Il valore della ricerca partecipata nel lavoro sociale: l’esperienza dei tavoli di co-didattica | The value of participatory research in social work: the experience of co-learning tables
DOI: 10.5281/zenodo.8225323 | PDF | Educazione Aperta 14/2023
This contribution aims to share the field experience carried out as part of the project professional social practices in territorial services: making knowledge explicit, proposed by the Cospecs department of the Messina University.
The article describes the innovative training path experimented in the "participatory and situated co-learning and research boards", involving researchers, social workers from public institutions and non profit organizations, students and people housed in services. The small communities of practice that have been generated have "legitimized the participation of subjects with heterogeneous experiences and knowledge (Lave and Wenger, 1996), the "boards'' created contexts in which to support the "natural" learnings of professional communities (Schön, 2006; Merizow, 2003; Fabbri, 2007) and address the inherent and in many ways contradictory and conflicting complexity of such contexts. Contamination with the praxis-theory-praxis methodological approach, which belongs to social workers, has generated virtuous relationships that reduce the distances between knowledge thought of as "legitimate" and that placed as "illegitimate" (Pellegrino, 2006).
Beginning with a description of the processes of situated and participatory university training and teaching (Pellegrino, 2016; Lave and Wenger, 2006; De Bartolomeis, 1976), the article focused on the views, reflections and expectations that characterize the personal and professional experience of two public service social workers who participated in the "mental health board" and the "immigration board".
Key-words: Situated learning; participation; community of practices; co-teaching; reflexivity.
1. Introduzione
L’articolo descrive il declinarsi e il divenire di un’esperienza, vissuta dalle autrici, di ricerca e didattica partecipata e situata, avviata nel 2018 in via sperimentale nell’ambito della disciplina Principi e metodi della ricerca e del servizio sociale impartita nel corso di laurea in Scienze del Servizio Sociale del Dipartimento Cospecs dell’Università di Messina.
L’attenzione è focalizzata sul concetto di “dimensione sociale” dell’apprendimento che si concretizza nella partecipazione e nella comunità di pratiche, quali punti nodali di un nuovo modo di produrre conoscenza e sapere professionale.
In una prima parte l’articolo descrive il percorso formativo innovativo sperimentato nei “tavoli di co-didattica e ricerca partecipata” che, con il loro impianto metodologico, hanno aperto il confronto plurale e stimolato approfondimenti teorici sulle pratiche professionali nel lavoro sociale.
I “tavoli” hanno avuto una composizione eterogenea e multidisciplinare, con la partecipazione di studiosi accademici, studenti, professionisti dei servizi pubblici e del privato sociale (assistenti sociali, psicologi, psichiatri, educatori), nonché responsabili di progetti territoriali per l’accoglienza di migranti, mediatori interculturali, persone accolte nei servizi (nello specifico, servizi di salute mentale e di protezione e accoglienza di persone migranti, attuali ed ex beneficiari di progetti territoriali).
La sperimentazione in situazione (Lave e Wenger, 2006; Schön, 2006) proposta dalla docente ha coinvolto gli studenti in uno stile di lavoro riflessivo, caratterizzato dalla capacità di interrogarsi e cogliere la complessità e multifattorialità dei bisogni delle persone accolte nei servizi socio sanitari e sulle modalità di risposta ed intervento.
L’articolo si sofferma sui punti di vista, le riflessioni e le aspettative che caratterizzano l’esperienza personale e professionale di due assistenti sociali di servizi territoriali, pubblici e privati, che hanno partecipato al “tavolo sulla salute mentale” e al “tavolo sull’immigrazione”. Le fonti delle loro elaborazioni sono rappresentate dai report di tutti gli incontri tenutisi, redatti dalla coordinatrice scientifica e validati dai componenti dei rispettivi gruppi di lavoro.
- F. racconta e analizza l’esperienza del “tavolo sulla salute mentale” a partire dal lavoro del gruppo di ricerca partecipata, con un focus sugli effetti della pandemia da covid-19 e sull’atteggiamento degli operatori sociali nel nuovo contesto d’azione segnato dall’emergenza; ri-concettualizza le riflessioni e i diversi punti vista delle testimonianze di persone accolte nei servizi, il rapporto tra normative e pratiche sociali professionali e riflette sulla complessità dell’intervento nella salute mentale.
- U. narra il suo coinvolgimento nell’esperienza del “tavolo sull’immigrazione” esplicitando il taglio teorico-metodologico riferito al lavoro di ricerca e descrizione di obiettivi, risultati attesi, procedure operative dei diversi cicli di incontri realizzati dal gruppo di lavoro e delle esperienze di co-docenza e didattica partecipata. Riflette sulla necessità di mettere a sistema e ri-concettualizzare le conoscenze in un settore, quello delle migrazioni, caratterizzato per eccellenza da conflitti sociali.
L’iniziativa e la collaborazione dell’Università hanno consentito di allestire questo spazio in cui i conflitti sociali possono essere esplorati con l’intento di conoscere e far conoscere, così da confermare e agire la propria funzione pubblica di engagement (Terza Missione).
2. I tavoli di partecipazione e la lezione in co-docenza
Negli anni dal 2018 al 2022 si sono costituiti quattro “tavoli di didattica e ricerca partecipata e situata” (Tarsia, 2020b), su aree del lavoro sociale che implicano interventi sociosanitari complessi, considerati difficili da gestire, permeate da processi di etichettamento, oppressione e controllo: salute mentale, dipendenze patologiche, accoglienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo, giustizia minorile e degli adulti.
I professionisti interessati hanno aderito liberamente e i loro Enti di appartenenza, con i quali l’Università ha rapporti di convenzione per lo svolgimento dei tirocini curriculari, sono stati formalmente invitati.
I tavoli di co-didattica si sono costituiti, nel contesto di innovazione della formazione universitaria, stimolando l’interesse degli operatori sociali sul tema della produzione del sapere professionale in ambito accademico, facendo emergere l’importanza della contaminazione disciplinare e dell’acquisizione di un habitus di ricerca da parte dei social workers (Tarsia, 2019).
Dal lavoro dei tavoli sono state strutturate lezioni in co-docenza per gli studenti del corso di laurea in Scienze del Servizio Sociale, quali strumenti di didattica partecipata e situata, nelle quali il sapere accademico si coniuga al sapere teorico-pratico degli operatori sociali per co-costruire e diffondere conoscenze. Lezioni pensate come luoghi “reali” in cui l’apprendimento è un evento “reale” e si realizza nell’integrazione di teoria e pratica, di pratica e teoria.
L’attività dei tavoli è ancora in corso e dal 2018 è promossa nell’ambito del progetto Pratiche sociali professionali nei servizi sul territorio: esplicitare i saperi coordinato da Tiziana Tarsia, docente presso il Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e degli Studi Culturali dell’Università di Messina, dando vita al “tavolo dei saperi professionali”.
3. L’esperienza del tavolo sulla salute mentale
Fin dal primo ciclo di incontri lo staff di conduzione del tavolo sollecita la discussione nel gruppo con domande aperte, costruite con il metodo della maieutica reciproca (Tarsia 2019; Dolci 1988). Si è discusso delle differenze tra mandato istituzionale, mandato sociale e mandato professionale, della rappresentazione sociale e della mission delle professioni sociali e dei rapporti di potere inter-organizzativi e tra i diversi professionisti con i conflitti che ne possono derivare.
La domanda di didattica e ricerca è unica per tutti i tavoli ed è centrata su quali siano i saperi taciti (Polanyi, 2018) che sono incorporati nelle pratiche del lavoro sociale e che, se esplicitati, possono essere un valore aggiunto nella formazione degli studenti universitari e nell’aggiornamento dei social workers.
Il tavolo sulla salute mentale si interroga su quali siano gli elementi importanti da comunicare agli studenti e su quali contenuti focalizzarsi per organizzare insieme la lezione. Un brainstorming permette ai componenti del gruppo di confrontarsi e problematizzare le questioni inerenti la salute mentale. La riflessione condivisa da tutti è la necessità, strategica e metodologica, di coinvolgere gli studenti sull’importanza di porsi domande.
La decisione sui contenuti da comunicare in aula si sviluppa attraverso un processo di decostruzione del sapere che appartiene alle pratiche professionali degli operatori: le persone coinvolte esplicitano il proprio punto di vista ed esplorano le questioni che scaturiscono dalla narrazione di aneddoti e storie lavorative. Alcuni dei temi trattati durante il primo anno di sperimentazione sono stati, ad esempio, la specificità del colloquio con un paziente psichiatrico.
I contenuti che il gruppo stabilisce di comunicare agli studenti si concentrano su aspetti ritenuti fondamentali e sulla necessità di descrivere agli studenti gli strumenti professionali e il metodo di lavoro che caratterizzano il servizio sociale nella salute mentale. Emergono alcune note dolenti che alcuni ritengono necessario analizzare: le dinamiche di potere e di oppressione implicano, in alcuni casi, forzature nelle soluzioni proposte alle persone come se la situazione (la storia) della persona dovessero essere ricondotte ad una forma predeterminata per la quale è già stata pensata una risposta (una prestazione, una procedura).
La modalità comunicativa considerata più adatta alla partecipazione attiva degli studenti esclude la lezione frontale, a favore di tecniche e strumenti di coinvolgimento diretto dei partecipanti e si ha cura di prevedere sempre un tempo dedicato al dibattito e alla discussione finale. Gli studenti valutano ogni lezione in co-docenza attraverso un questionario semi-strutturato. I professionisti elaborano un’analisi swot e riflettono sull’impatto che la partecipazione ai tavoli ha avuto sulla propria pratica professionale.
Nel secondo ciclo, il frame di riferimento rimane il lavoro sociale nell’ottica multidisciplinare e comparativa tra differenti professioni, a partire dalle pratiche professionali. Riprende l’attività di strutturazione condivisa della lezione in co-docenza partendo dalla domanda di ricerca originaria su cosa sia importante che gli studenti sappiano del processo di aiuto nell’ambito della salute mentale e dalle domande proposte dal gruppo.
Le riflessioni e le conversazioni si sviluppano nel clima accogliente dei world cafè, una metodologia che nella sua naturalità ed apparente semplicità di esecuzione cela una filosofia del cambiamento organizzativo radicata nel pensiero dei Sistemi Complessi Adattivi e della teoria del caos. Questa metodologia, non solo mette a proprio agio i partecipanti, riducendo la tensione generata dal ruolo e dal compito, ma ha una provata capacità di dare vita a conversazioni autentiche ed alla condivisione di conoscenze tra persone provenienti sia da culture sia da contesti diversi, anche quando non sono legate tra di loro da rapporti personali o professionali. Le conversazioni in stile world cafè rappresentano uno strumento pratico e creativo che promuove la comunicazione informale per generare apprendimento, contaminazione di competenze e conoscenze e co-costruzione di nuove strategie di intervento.
Tre pazienti del centro diurno Camelot, dove si tengono i world cafè, decidono di raccontare le loro storie e di unirsi al gruppo per condividere la loro esperienza.
Il confronto in plenaria fa emergere l’importanza dell’ambiente sulla salute mentale delle persone e sull’equilibrio che si riesce a mantenere nel contesto in cui si vive. Gli operatori che lavorano nei servizi sono considerati dei professionisti che devono prendersi cura delle persone dal punto di vista fisico ed emotivo. Si chiede loro di essere generatori di benessere, capaci di rendere autonomi ma anche di essere contenitori emotivi. Nel processo di aiuto, si differenzia tra i luoghi e i tempi attraversati e vissuti dal paziente psichiatrico. C’è differenza tra i momenti vissuti in ospedale in una fase probabilmente più acuta della malattia e quelli trascorsi in un centro diurno come Camelot.
Nodo centrale sembra essere quello delle regole: anche in questo caso si possono cogliere sfumature legate alla percezione di essere oppressi dalle regole o quasi non avvertirle, si dice infatti “Qua non sento le regole, ma solo amore”.
In generale in tutti i servizi, ma in particolare in questo settore, agli operatori sociali viene attribuito il compito di umanizzare i servizi. Si sottolinea l’importanza di essere professionali ma anche il valore che hanno le emozioni nella relazione di aiuto con i pazienti psichiatrici.
Altro concetto il cui significato viene ridefinito, quello di relazione di aiuto. Nel centro diurno Camelot le persone (i pazienti, gli operatori e anche gli studenti tirocinanti) si sentono a casa, in famiglia. L’aria che si respira è di uguaglianza. Cosa significa uguaglianza? E cosa diversità? Si sottolinea come quest’aria non si respiri in tutti i servizi. Viene evidenziato come chiamare per nome la persona è un modo per non mettere etichette. E ancora si discute sulla diagnosi. Quanto è importante per un assistente sociale conoscere la diagnosi del paziente che si ha in carico? Quanto incide in un eventuale processo di etichettamento? Quanto ha rilievo per il paziente sapere qual è la propria malattia? E quanto invece è superfluo saperlo? Sul tema della diagnosi clinica e di funzionamento sociale, sono emersi diversi punti di vista che sottolineano sia differenze che complementarietà, competenze in capo ad operatori diversi (alleanza terapeutica) e l’aspetto sociale che si concentra sull’impatto che la malattia mentale ha sulla quotidianità della persona. Per formulare una diagnosi sociale ha rilievo anche la dimensione clinica. Si è puntualizzato come la possibilità di avere una diagnosi sia un diritto del paziente ma, allo stesso tempo, ci si è ricordati di come la diagnosi (sia quella clinica che quella sociale) possano determinare un processo di stigmatizzazione.
3.1 Il “tavolo” durante la pandemia
Nell’aprile 2020 il gruppo si incontra per la prima volta virtualmente sulla piattaforma universitaria Microsoft Teams. Si riescono a realizzare due round del world cafè reagendo alle domande proposte: Ci sono differenze tra ciò che viene richiesto dalla normativa/istituzione e la pratica professionale quotidiana? Tra mandato istituzionale e professionale? E ancora: Alla luce di quanto emerso nel gruppo, quali possono essere i contenuti della lezione per gli studenti?
I temi hanno animato il gruppo che ragiona a lungo sul concetto di emergenza e su ciò che è previsto per fronteggiare questa emergenza. Le situazioni che diventano emergenza sono quelle che sono difficilmente classificabili e a cui, di conseguenza, è difficile dare una risposta immediata. L’emergenza dipende anche, viene detto, dalle situazioni in cui ciò che dice la legge non è applicabile per problemi organizzativi o per mancanza di risorse.
La valenza dell’esperienza nell’emergenza covid-19 vissuta dagli operatori ha mostrato che i servizi sociali che orientano il loro approccio di lavoro sul territorio sono stati facilitati nel mantenimento della relazione di aiuto.
Si è posta l’attenzione su come si stia lavorando nei servizi in questo frangente di emergenza. Si racconta come i propri utenti stiano vivendo la situazione e a questo proposito si rimanda alla prima delle scritture collettive prodotte dal tavolo di ricerca sui saperi professionali e pubblicata con il titolo Le certezze mentre tutto cambia (Tarsia, 2020a). In piena crisi è importante trovare interstizi generativi che possano diventare spazi di sopravvivenza delle professioni, viene scritto. La riflessione degli assistenti sociali coinvolti dal gruppo di ricerca si è focalizzata su come si è configurato il proprio intervento in situazioni eccezionali senza che questo perda di efficacia o si snaturi diventando altro. La dimensione relazionale, l’ascolto, il benessere della persona rimangono i capisaldi del proprio lavoro anche in una situazione di eccezionalità.
3.2 La complessità dell’intervento nella salute mentale e l’emergenza da covid-19
Tutti concordano che la normativa nazionale di settore sia una delle migliori esistenti. Lungimirante e potenzialmente adeguata. La normativa italiana sulla salute mentale è rimasta invariata dal 1978, con la Legge 180, assorbita nella Legge 833/78 di Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e i successivi Piani sanitari nazionali, Progetti Obiettivo del 1994 e del 1999. Emergono delle criticità, però, nel momento in cui le traiettorie proposte devono essere applicate. Si osserva come spesso ci si trovi di fronte a ritardi e inadempienze, oltre che a diseguaglianze a livello territoriale nell’accesso alle risorse.
L’emergenza sembra aver riportato la centralità dell’operatore sociale nei servizi, ma ha messo in luce come, in generale, non solo nell’emergenza, l’intervento sul territorio si sia perso e ci si rende conto di come la sanità non sia all’altezza di affrontare questa emergenza. Si evidenzia anche come vi sia un’assunzione di responsabilità che va oltre ciò che compete agli operatori, considerando che dopo questa emergenza, la salute mentale dovrà occuparsi di coloro che stanno subendo un trauma in questa fase di distanziamento sociale. Ci sarà una nuova utenza a cui bisogna prepararsi ma di cui non si conoscono le caratteristiche.
I partecipanti al tavolo esprimono la fatica di dover inseguire le norme mentre le persone accolte nei servizi ne subiscono le conseguenze. Si ragiona su quanto sia importante essere flessibili, assumendo l’elasticità necessaria per applicare al meglio la norma, adattando e rimodulando azioni personalizzate, non interventi fotocopia.
Un operatore sociale che non ha paura del cambiamento, sa stare nell’incertezza e muoversi nei contesti instabili.
Tutti i partecipanti al tavolo sottolineano come nel processo di aiuto con i pazienti psichiatrici, la malattia sia un frammento di qualcosa di più complesso. Si ritorna sul principio di autodeterminazione: si devono fornire alle persone gli strumenti per essere consapevoli della propria malattia. Un utente del servizio sottolinea come ciò che è importante non è tanto conoscere la propria malattia, ma potersi affidare agli operatori senza farsi troppe domande. A questa considerazione viene associato anche il bisogno di non essere etichettato. La fiducia appare l’elemento caratterizzante una relazione significativa all’interno della quale è possibile porsi delle domande ed è possibile dare anche delle risposte. La possibilità di affidarsi conduce verso l’evoluzione ed il cambiamento.
Dopo aver ri-significato e concettualizzato i contenuti della lezione, si propone di far cogliere agli studenti tutti gli aspetti emersi negli incontri di preparazione, raccontando la storia di un caso e permettendo agli studenti di dedurre loro i vari aspetti con domande quali cosa ha funzionato in questa storia?
Dopo ampia discussione si decide di articolare la lezione partecipata con la visione di un filmato realizzato dagli studenti tirocinanti e di proseguire con il tema dell’evoluzione salute mentale e del concetto di stigma ed il punto di vista sull’esperienza dei servizi e degli operatori.
3.3 Il tavolo salute mentale 2021- 2022
In questo ciclo di attività la proposta è di condividere “conoscenze, competenze, pratiche e immaginari fondamentali e scientifici”. Sono coinvolti studenti del corso di studi in scienze e tecniche psicologiche e scienze pedagogiche. Alcuni stimoli scaturiscono dalla lettura di alcune parti del libro di Howard S. Becker, I Trucchi del mestiere, che aiuta a concettualizzare le conoscenze da restituire agli studenti nella lezione in co-docenza. Viene chiesto un primo lavoro di sintesi, rimanendo centrati e agganciati ai contenuti, ma anche alle interazioni che si sono avute durante l’incontro. Per costruire nuove conoscenze insieme e integrare quelle di ciascuno.
Il lavoro proposto è tratto e adattato dallo schema sulle fasi della filiera e tipi di conoscenza (Rullani, 2014, p. 45). L’obiettivo di ogni sotto-gruppo è quello di elaborare un testo scritto. Per far ciò è ritenuto importante rimanere aderenti a quanto detto dai componenti del gruppo. In particolare, il gruppo si propone di comunicare agli studenti quali sono le conoscenze e i saperi, ma anche gli stereotipi e i bias, che sono emersi dal lavoro comune nel tavolo.
Ciascun partecipante al tavolo di ricerca sulla salute mentale e l’istituzione manicomiale ha vissuto esperienze a volte molto differenti nell’arco della propria storia professionale. C’è chi ha lavorato sul territorio, chi ha affrontato la malattia psichiatrica nelle sue fasi più critiche, chi per la deistituzionalizzazione dei pazienti, chi per il loro inserimento lavorativo e c’è anche chi ha appena concluso i suoi studi universitari e non ha vissuto nessuna esperienza diretta con la malattia mentale.
Il percorso è scandito da una prima giornata di lavoro dedicata all’osservazione delle foto con il contenuto delle valigie dei pazienti psichiatrici internati nell’ospedale Willard (Willard Asylum for the Chronic Insane)[1].
Il gruppo è diviso in sottogruppi per osservare le foto e reagire con il proprio immaginario esprimendo osservazioni e ponendosi domande. In questo caso il sapere attraversa tre fasi, quello preesistente in ognuno di noi, modificato nel piccolo gruppo, integrato e plasmato nuovamente nel gruppo principale.
Ogni paziente al momento del ricovero in ospedale portava con sé un piccolo bagaglio, scegliendo cosa potesse essergli utile. Ma le valigie, seguendo le regole dell’istituzione, venivano lasciate in deposito all’ingresso. A distanza di anni gli occhi del fotografo svelano un pezzetto di mondo di questi pazienti. Uomini e donne più o meno giovani, i loro bisogni, forse i loro desideri. C’è chi ha portato con sé qualche libro, chi l’occorrente per la toeletta quotidiana, pettini, spazzole, pennelli da barba, chi gli strumenti per il ricamo o una elegante camicia ricamata. Oggetti costosi e povere cose, tutto abbandonato sulla soglia del manicomio e mai utilizzato.
La seconda giornata di lavoro, guidata da uno storico, ha consentito di osservare e studiare il contenuto delle cartelle cliniche dei primi del ‘900 del manicomio di Racconigi. Si osservano le foto di questi fogli vergati a mano in elegante calligrafia. Documenti fitti di note, elenchi e osservazioni cliniche. Documenti del tutto simili conservati nell’archivio del manicomio di Messina che vengono visionati dal vivo durante la terza giornata di lavoro. Grazie all’opportunità di visitare questi archivi, si coglie lo sguardo dell’istituzione manicomiale intenta a descrivere la vita e la malattia degli internati, a tracciarne caratteristiche sociali e personali, le condizioni di salute e i motivi dell’internamento. Linguaggio e forma antiche così estranee per il nostro modo di pensare la malattia ma evidentemente funzionali alle esigenze del tempo e conformi alla scienza psichiatrica di quegli anni. Due sguardi e due posture alternative si incrociano sulla soglia dell’istituzione manicomiale. Lo sguardo del paziente che porta un poco di sé sulla soglia del manicomio, dentro la sua valigia. Lo sguardo dell’Istituzione che lo accoglie sulla soglia con l’intento di etichettarlo. La persona-soggetto rappresentata dal contenuto così intimo della valigia. Il paziente-oggetto minuziosamente descritto nella cartella manicomiale. La soglia del manicomio è il muro che separa l’essere soggetto e l’essere oggetto. Un muro che, indipendentemente dalla buona volontà e dal rigore scientifico delle professioni che lo hanno eretto, costringe, de-soggettivizza, etichetta, separa la vita di fuori da quella di dentro.
Gli studenti sono stati coinvolti nel dialogo partecipato con i co-docenti e co-ricercatori ed hanno risposto al questionario sull’esperienza vissuta durante la lezione. Le loro valutazioni sono state condivise durante l’ultimo incontro del tavolo.
4. L’esperienza del tavolo sull’immigrazione
L’obiettivo specifico del gruppo di lavoro –composto da ricercatori, operatori sociali dell’accoglienza (responsabili di progetto, assistenti sociali, educatori, psicologi, mediatori interculturali), studenti, persone migranti (attuali ed ex beneficiari di progetti di accoglienza) – è stato quello di indagare le competenze utili ad agire un tipo di lavoro sociale il più possibile rispondente alla complessità dei bisogni emergenti nella pratica professionale specifica del settore dei richiedenti asilo/protezione internazionale.
I risultati attesi: la co-costruzione e diffusione di sapere tra gli operatori sociali e gli studenti del primo anno di corso di laurea in Servizio Sociale, attraverso il metodo della didattica universitaria “situata e partecipata” (Pellegrino, 2016; Lave e Wenger, 2006; De Bartolomeis, 1976).
Il gruppo ha assunto una prospettiva sopraelevata rispetto alla semplice narrazione dell’esperienza pratica dei professionisti e della testimonianza delle persone accolte nei servizi, focalizzata a costruire insieme, co-progettare e poi co-produrre (Carrà, 2018), un percorso di apprendimento riflettente la complessità e la multifattorialità dei bisogni, delle possibili risposte e degli interventi sociali esperibili sul territorio di riferimento (Messina e Reggio Calabria). L’applicazione della teoria dell’apprendimento situato, secondo la quale l’apprendimento è parte integrale e inseparabile di ogni pratica sociale, trova la sua più specifica espressione nella partecipazione, legittimata e periferica, ad una pratica situata e locale (Lave e Wenger, 1991: 31). Nello specifico si è tentato di comprendere insieme e con atteggiamento riflessivo come fare in modo che gli studenti, operatori sociali del futuro, possano: 1) acquisire un habitus professionale (Tarsia, 2019) che utilizzi modalità operative funzionali ad incidere sulle politiche sociali; 2) intervenire secondo processi guidati dalla riflessività e dalla capacità di puntare al cambiamento chiedendosi come meglio agire per riuscirci.
Nel primo ciclo di incontri, il gruppo di ricerca e autoformazione, intrecciando sapere teorico e pratiche professionali, ha cercato di mettere a sistema le conoscenze e le competenze maturate e di formulare categorie di lettura funzionali alla risignificazione e alla riconcettualizzazione (Weick, 1997); ha programmato una lezione in co-docenza partecipata, strutturata per fornire agli studenti elementi ed informazioni ritenute fondamentali per comprendere il fenomeno migratorio e il sistema di accoglienza, nonché per favorire il loro protagonismo.
Gli studenti del primo anno del Corso di laurea in Scienze del Servizio Sociale nel 2018, infatti, si sono sperimentati personalmente nell’analisi e nella presa in carico (virtuale) di casi reali portati dagli operatori sociali, con definizione di percorsi di assistenza attivabili. In interazione con i professionisti e le organizzazioni e con uno stile di lavoro riflessivo e di gruppo. L’interesse manifestato dagli studenti è stato veramente notevole, come apprezzabile la qualità del compito da loro eseguito, superiore alle aspettative rispetto alla complessità degli argomenti trattati ed alla incipiente formazione di ragazzi al primo anno.
Il secondo ciclo ha visto il gruppo di ricerca ancora impegnato in un lavoro di riflessione, finalizzato ad esplicitare saperi, strumenti e tecniche da comunicare agli studenti in una lezione in co-docenza articolata in fasi in ognuna delle quali sono state integrate previsioni teoriche-normative e prassi operative. La lezione è stata strutturata partendo dalla seguente sollecitazione: quali contenuti sono veramente irrinunciabili? La discussione si è centrata sul cluster dei “saperi professionali” e il gruppo ha concordato che per fare accoglienza c’è bisogno di un’équipe professionale che rappresenta un insieme di saperi che devono andare in un’unica direzione, senza sovrapposizioni. È risultato, pertanto, importante definire il concetto di sapere, chiedendosi se consiste in un sapere teorico, in un saper fare, nel saper essere o, ancora, se consiste in un sapere originato dalla pratica.
In questa esperienza, gli studenti, suddivisi in gruppi di lavoro e con la supervisione degli esperti, si sono sperimentati nell’utilizzo dello strumento del Piano Individualizzato e, a partire da un format di Piano, hanno dovuto: a) individuare gli operatori di riferimento per ogni azione (fase dell’accoglienza); b) scrivere almeno un bisogno e un obiettivo per area; c) costruire l’indicatore che permette di monitorare e valutare i bisogni individuati. I lavori finali ed i punti salienti della lezione svolta, sono stati discussi in plenaria con il coinvolgimento attivo di tutti i partecipanti.
Le relazioni tessute nel lavoro di ricerca dentro il “tavolo”, hanno portato alla costruzione di una rete di partenariato costituita da diversi soggetti del pubblico e del privato sociale, operanti nel territorio della Sicilia e della Calabria, con composizione eterogenea sia per settori di intervento, sia per ruoli e profili professionali, sia per diverso ente di appartenenza. Si è generato un contesto in cui supportare gli apprendimenti “naturali” delle comunità professionali (Schön, 2006; Mezirow, 2003; Fabbri, 2007); dove il sapere professionale agito si intreccia con il sapere accademico, il sapere applicato con quello intellettuale, con generazione di relazioni virtuose che, tra l’altro, riducono le distanze tra i due mondi; dove si creano occasioni per esportare e condividere i saperi costruiti attraverso la riflessione e lo scambio, perché non rimangano localizzati ma possano aprirsi alla diffusione e originare ulteriori pratiche di conoscenza partecipata.
Il lavoro di rete sviluppatosi ha generato un terzo ciclo di incontri che ha avuto come prodotto diretto l’ideazione e l’implementazione di un progetto, secondo un approccio metodologico di co-progettazione, che ha voluto essere insieme un percorso euristico di ricerca sul campo, di formazione e aggiornamento. Il gruppo di coordinamento è stato costituito da referenti delle associazioni partner e dai componenti del tavolo di didattica e ricerca partecipata sull’accoglienza dei migranti forzati. L’idea progettuale iniziale era quella di organizzare un laboratorio intorno alle opere pittoriche realizzate da Jean Marie Mosengo Odia che fa parte del gruppo di artisti Congo painting. Complice l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia da covid-19, che ha impedito la realizzazione dell’evento programmato, il disegno originario si è ampliato generando un ciclo di incontri intitolati Trame migranti che si è sviluppato in due edizioni, secondo una prospettiva di continuità e di evoluzione concettuale. L’evento ha rappresentato l’occasione per la presentazione del Report sul diritto di asilo di Fondazione Migrantes, Gli ostacoli verso un noi sempre più grande (2021).
L’esperienza del progetto è stata illustrata nell’articolo Arte, pratiche e saperi: l’esperienza di “Trame migranti” a Messina, a cura di Tiziana Tarsia e Francesco Paolo Campione (2021).
Nel primo ciclo di attività si sono approfondite pratiche di inclusione sociale a partire dai percorsi di accoglienza e di inter-relazione con la comunità ed il territorio, attraverso l’organizzazione e la realizzazione di eventi formativi e di sensibilizzazione culturale, laboratori culturali e seminari tematici, raccolta-analisi-narrazione di storie di vita e pratiche sociali di migranti ed operatori di accoglienza. Si è cercato di porre al centro e con ruolo di protagonisti-conduttori i beneficiari dei centri di accoglienza, per riconoscere che il singolo migrante è portatore di saperi e conoscenze che per essere identificati come tali vanno inseriti in un paradigma teorico che offra una prospettiva sistemica e che riconosca i meccanismi di potere e di oppressione sociale (Krumer-Nevo, 2021). La popolazione target è stata: studenti universitari, cittadini, persone migranti, operatori sociali, insegnanti, studenti delle scuole primarie e secondarie, enti del terzo settore, operatori commerciali. Con specifico riferimento all’apprendimento situato, gli studenti universitari del terzo anno del CdS in Scienze del Servizio Sociale, in esecuzione del tirocinio curriculare e con la supervisione di un tutor, hanno partecipato fattivamente alla realizzazione del progetto integrando teoria e pratica sociale mediante lo svolgimento di attività di studio, formazione e riflessione sulle tematiche portanti e sperimentandosi, contemporaneamente, nella costruzione e nell’applicazione di strumenti di monitoraggio/valutazione e svolgendo, all’interno del progetto stesso, attività di monitoraggio con analisi dei dati raccolti e stesura report. L’apprendimento partecipato implica il fatto di diventare un insider, per cui un “principiante è colui che impara a funzionare all’interno di una comunità […] acquisendo quel particolare punto di vista soggettivo di quella comunità ed impara a parlare il suo linguaggio” (Brown e Duguid, 1991, p. 48).
Il lavoro di ricerca partecipata che si è sviluppato, “riproduce uno spazio di contaminazione, in cui i tavoli fungono da incubatore di scambio di prospettive, di vissuti e di pratiche che non appartengono solo agli operatori sociali e ai ricercatori, ma anche agli utenti e agli studenti” (Tarsia, 2020b). Nei gruppi di lavoro ogni soggetto è portatore di risorse e di conoscenza e l’apprendimento non può essere ridotto a mera materia cognitiva, perché di fatto la conoscenza ha una dimensione sociale che emerge nel dialogo e nella discussione.
Apprendere ha a che fare con il partecipare, con il divenire membro di una comunità, in quanto, le relazioni sociali sono importanti per la trasmissione del sapere, l’acquisizione di capacità e lo sviluppo relazionale dell’identità. In questo senso l’apprendimento è sempre un “apprendimento situato” (Gherardi e Nicolini, 2004) nel campo dell’interazione sociale.
L’apprendimento è “partecipazione” e “comunità di pratiche” (Lave e Wenger, 1991): non può essere dissociato dalla realtà quotidiana, né circoscritto a particolari settori in quanto l’imparare ed il conoscere si realizzano in una dimensione interattiva di co-partecipazione e non in una realtà separata fatta di strutture e schemi mentali differenti.
Si realizza in una cornice partecipativa e non in un contesto individuale e, pertanto, è mediato dalle diverse prospettive dei co-partecipanti (Lave, Wenger, 2006).
I membri del gruppo di ricerca hanno imparato a collaborare per trasformare, per sollecitare e tematizzare trasformazioni a livello individuale e sociale. Hanno sperimentato l’opportunità, sostenuta dall’antropologo Tim Ingold, di “un diverso modo di fare scienza più sostenibile, modesto e umano rispetto a ciò che passa per scienza oggi. Un modo che unisca il mondo piuttosto che arrogarsi degli esclusivi poteri esplicativi […] che non riproduca il visibile ma che renda visibile ciò che non lo è […] che non aspiri né a ridurre tutte le cose a dati né a convertire questi dati in prodotti, o risultati [in cui il] coinvolgimento nelle vite altrui consiste anche nel prendersi eticamente cura di loro, trasformando attraverso il reciproco confronto le loro e le nostre vite […]” (Ingold, 2018, pp. 129-131).
Gli studenti coinvolti hanno potuto sperimentare l’apprendimento riflessivo, in una simultaneità di riflessione e azione che ha permesso loro di cogliere il senso e gli impliciti delle azioni stesse, in modo critico, aperto e incorporato nelle azioni successive (Schön, 2006). Hanno avuto l’opportunità di “imparare facendo” (learning-by-doing), paradigma secondo il quale la capacità di apprendere è strettamente rapportata alla capacità di svolgere dei compiti, di partecipare attivamente all’esecuzione di pratiche significative di una certa comunità professionale, piuttosto che con l’acquisizione di nozioni pre-confezionate da parte del docente (Lave e Wenger, 1990), il cui compito peculiare e critico diviene quello di fornire scaffolding piuttosto che trasferire informazioni e concetti (Wood, Bruner e Ross, 1976) cosicché gli studenti siano messi nella condizione di maturare la meta-skill di “imparare ad imparare”.
5. Brevi considerazioni conclusive
L’intento del progetto di ricerca ha coinciso con quanto ognuno del gruppo si aspettava dal lavoro collettivo, che è stato quello di esplicitare sapere dalla pratica professionale ma anche quello di contribuire a sviluppare professionalità riflessive. Riflessività che all’interno di un processo mirato a sollecitare apprendimenti trasformativi, innovativi, si è venuta configurando come dispositivo di validazione delle esperienze professionali (Mezirow, 1991). L’apprendimento ha raggiunto una dimensione di gruppo mediante il confronto, lo scambio, la condivisione, la contaminazione: è proprio attraverso questi approcci interattivi che è possibile un rafforzamento ed un aggiornamento delle conoscenze (Dionisi e Garuti, 2011). In mancanza, il rischio è rappresentato dalla costruzione di universi di significato separati, autoreferenziali, la cui mancanza di interconnessione e di interfacce comunicative limita le possibilità di sviluppo dei saperi distribuiti nel territorio (Fabbri, 2011).
Come è stato possibile questo passaggio? Grazie all’interesse e al desiderio di vivere questo spazio di autoformazione e mantenerlo, per migliorarsi come professionisti e per accrescere la consapevolezza del sé professionale. I partecipanti hanno rinvenuto in questo spazio, occasioni per rivedere la propria pratica professionale, per confrontarsi con altri, per avere pareri sul proprio modo di affrontare le situazioni, per far conoscere il sapere professionale nel lavoro sociale. Avere un luogo, fisico e relazionale, in cui incontrarsi per riflettere, condividere esperienze e riconoscere le competenze poste in atto nella pratica; un luogo in cui i professionisti si raccontano, si pongono interrogativi, esprimono le situazioni dilemmatiche in cui si vengono a trovare, cercando di far emergere processi di pensiero, connessioni tra pratica e teoria, tra teoria e pratica. La formazione riflessiva rappresenta così un forte investimento delle comunità professionali, essendo un percorso dove lo sviluppo di sé si fa anche sviluppo degli altri ed è anche un valido canale di promozione sociale per il miglioramento qualitativo delle organizzazioni dei servizi.
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Note
[1] L’ospedale aprì i battenti nel 1869. Fu il dottor Sylvester Willard, chirurgo generale di New York, che volle fortemente la sua apertura e che chiese i finanziamenti all’allora amministrazione Lincoln, per migliorare le condizioni disumane con cui erano tenuti i malati mentali all’epoca, ma morì prima di vederne la realizzazione.
Le autrici
Adriana Ferruccio, assistente sociale specialista, già responsabile dell’Unità Operativa di Servizio Sociale Professionale nell’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina. Ha condotto nel 2020 per conto dell’Università di Messina il laboratorio di scrittura professionale Narrazioni e scritture tra tensioni emotive e rigore metodologico.
Fabiola Ursino, assistente sociale specialista. Collabora, in qualità di libero professionista, con gli Ambiti Territoriali Sociali a supporto delle attività proprie degli Uffici di Piano e nella gestione di interventi e servizi sociali. Dal 2011 al 2019 ha lavorato nei servizi di accoglienza di migranti forzati.