L'ospite sgradita | The unwelcome guest
DOI: 10.5281/zenodo.8225453 | PDF | Educazione Aperta 14/2023
I saggi di Walter Benjamin sui libri per ragazzi (l’edizione a cui mi riferisco è Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario, a cura di Francesco Cappa e Martino Negri, Cortina 2012) a tutt’oggi contengono quella che, a mio avviso, è la riflessione più approfondita sulla parte che la dimensione estetica ha nella relazione che il libro instaura con il lettore (parlo della componente materiale, le forme e i materiali in cui è realizzato).
Al loro centro si trova, infatti, la fascinazione esercitata dal libro sul lettore, la disposizione dell’infanzia a essere rapita, precipitata nell’altrove: quella terra di meraviglie allestita sapientemente da illustratori, editori, scrittori, giocattolai. I bambini ci cadono o ci finiscono dentro (ma è anche il libro a precipitare dentro ai bambini), proprio come capita ad alcuni noti personaggi letterari, letteralmente sequestrati dal racconto, Dorothy, Alice, Pinocchio...
Nel vissuto di bambini e ragazzi, la dimensione materiale (pervasa di immateriale) occupa un posto fondamentale: la bellezza intesa come forma, aspetto in cui si manifestano le cose – libri, oggetti, spazi –, esperienza estetica della loro unicità, lezione vitale a essi intrinseca. È un segnale che i protagonisti, bambini e ragazzi, riconoscono subito come irresistibile e dietro al quale si mettono in fila con disposizione avventurosa: il Pifferaio di Hamelin docet (figura che infatti, in questo senso, indica Antonio Faeti in Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l’infanzia, pietra miliare degli studi sull’illustrazione in Italia). Basti pensare alle fiabe, a come da secoli, da quando sono state destinate a un pubblico infantile, abbiano dato luogo a uno dei repertori di immagini più interessanti, complessi e alti, attraverso libri, ma anche film, animazioni, scene teatrali, coreografie…
In questi quasi venti anni di lavoro come editrice di libri illustrati, mi sono resa conto di come nel discorso pubblico e corrente sul libro per ragazzi, (mediatico, critico, accademico, pedagogico…), sia proprio questa, invece, paradossalmente, l’ospite sgradita: guardata con indifferenza, sospetto, imbarazzo, quando non addirittura con antipatia e irritazione, a seconda delle posizioni ideologiche.
Cristina Bellemo, nel suo intervento su Facebook, ha riproposto un interrogativo che negli anni, attraverso articoli, convegni, interventi, dibattiti, hanno posto in tanti (a cominciare dal professor Faeti che, come è noto, ha dedicato molto del proprio lavoro critico al tema): come è possibile che ancora oggi la letteratura per l’infanzia sia la ‘grande esclusa’ come la definì la studiosa americana Francelia Butler (in un saggio edito in Italia da Emme nel 1978). Come è possibile che non sia ancora entrata a pieno titolo nel discorso letterario e culturale? Come mai questa legittimazione non è attestata, per esempio, dalla sua presenza in corsi di laurea delle facoltà di lettere? Come è possibile che questa letteratura continui a essere esclusivo ambito di interesse di coloro che a vario titolo si occupano di bambini e ragazzi (con la conseguente deriva mediatica ovvero la sua apparizione solo in quei momenti dell’anno in cui è necessario dispensare consigli di lettura per eventuali regali o in occasioni di ricorrenze, anniversari…). Come si spiega che, sul piano dell’organizzazione del sapere, continui a essere confinata ad ambiti “tecnici” relativi a istruzione e cura “dei minori”, come le scienze della formazione e quelle dell’educazione, la pedagogia, posta strumentalmente al loro servizio (in dosi peraltro omeopatiche), privata di una dimensione autonoma, spogliata di caratteri specifici, si potrebbe dire di ogni seduzione, come una sorta di Cenerentola, posta a svolgere mansioni utili in abiti dimessi o quantomeno cuciti esclusivamente in basi a scopi prefissati?
Questo mio intervento non ha a che fare direttamente con questi interrogativi, piuttosto vuole mettere insieme alcune riflessioni che io credo stiano a monte di tale questione, senza alcuna pretesa di dare risposte. Si tratta di considerazioni maturate nel corso di anni di osservazione su quello che è il rapporto fra libri, bambini e adulti.
Quando, ormai circa venti anni fa, cominciammo a fare libri illustrati, vi erano due reazioni tipiche che accoglievano i nostri libri in quei primi periodi in cui in effetti gli scaffali delle librerie offrivano una scelta di libri illustrati povera e, spesso, di scarso livello. La prima arrivava dal pubblico: le persone, padri, nonni, madri, nonne, insegnanti eccetera ci chiedevano “come mai libri così ‘belli’ per un pubblico di bambini?”: non erano “troppo” belli? Non manifestavano quello che appariva come un “eccesso” di estetica? La preoccupazione tradiva la certezza che si trattasse di un eccesso in quanto questa bellezza non sarebbe stata compresa, accolta, digerita da un pubblico di piccoli. Non sarebbero stati rovinati quei libri, da piccole mani distruttrici? Sottotesto: la bellezza è costosa, dunque fatta per essere messa sottovetro, rimanere inutilizzata. Va conservata, anche per non comprometterne il valore economico.
A cosa serviva, in sostanza, tutta quell’estetica? ci veniva domandato. Implicitamente il giudizio era che fosse fuori luogo. In più, questi libri “troppo” belli non si capiva neanche bene di cosa parlassero: i contenuti nelle storie proposte non erano sufficientemente esplicitati. Le immagini non erano immediate come devono essere quelle a uso dei bambini, e richiedevano di essere lette, indagate. Come si poteva essere sicuri dei messaggi contenuti in quei libri, se questi venivano in gran parte affidati alla radicale ambiguità delle immagini e a testi di cui non si coglieva subito l’intento narrativo?
Curiosamente anche da parte del pubblico di settore, gli esperti, il giudizio, in molti casi, era simile: quasi immediatamente fu messo in dubbio che quei libri fossero davvero per ragazzi e che, in realtà, fossero confezionati per ammiccare agli adulti. Ciò che soprattutto risultava sospetto erano le iconografie proposte, non immediatamente riconducibili agli stili correnti che caratterizzavano gli albi illustrati (vi fu perfino qualcuno che ai nuovi linguaggi dell’illustrazione oppose come alternativa l’onesto realismo dei calendari dei carabinieri): modalità di rappresentazione (e di trasfigurazione) della realtà (figure umane, animali, elementi naturali, paesaggi, oggetti, ambienti, atmosfere eccetera) erano giudicate poco riconoscibili e, quindi, inadatte alla percezione e alla comprensione infantile. In diverse occasioni venimmo a sapere, o ci fu esplicitamente comunicato, che le immagini e i testi dei nostri libri non potevano essere considerati adeguati alle capacità di lettura dei bambini di quella o quell’altra fascia di età, in quanto non rispondenti ai parametri corretti relativi a scelte cromatiche, grafiche, figurative eccetera. In sostanza, la ricerca estetica autonoma che i libri rivelavano attraverso i linguaggi visivi e verbali adottati dai loro creatori veniva considerata impropria, fuorviante rispetto alle esigenze specifiche, descrivibili e misurabili, di bambini e bambine, ragazzi e ragazze, suffragate dalle scienze cognitive e pedagogiche.
Entrambe queste reazioni, va detto, continuano a riproporsi oggi, seppure con minor frequenza, dato che, fortunatamente, nel tempo qualcosa è cambiato, soprattutto grazie anche al grande lavoro di formazione che negli anni è stato fatto sui libri illustrati al quale anche noi, in vario modo, ci siamo dedicati.
Nel bel saggio di approfondimento scritto da Martino Negri per la raccolta dei saggi di Benjamin sull’infanzia, Nel regno delle figure. Lo sguardo di Walter Benjamin sul rapporto fra infanzia e letteratura, la questione del rapporto fra dimensione adulta, infanzia ed esperienza estetica è analizzato compiutamente: vi si trovano tutte le considerazioni che ogni volta che si parla di libri per bambini, esperienza di lettura, forme e contenuti, illustrazioni e testi, bisognerebbe tenere presente. Rimando pertanto a queste pagine, a mio avviso imprescindibili, e non solo riguardo alla riflessione che questo dibattito ha acceso.
Il saggio andrebbe citato per intero, ma mi limiterò ad alcune parti. Sottolinea Negri, a proposito del celebre passo di Benjamin in Libri vecchi e dimenticati in cui viene espressa, a proposito dell’importanza dell’illustrazione, la “segreta e antica alleanza fra artisti e bambini”:
Il regno delle figure, scrive Benjamin, sfugge al controllo dei pedagogisti, ed è questo uno dei motivi per cui le figure dei libri hanno la capacità di esercitare un potere attrattivo fortissimo sui lettori più giovani, o addirittura alle prime armi, in forza di un accordo segreto: un accordo in cui, tuttavia, gli artisti non hanno tentato di assumere una prospettiva infantile, trovando anzi nella propria libertà espressiva, scevra di intenti pedagogici e incurante della natura del proprio pubblico, così come delle censure del senso, la ragione stessa dell’accordo.
E, più avanti, prosegue:
Le figure dei libri hanno, per Benjamin, la capacità di condurre altrove, lontano da casa, nel cuore di un mistero che non può essere rischiarato e che, proprio in tale impossibilità, custodisce, intatto, il proprio fascino: le figure mettono in movimento il pensiero, condensando situazioni narrative e idee, caricandosi di una molteplicità di significati possibili capace di sedurre il bambino con la propria apertura alla significazione, costringendo ad aguzzare lo sguardo e a esercitare l’arte paziente dell’osservazione, spingendolo a vagabondare nei suoi territori alla ricerca di senso – e di racconto – senza alcuna garanzia di approdo certo. Come ha scritto un bambino coinvolto in un progetto di scrittura effettuato a partire dall’incontro con un libro di sole immagini, The Arrival, di Shaun Tan: “Posso dire una cosa, sui libri di sole figure? Che però anche quando è finito il libro, ti viene l’ansia perché non sai davvero cosa voleva dire l’immagine…”
Poco oltre, Negri afferma che l’universo letterario del picture book è in rapporto strettissimo con “quello della poesia, in cui forma e contenuto si compenetrano in modo irrevocabile eppure mai univoco” e si rifà all’affermazione di Maurice Blanchot “quando scrive che il linguaggio poetico ‘è uno schiudersi che continua a stare chiuso’”.
Questa inscindibile relazione fra forma e contenuto è al cuore dell’esperienza estetica per chiunque la sperimenti sia come autore sia come fruitore. Quanto più questa relazione è compiuta, articolata, riuscita (ciò che chiamiamo “bellezza”, ma l’esperienza estetica non ha solo a che vedere con il bello, significa sperimentare la forma delle cose, quindi anche la loro improprietà, mediocrità o bruttezza), tanto meno è possibile categorizzare e definire l’oggetto che ne è portatore. Sarà possibile descriverlo, studiarlo, esaminarlo, avvicinarlo in vario modo, ma non esaurirlo in una formula e indirizzarlo a uno scopo. La natura stessa dell’esperienza estetica esula da scopi precisi, in questo senso è connotata da una totale gratuità come dimostra il fatto che il valore di un oggetto d’arte non ha un prezzo e, se lo possiede, non coincide con il calcolo del suo valore economico: è incalcolabile. I girasoli di van Gogh hanno un valore molto superiore a quello espresso dal prezzo raggiunto a una recente asta (40 milioni di dollari). La stessa cosa si può dire di Madame Bovary: il valore letterario del romanzo non ha relazione con il costo del numero delle copie stampate, a oggi, nel mondo, e il prezzo di una copia tascabile di questo titolo ha a che fare con la natura dell’edizione, ma non con il valore culturale del romanzo.
Questa alterità dell’arte rispetto al calcolo del valore economico è di importanza cruciale. Una figurina di Pinocchio disegnata da Mazzanti o Chiostri, o la lettura di un brano di Collodi presente in una copia tascabile di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, consente a un bambino del 2023 di fare un’esperienza estetica intensa, personale e importante in una condizione di totale gratuità, se si dà occasione a quella copia di finire fra le sue mani. E questo perché la qualità estetica del testo di Collodi, e delle immagini di Mazzanti e Chiostri eccedono di gran lunga il prezzo di acquisto del libro che li veicola (un maestro elementare che ha letto Pinocchio in classe, mi ha raccontato che i bambini hanno molto amato le figure di Mazzanti, pur nella sobrietà del segno e del bianco e nero). Questa eccedenza di valore è la seconda qualità inestimabile dell’esperienza estetica, e conduce chi la fa a sperimentare, a propria volta, la libertà e la profondità di un’azione totalmente gratuita.
Sperimentare la bellezza (termine oggi abusato, impiegato in modo così generico e riduttivo che ho l’impressione generi più confusione che significati) implica la pratica dell’osservazione e della pazienza – aguzzare lo sguardo, “vagabondare alla ricerca di senso – e di racconto – senza alcuna garanzia di approdo certo”. E aggiunge una cosa fondamentale, Martino Negri quando fa riferimento a quella che chiama “apertura alla significazione” a proposito delle immagini, ma anche, penso io, dei bambini: una disposizione a moltiplicare i significati, da una parte, e, dall’altra, a coglierli nella loro varietà e solo apparentemente contraddizione, attitudine permessa da un pensiero, come quello infantile, non ingessato da apprendimenti pregressi, più libero e sbrigliato. Vi è altro da coltivare attraverso i libri? Vi è altro di più importante che possa essere promosso nella più totale gratuità, nella mancanza di uno scopo certo, dell’esperienza estetica, tanto più oggi, in un mondo dominato dal mercato, da esperienze sempre funzionali a qualche scopo, a qualche risultato e sempre accessibili a pagamento (in modo diretto o indiretto, come è prassi di gran parte dell’entertainment)?
Qualche tempo fa ci sono arrivati due messaggi da due genitori che hanno manifestato la loro riprovazione nei confronti di due nostri libri. Ci ha scritto un padre:
Non so se mai questa mail avrà una risposta ma il desiderio irrefrenabile di esprimere il mio dissenso per come sono stati scritti i testi di Due scimmie in cucina era troppo forte. Una sera torno a casa e la mia compagna aveva acquistato questo libro da leggere ai nostri due piccoli. Giunta l'ora di andare a dormire ho preso il libro ed ho iniziato a leggere ma già dopo le prime due righe ho avuto una difficoltà enorme a dare un senso alle frasi perché il testo è scritto SENZA punteggiatura alcuna. Vi consiglio vivamente di utilizzarla. È la punteggiatura che dà un senso compiuto alle frasi. Forse questa mail non avrà mai una risposta ma sentivo troppo forte il peso di questa indecenza. Saluti.
E una madre, a proposito di Fiabe incatenate di Beatrice Solinas Donghi, ci ha comunicato su Instagram:
Mi dispiace, ma ho trovato questo libro di fiabe imbarazzante. È anche bella l'idea ma è sgrammaticato e privo di consecutio temporum. Andrebbe totalmente rivisto e corretto. Soprattutto perché è rivolto ai bambini!
In entrambi i messaggi l’accesa riprovazione è rivolta precisamente alla forma, in questo caso quella del testo, ritenuta impropria in quanto presente in un libro destinato a un pubblico infantile. Punteggiatura e uso della grammatica, che nei testi letterari sono annoverabili fra le caratteristiche dello stile di uno scrittore, in un testo per bambini dovrebbero, invece, secondo questi genitori, seguire le regole presenti nei manuali di lingua italiana. L’idea di fondo di questo pensiero è che i bambini, quando leggono, principalmente, assorbano modelli e, dunque, tali modelli debbano riferirsi a regole condivise. In sostanza la lettura effettuata da un bambino sarebbe finalizzata all’apprendimento delle regole della lingua. E l’esperienza che fa quando legge è, sostanzialmente, quella di assimilare modelli costruiti sulla base di regole certificate dai manuali di grammatica (i quali, tuttavia, va detto, in molti casi, esprimono vedute più larghe in merito a quello che correntemente si intende per buon italiano). La letterarietà del testo, insomma, ceda il passo alla sua funzione di esempio. Non importa che lo stile di Solinas Donghi, coltissimo, si rifaccia a un approfondito studio dell’oralità nella fiaba di cui vengono ripresi modi, stilemi e ritmi; non importa che l’oralità sia il mezzo in cui la funzione narrativa trova la sua espressione più congeniale, in tutto il mondo e in tutte le culture, da tempi antichissimi; non interessa che ascoltare narrare storie o fiabe sia uno dei massimi piaceri umani, da tempi immemorabili, che si sia piccoli o grandi: la consecutio temporum sbarra la strada con i suoi diritti a cui il lettore bambino e l’autore sono chiamati a subordinare la propria esperienza, rispettivamente, di lettore e scrittore. Così come non importa che sia l’oralità di un dialogo infantile a essere proposta in Due scimmie in cucina in cui le frasi fluiscono e sono scandite, similmente a versi, anche in base al ruolo che le parole hanno nello spazio della pagina e della sua organizzazione grafica, anch’essi portatori di significati, come accade nell’albo illustrato. Vorrei fare notare che questi messaggi ci sono arrivati da genitori che acquistano libri per i loro figli e libri che sicuramente non fanno parte della fascia mass market.
È significativo che questi commenti siano stati espressi su testi: infatti è molto più semplice per un adulto riconoscere quelli che interpreta come “errori” di lingua, rispetto a mettere a fuoco cosa “non vada” in una immagine. Un testo è più facile da giudicare perché dal punto di vista formale risponde a regole che tutti abbiamo appreso a scuola, e dal punto di vista educativo si intende veicolo di contenuti: i famosi ‘messaggi’ sui quali (oggi più che mai) ci si sente chiamati a esprimere adesione o riprovazione (mi piace/non mi piace, secondo il costume contemporaneo). Il testo, infatti, nell’idea corrente, è pensato per lo più come strumento funzionale al contenuto (che si immagina estrapolabile: qualcosa che si mette e si toglie dalla pagina, come se questa fosse un mero contenitore; non si pensa mai che sia il testo, il discorso a dare forma ai contenuti, anzi a crearli, come invece sa chiunque si sia cimentato con la scrittura di un testo anche non letterario). Non a caso, oggi, sempre più spesso, non solo nella letteratura per ragazzi, i libri si promuovono facendo leva sui famigerati temi: romanzi sull’abbandono, sul padre, sulla madre, sulla malattia, sulla depressione, sulle crisi di coppia, sull’omosessualità… Una prassi che dà la misura di quanto l’attenzione all’esperienza estetica come generatrice di senso, pratica di significazione a partire del nesso inestricabile di forma e contenuto, nell’ambito della lettura sia sempre più aliena non solo in ambito pedagogico e relativamente alla letteratura per ragazzi, ma in generale, quindi sempre meno connotata da gratuità e sempre più funzionale a obiettivi e scopi.
L’immagine, invece, come giustamente rileva Negri, a proposito dei saggi di Benjamin, non ci lascia tranquilli, è ambigua, le sue grammatiche ci sono meno note, siamo meno preparati a valutarla: estrapolare contenuti da una immagine è molto meno agevole rispetto alla medesima operazione compiuta su un testo, perché se si estrae il contenuto da un’immagine, non rimane niente in mano e, immediatamente, appare chiaro che tutto ciò che conta rimane dentro l’immagine e il suo ipotetico contenuto risulta banale e insignificante.
Il più delle volte, infatti, a conferma della difficoltà di leggere le immagini, di sperimentarle esteticamente, quelli che si leggono su di esse sono giudizi di pancia che aggirano la complessità del visivo. Oppure, per esempio, riguardo agli albi, sono giudizi “tecnici”: si valuta l’immagine in quanto appropriata o no rispetto a qualcosa (spesso si tratta della leggibilità, della riconoscibilità dei soggetti, dell’uso del colore e della rappresentazione delle forme in relazione all’età dei bambini, al loro grado di comprensione eccetera). È vero che, oggi, l’illustrazione per l’infanzia (rispetto al tempo dei creatori di figure oggetto dell’attenzione di Benjamin e Faeti) si è molto specializzata e può tenere in conto i parametri cognitivi e le specificità percettive dei lettori e anzi usarli come stimolo creativo (da un certo punto di vista è quello che ha sempre fatto e invitato a fare Munari: darsi limiti e vincoli a vantaggio della creatività), ma è vero anche che la gran parte degli illustratori continua a lavorare in base a ricerche espressive che hanno radici nell’arte, nella grafica, nel disegno, nel fumetto, nella fotografia, nel cinema… ossia in quelle tecniche di rappresentazione e di narrazione che hanno a che fare con la dimensione della forma e dell’esperienza estetica e non, decisamente, con la preoccupazione di trasmettere contenuti adatti all’apprendimento (a meno che non si operi espressamente nel settore della scolastica).
Mi sono fatta l’idea che questo analfabetismo adulto nei confronti dell’immagine (ma anche verso la parola letteraria, più specificamente quella della poesia, come indica Negri), analfabetismo definito aniconismo da Sophie van der Linden, la maggiore esperta francese di albi illustrati, sia fortemente coinvolto, a diversi livelli, nella colossale difficoltà a riconoscere la qualità estetica dei libri per l’infanzia come elemento primario della loro importanza, parlo del lettore comune, ma anche di insegnanti, pedagogisti, pediatri, bibliotecari, educatori eccetera. Un mancato riconoscimento di una delle esperienze più importanti che si possano fare durante la crescita, quello dell’esperienza estetica che, come credo si sia compreso da quanto ho scritto, ha anche forti valenze etiche e politiche, a partire dalle caratteristiche di eccedenza, gratuità e alterità rispetto a esperienze a pagamento sempre funzionali al conseguimento di qualcosa, come, per cominciare, intrattenimento e divertimento (non per niente lucrosi settori di mercato).
Spesso rimango colpita dalla povertà e dall’offensiva bruttezza di testi e immagini che circolano nelle scuole, proposti come materiali didattici ed educativi che alcuni insegnanti mi mostrano, scoraggiati e contrariati: kit o video predisposti su questo o quel tema, in occasione di questa e quella giornata mondiale da celebrare, scaricabili da siti didattici, circolanti su chat e gruppi facebook. In gran parte si tratta di materiali gratuiti, non nel segno di una eccedenza, ma del suo contrario: una assoluta mancanza di valore, a cominciare dall’impegno e dalle competenze di chi li ha progettati. Sono testi, immagini, video diffusissimi nelle scuole primarie, non si pensi a realtà marginali e svantaggiate.
A fronte di tutto ciò mi chiedo, dunque, che posto abbia l’esperienza estetica nell’esperienza degli adulti, in particolare di coloro che hanno a che fare, in vario modo con la crescita dei bambini, per esempio che lavorano e operano in ambito scolastico ed educativo: domanda che viene prima di quella sul posto che dovrebbe occupare la letteratura per l’infanzia all’interno degli studi umanistici e della cultura tout court. Perché la risposta a questa determina poi, di conseguenza, tutte le altre, a cascata.
Se la scuola, e le famiglie insieme alla scuola, si stanno allineando a un’idea di conoscenza e di sapere in cui la qualità estetica degli oggetti che la costruiscono hanno una parte del tutto ininfluente all’interno dei percorsi scolastici ed educativi, se la capacità di lettura e analisi di immagini e illustrazioni è tanto limitata fra gli adulti al punto da risultare un ingombro, al pari della qualità letteraria dei testi, guardata con fastidio o addirittura scambiata per inadeguatezza degli autori; se la “bellezza” di alcuni prodotti editoriali è ritenuta eccessiva (eccedenza percepita come disvalore) rispetto alla capacità dei bambini e dei ragazzi di sperimentarla, e a essa vengono preferiti libri “meno belli”, ma meglio finalizzati, da una parte, alla trasmissione di contenuti ritenuti utili e funzionali, e dall’altra al tipo di intrattenimento da poco che si ritiene adatto ai bambini, cosa ce ne dovremmo fare di una buona letteratura per l’infanzia, quand’anche posta sul trono delle arti maggiori? Esiste qualcuno interessato a riconoscerla nel gran mare della produzione libraria destinata all’infanzia?
Ha speranza di trovare il posto che le compete, la letteratura per l’infanzia in un contesto in cui quella della bellezza risulta un’esperienza ritenuta sempre meno necessaria nella crescita dei bambini e dei ragazzi, un’esperienza sempre più aliena alla dimensione adulta, sempre meno preparata a percepirla, e sempre più disposta a intenderla come attributo accessorio che accresce il valore di mercato degli oggetti – è il prezzo a segnalarne la presenza -, trasformandola in una merce destinata a un target di “pochi fortunati” che potranno comprenderla e fruirla, pagando? Un contesto che sradica l’esperienza estetica dall’unica dimensione che le compete e ne salva l’integrità: quella collettiva ma non di massa, personale ma non privata, quella della conoscenza ma non di dati, della quotidianità ma non dell’abitudine, della gratuità ma non della mediocrità, dell’unicità, ma non dell’esclusività?
C’è un passo magnifico in Le ceneri di Angela che dà conto con estrema precisione di cosa intendo per esperienza estetica. È quando Frank McCourt racconta del suo incontro con la potenza e il mistero della lingua attraverso un libro del tutto casualmente, e improbabilmente, giunto fra le sue mani. Nato a Limerick negli anni Trenta, in una Irlanda poverissima e ultra cattolica, con un padre alcolizzato e una mamma disoccupata, primo di cinque fratelli di cui tre moriranno piccoli, dopo averne passate di ogni colore, Frankie, decenne, mezzo morto per tifo, viene ricoverato in ospedale dove conosce una ragazzina difterica, Patricia Madigan. Lei non lo vede mai, gli parla dalla stanza accanto e gli presta, affidandolo alle mani dell’infermiere Seamus, un libro che racconta la storia dell’Inghilterra.
Nel libro – scrive McCourt – ci sono i primi versi di Shakespeare che mi sia mai capitato di leggere: “Persuasa da circostanze incontestabili, io credo che voi siate mio nemico”. Come riferisce l'autore del libro, è così che dice Caterina, una delle mogli di Enrico VIII, al cardinale Wolsey che vorrebbe farla decapitare. Io non capisco che cosa significa la frase ma non mi importa perché è Shakespeare e quando pronuncio quelle parole è come se avessi in bocca delle pietre preziose. Se mi dessero un libro tutto di Shakespeare potrebbero pure tenermi in ospedale un anno intero.
La formazione poetico ospedaliera di Frankie prosegue attraverso il muro che separa le due stanze, quando Patricia gli legge i versi della ballata romantica The Highwayman di Alfred Noyes: “Il vento era un fiume oscuro fra gli alberi furiosi/la luna una galea spettrale su mari tempestosi/la strada un nastro argenteo sulla purpurea landa/ e cavalcando giunse il bandito/cavalcando cavalcando/ cavalcando giunse il bandito all’uscio della locanda...”
Questa poesia è emozionante e bella quasi quanto i miei versi di Shakespeare – scrive McCourt. – I soldati danno la caccia al bandito perché sanno che ha detto alla fanciulla: Verrò da te ai primi raggi di luna s’anche il demonio mi sbarrasse la strada. Mi piacerebbe tanto fare anche io così, andare ai primi raggi di luna da Patricia nella stanza accanto e s’anche il demonio mi sbarrasse la strada scoreggiarci sopra. Patricia è pronta a leggermi le ultime strofe, quand’ecco che entra l’infermiera del Kerry strillando a tutti e due: Ve l’avevo detto che fra due stanze è proibito parlare. La difterite non può parlare col tifo e viceversa.
I due innamorati vengono separati, lui mandato a un altro piano dell’ospedale. Poco dopo, Patricia muore e il libro con i versi di Shakespeare rimane a Frankie che li reciterà fra sé tutte le volte che potrà: un talismano che rende splendenti.
Giovanna Zoboli è scrittrice ed editrice. Con Paolo Canton ha fondato, nel 2004, il marchio Topipittori, specializzato in volumi per bambini e ragazzi, di cui è editor, direttrice editoriale e artistica. I suoi libri, per bambini e adulti, sono pubblicati in Italia e all'estero. Svolge attività di studio sui temi della cultura rivolta all’infanzia, con interventi editi da blog, cataloghi, riviste, e attraverso incontri, lezioni, corsi. Dal 2010, cura la comunicazione del marchio, attraverso il blog, inaugurato nel 2010, la pagina Facebook, Instagram. Collabora con le riviste LiBeR e Hamelin, e con diversi siti di cultura online fra i quali Doppiozero, cheFare e Federico Novaro Libri. Vive e lavora a Milano.
Cristina Bellemo vive a Bassano del Grappa. Laureata in lettere classiche, è giornalista da oltre venticinque anni. È direttrice responsabile della rivista L’Abbecedario, edita da A.B.C., Associazione Bambini Chirurgici dell’ospedale pediatrico Burlo Garofolo di Trieste.
Scrive per diversi editori, e i suoi libri sono stati tradotti per tanti Paesi. Ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra i quali, nel 2021, il premio Andersen come miglior scrittrice. Incontra costantemente lettrici e lettori, e tiene seminari, laboratori, corsi sulla letteratura per l’infanzia e sulla cura delle parole (intorno alle quali la sua ricerca è incessante).
Illustrazione di Enrico Mazzanti per Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, di Carlo Collodi, edizione Bemporad & Figlio, Firenze 1892.