che si configura come luogo privilegiato, numinoso e a tratti anche pericoloso per fare esperienza del proprio sé in relazione all’Altro diverso da sé.

Il concepire mitico dell’infanzia (ancora Pavese, 2021, p. 19) è insomma un sollevare alla sfera di eventi unici e assoluti le successive rivelazioni delle cose, per cui queste vivranno nella coscienza come schemi normativi dell’immaginazione affettiva.

La letteratura per l’infanzia, mettendo in atto tra parole e immagini quella mitologia del minuscolo, come ci sembra di poter definire la forma che le cose prendono attraverso l’attenzione dello sguardo bambino verso tutto ciò che è altro e fuori da sé, costituisce un orizzonte letterario capace di accogliere, trasformare e rifondare anche la vita degli adulti, siano essi lettori e/o scrittori. È necessario allora pensare forse a una forma di educazione degli adulti che possa darsi nella contaminazione di contesti apparentemente lontani l’uno dall’altro, nell’aprirsi e porsi in dialogo tra ambiti della conoscenza divisi da aree di ricerca diverse. Come ha fatto Cristina Campo (2022, p. 29) dedicando nei suoi saggi sulla fiaba una cura profonda nel mettere in relazione l’infanzia, come dimensione esistenziale capace di penetrare i significati simbolici che abitano quell’Altrove, e la parola poetica, la fiaba e certamente anche il mito.

È possibile che chi fa le fiabe sia simile a chi trova quadrifogli che, secondo che dice Ernst Jünger, acquista veggenza e poteri augurali. Comincia a raccontare per dare piacere ai bambini e d’improvviso la fiaba è un campo magnetico dove convengono da ogni lato, a comporsi in figure, segreti inesprimibili della sua vita e dell’altrui.

Così scrive Cristina Campo in uno dei suoi saggi dedicati alla fiaba come fonte simbolica di una forma di conoscenza che affonda le sue radici nell’infanzia e nella memoria. Le fiabe, come i miti che storicamente rappresentano una manifestazione antecedente delle forme narrative proprie del mondo antico classico e pre-classico, ma anche le narrazioni dei minuscoli miti, come li abbiamo chiamati, che accadono nelle vite di ogni bambino e di cui la letteratura per l’infanzia si fa voce, costituiscono, come sostiene Cristina Campo per la fiaba e per la poesia, l’unico modo per accostarsi a quell’Altrove pregno del mistero intrinseco dell’esistere. La fiaba nella concezione di Cristina Campo (2022, pp. 167-8) è assimilata a un viaggio che si compie secondo un percorso circolare, un “avanzare di ritorno”, e che ha le sue partenze nel tempo dell’infanzia quando l’immaginario si colma di quelle figure che in età adulta, praticando la poetica dell’attenzione al reale come segno di quell’Altrove, avremo la possibilità di svelare nei suoi più profondi significati. Pensare, auspicare, promuovere un’educazione degli adulti, vuol dire pensare alla dimensione umana come capace di rigenerarsi, di non omologarsi, di aprirsi al dialogo con l’Altro, anche quando l’altro è rappresentato dal bambino, reale e letterario.

Negli ultimi anni ho avuto l’occasione di partecipare come relatrice ad alcuni convegni, la cui sfera di ricerca apparteneva a una parte della mia formazione scientifica in ambito storico e archeologico. L’aspetto interessante è stato che la mia presenza era stata richiesta non in virtù di quella formazione originaria ma come scrittrice di libri per l’infanzia. Mi si chiedeva di creare un ponte tra la storia antica e i miti e le narrazioni per l’infanzia, aprendo prospettive di indagine che tenessero insieme le due aree di studio. Mi è subito sembrata una ricerca al limite del possibile, da cui la mia incertezza, cui sono seguite però anche molte domande, che ponevo prima a me stessa, e che sono poi diventate occasione di riflessione ma soprattutto di dialogo tra le diverse discipline.

Oltre infatti alle tematiche specifiche sulle quali mi era stato chiesto di intervenire  —  in un caso si trattava della rappresentazione dello spazio geografico del Vicino Oriente Antico nella letteratura per l’infanzia [1], in un altro di un rituale di cui mi ero occupata per scrivere una storia in forma di albo illustrato e che vedrà la luce a breve [2], nell’ultimo più nello specifico mi si chiedeva di raccontare le narrazioni per l’infanzia legate al mondo antico [3]  —  quello che mi è sembrato interessante è stato poter offrire a un pubblico di non specialisti di letteratura per l’infanzia un panorama su quello che non solo è attualmente la produzione di narrativa e albi illustrati dedicati ai giovani lettori, ma anche offrire uno sguardo su ciò che la letteratura per l’infanzia è: uno spazio in cui si da la possibilità all’infanzia stessa di esistere fuori da ogni schematico ordine del dover essere, uno spazio nel quale l’età dell’infanzia dovrebbe essere riconosciuta piena di senso, non per ciò che promette, ma per ciò che costitutivamente è, un modo diverso di stare al mondo. L’attenzione dei partecipanti è stata viva, vivo l’interesse per quei legami cercati e stabiliti, che sembravano lontani, se non addirittura impossibili. Ne sono nate domande, sentieri di possibili approfondimenti e molte riflessioni. In quella dimensione dell’Altrove è vitale che possa riconoscersi anche l’adulto, proprio come profetizza, viene quasi da dire, il vecchio poeta Homer all’inizio del film Il cielo sopra Berlino.

Narra Musa del Narratore l’antico bambino gettato ai confini del mondo e fa che in lui ognuno si riconosca.

Provando a tirare le fila dell’ordito che ho tessuto in queste righe, ritorno alle prime domande: perché è così fondamentale che un adulto possa diventare narratore dell’infanzia? E ancora: chi è il bambino gettato ai confini del mondo verso il quale si auspica l’augurio di potersi ognuno riconoscere?

Un adulto che sa “avanzare di ritorno” e che attraverso la letteratura per l’infanzia si accosti al nucleo mitico fondativo dei significati simbolici reconditi del vivere umano, sperimentando tutta la bellezza e la profondità del narrare l’infanzia, si troverà a vivere di uno stupore che si apre alla dimensione del margine in una forma di conoscenza nuova e antica allo stesso tempo.

Una narrazione che si fa non solo con la scrittura ma anche attraverso la lettura, la conoscenza, la contaminazione tra aree diverse di ricerca, valicando muri di pregiudizio, che separano, come nel film fa il muro che taglia in due la città, spazi tenuti lontani l’uno all’altro, e che spesso solo i bambini sanno intercettare, letteralmente vedere.

La relazione allora tra bambini, libri e adulti si configura come una serie generativa di triangolazioni: conosciamo le distanze, non ha importanza da dove si parte, l’importante è costruire punto dopo punto la planimetria di un edificio, la casa della letteratura in cui possano trovare accoglienza parole antiche, storie bambine, narrazioni condivise che ci consentano di pensare alla letteratura per l’infanzia come un terreno comune di incontro, di scoperta, di conoscenza. Credo questa conoscenza possa avere la valenza di quegli universali fantastici di cui parlava Pavese, di vichiana genealogia, e che consentono ai lettori bambini e ai lettori adulti di sperimentare e sperimentarsi in una dimensione relazionale costruttiva con l’Altro in sé e l’Altro fuori di sé.

Quando ripetiamo un nome proprio, un gesto, un prodigio mitico, esprimiamo in mezza riga, in poche sillabe, un fatto sintetico e comprensivo, un midollo di realtà, di stato umano, tutto un complesso concettuale. Se poi questo nome, questo gesto ci è familiare fin dall’infanzia, dalla scuola – tanto meglio. […] Sappiamo che il più sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai (Pavese, 1998).

 

Forse quell’oggetto-soggetto che dobbiamo tornare a fissare imperterriti sono i bambini e le storie della letteratura per l’infanzia, quel bambino gettato ai confini del mondo, in cui potersi ognuno riconoscere (Pavese, 2021, p. 10) per tornare a scoprire quell’esperienza che è il mio posto nel mondo.

 

[1] Il convegno, Archeologia del Paesaggio e Geografia Storica del Vicino Oriente Antico, si è tenuto presso l’Università di Roma “La Sapienza” (7-9, ottobre, 2021) e il contributo, condiviso con Marta Rivaoli, in fase di pubblicazione, ha come titolo: L’Oriente negli occhi di un bambino: Lo spazio geografico del Vicino Oriente Antico nella letteratura per ragazzi contemporanea e nelle fonti iconografiche antiche. La Storia e le storie come immagini del mondo.

[2] Il secondo convegno, Eroiche fanciulle, sante bambine, cattive ragazze. Un approccio transdisciplinare e diacronico alla costruzione dell’identità femminile e alla sua rappresentazione, si è tenuto ancora a Roma (9-10 marzo 2023), presso il Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte e Spettacolo. Il contributo, condiviso con Gloria Capomacchia, ha per titolo Danzano le orsette: dal complesso mitico-rituale di Brauron alla narrativa per l’infanzia, anche questo in fase di pubblicazione.

[3] Il convegno dal titolo Storie a colori: mondo antico e archeologia attraverso fumetti, albi illustrati e editoria per l’infanzia, si è tenuto presso il Dipartimento di studi umanistici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia (31 maggio, 2023), con un mio contributo, condiviso con Gloria Capomacchia, dal titolo: Temi iniziatici e narrativa per l’infanzia. L’orsa di Brauron.

 

Riferimenti bibliografici

Brelich A. I greci e gli dei, Liguori, Napoli 1985.

Brelich A., Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Adelphi, Milano 2005.

Campo C., Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 2022.

Grilli G., Di cosa parlano i libri per bambini. La letteratura per l’infanzia come critica radicale, Donzelli, Roma 2021.

Paroli E., Cristina Campo, una "filatrice d’inesprimibile". Il valore simbolico della fiaba nel processo cognitivo di una mistica del nostro tempo, in "Italies", 21, 2017, pp. 393-407, url: journals.openedition.org/italies/5927.

Pavese C., Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1998.

Pavese C., Saggi sul mito, La Noce d’oro, Roma 2021.

Szimborska W., Opere, a cura di P. Marchesani, Adelphi, Milano 2008.

Tocarczuk O., Concejo J., L’anima smarrita, Topittori, Milano 2017.

Zoboli G., Ogni fiaba è nera, in "Doppiozero", 26 luglio 2022, url: www.doppiozero.com/ogni-fiaba-e-nera.

Cristiana Pezzetta è nata e vive a Roma, in un quartiere pieno di verde, vicino al mare. Ha studiato Archeologia del Vicino Oriente Antico, Religioni del Mondo Classico e Museologia, lavorando come archeologa da campo in diverse missioni in Italia, Siria e Turchia. Per diversi anni è stata cultrice della materia per Storia delle Religioni all’università di Roma “La Sapienza”, pubblicando articoli sul rapporto tra mito, storia e cultura materiale. Dal 2008 si occupa di letteratura per l’infanzia, scrivendo consigli di lettura per il blog Piccoli Lettori Crescono. Dal 2009 con l’associazione Semidicarta, fondata con Gioia Marchegiani, realizza incontri di lettura, scrittura e scavo archeologico in scuole, biblioteche e librerie. Dal 2019 è alla guida di LibricomeAli, gruppo di lettura per ragazze e ragazzi, nella biblioteca di quartiere Sandro Onofri. Ha pubblicato divere storie per albi illustrati e romanzi, ricevendo premi e riconoscimenti (Terra tra le mani, illustrato da Gioia Marchegiani, vincitore al concorso Syria Poletti nel 2013; Etor nel paese delle carabattole salvate, illustrato da Totore Nilo, vincitore al concorso Raccontami Etor, nel 2013; Sorelle di carta, romanzo vincitore al concorso Leggimi Forte nel 2017). Ama moltissimo bere tè, camminare in montagna e nella pineta vicino al mare, praticare yoga, leggere compulsivamente e scrivere, continuando a scavare e ricostruire storie nella Storia.