Il cerchio. A cosa serve la scuola | Il cerchio. What the school is for

Le immagini sono tratte da "Il cerchio" di Sophie Chiarello.

DOI: 10.5281/zenodo.10646984 | PDF 

Educazione Aperta 15/2024

"Che differenza c'è tra la vita degli adulti e quella dei bambini?"

"Visto che tutti siamo stati bambini è come che se un grande fosse ancora bambino, perché tu sei sempre bambino, è solo che cresci, e mano a mano ti chiami uomo".

"Ma tu hai voglia di diventare un uomo?"

Ci riflette, sorride, ha la finestrella tra i denti, frequenta la prima B dell'Istituto comprensivo Daniele Manin, rione XV Esquilino di Roma. È uno dei bambini che Sophie Chiarello ha seguito con la telecamera, per cinque anni, dalla prima all'ultima classe della scuola primaria. Ha registrato i loro sguardi, le loro voci, la trasformazione, anno dopo anno, dei loro corpi che corrono, giocano, piangono, ridono e si raccontano, in una scuola che cambia insieme ai bambini e a tutte le cose intorno a loro, nel susseguirsi delle stagioni. "Standoci dentro" racconta Chiarello "ti accorgi che fatica è stare in piedi: ci sono dei buchi, ci sono cose che si rompono e che poi vengono riparate. [...] Dentro quelle mura ho potuto cogliere i segni e le tracce che il tempo lascia su di noi e sulle esperienze che attraversiamo" (Cerofolini, 2023).

Il cerchio che dà il titolo al documentario è un'esperienza che i bambini attraversano in classe, tutti i giorni: è una pratica e un metodo, un luogo fisico e mentale in cui essi compiono un percorso di crescita e di scoperta di sé e degli altri, attraverso il dialogo. Un'abitudine semplice: i bambini si siedono uno accanto all'altro, in cerchio, e mettono in gioco la naturale attitudine umana a entrare in relazione con gli altri, a riconoscerli come propri simili e a costruire legami attraverso il reciproco scambio dei pensieri e delle emozioni.

Semplice ma niente affatto scontato, dato che, come ci ha insegnato Bruno Munari, "complicare è facile, semplificare è difficile". Una lezione che dovremmo ripetere come un mantra, a scuola, e sforzarci di essere tra quei pochi che ci riescono, come, per esempio, la maestra Francesca Tortora della scuola Manin di Roma: c'è lei, dietro le quinte, mentre i suoi alunni discutono, si interrogano, puntano lo sguardo nella telecamera per ricordarci ciò che siamo stati, quando volevamo anche noi "andare molto lontano, ma molto lontano da qui", "perlustrare il mondo per scoprire se certe cose sono vere" e dicevamo, come loro, a noi stessi "questa cosa me la voglio ricordare".

Attraverso la telecamera vediamo i volti dei bambini, li ascoltiamo ragionare su cosa sia la felicità, chiedersi se sia possibile fare sogni che poi si trasformano in realtà. Il campo si allarga, sullo schermo appare il cortile, rumore allegro di bambini che giocano, poi l'inquadratura di un pezzo grigio di cielo nel quale svetta una bandiera logora e sfilacciata, si sente solo il suono del vento che la agita. Rivedremo la bandiera appesa alla finestra di una casa durante il lockdown. Un'immagine silenziosa che ricorre, richiamando la nostra attenzione sulla relazione che intercorre tra la scuola e la società, sul fatto che la scuola è per sua natura in relazione con il futuro che, in un modo o nell'altro, costruiamo, scegliendo le tracce da seguire e i sentieri da imboccare. Una scelta che dipende dal senso che diamo alla scuola e da ciò a cui pensiamo essa debba servire.

A cosa serve la scuola? È una domanda facile, apparentemente, finché non proviamo a formulare la risposta. Durante il lockdown la chiusura delle aule scolastiche ha messo in crisi la società, il dibattito pubblico, in tv, alla radio, sui giornali, si è focalizzato sulle conseguenze devastanti che una chiusura prolungata avrebbe avuto sul paese. Le questioni che contrapponevano giornalisti, genitori e sociologi ai virologi erano di natura economica (le scuole chiuse, con la necessità di occuparsi dei bambini, limitava la produttività dei genitori) e sociale: la preoccupazione per l'esacerbarsi delle diseguaglianze e l'aggravarsi delle situazioni a rischio, per il ritardo formativo che si sarebbe potuto tradurre, nelle situazioni di maggiore fragilità, in un precoce abbandono scolastico, per la possibilità che bambini e ragazzi sviluppassero forme di depressione e di dipendenza dai dispositivi elettronici. Il dibattito reclamava incessantemente la riapertura immediata delle scuole, ricordando come anche durante le guerre, le carestie e le calamità naturali, si fosse sempre fatto lo sforzo di tenerle aperte. Questo perché la scuola serve a molte cose, tutte essenziali per il funzionamento della società, serve anche a tamponare tante falle, col risultato che il compito che alla scuola specificamente appartiene, educare e istruire, finisce a volte per andare fuori fuoco. E con lei (tra parentesi) gli insegnanti che, non a caso, nel dibattito pubblico che ha caratterizzato il tempo della pandemia non hanno avuto voce: nessuna discussione li ha visti protagonisti mentre si trovavano ad affrontare lo sconvolgimento organizzativo del proprio lavoro per mantenere in vita una scuola chiusa, cercando di far fronte, come potevano, al ruolo salvifico di cui si ritrovavano improvvisamente investiti. "Fronteggiare il da farsi ha assorbito le energie degli educatori che avrebbero potuto raccontare con sguardo più acuto e parole più oneste quello che stava accadendo davvero dentro le scuole", scrive Vincenzo Schirripa (2021). Di fatto, "l'incidente", se da un lato "ha confermato che la scolarizzazione è il tessuto connettivo delle società contemporanee ed ha una resistenza e una capacità di riparazione da non sottovalutare", dall'altro, però, non ha spinto la discussione oltre le questioni della "prestazione" e del "servizio erogato". L'emergenza ha tagliato fuori lo sguardo degli insegnanti e ha evitato la domanda essenziale: a cosa serve la scuola, oltre che a "tenere i bambini e i ragazzi", "patto inespresso" su cui si fonda la scolarizzazione.

Le trasformazioni che la scuola ha attraversato negli ultimi decenni hanno contribuito a complicare la questione di quale sia il suo senso: le parole con le quali un tempo, con semplicità, ne avremmo definito la funzione sono state oggetto di un capovolgimento. Il passaggio dal paradigma dell'insegnamento a quello dell'apprendimento, dall'istruire al governare i processi formativi, dalla centralità dell'insegnante a quella dello studente, e così via, ci ha insegnato a maneggiare con circospezione le parole. Rispondere alla domanda "a cosa serve la scuola" è dunque, oggi, particolarmente difficile ma è necessario farlo perché il rischio, a non mettersi d'accordo su una definizione chiara dei suoi compiti, è che la scuola si opacizzi e finisca con l'essere considerata un servizio pubblico come tutti gli altri e gli insegnanti, a seconda dell'angolazione da cui si guarda la questione, i suoi impiegati con un orario di lavoro invidiabile e tre mesi di ferie estive, oppure, come scrive Chiara Valerio, i nuovi metalmeccanici senza neppure il fascino della tuta. Due visioni che tradiscono entrambe ciò che la scuola è: un luogo fondamentale per la costruzione del futuro, non solo dei bambini e dei ragazzi ma di noi tutti, come individui e come collettività.  E dato che il futuro al momento appare cupo, rispondere alla domanda richiede uno sforzo in più.

"Qual è il compito educativo?" si chiede Gert Biesta (2022, p. 11):

mi interrogo sull'utilità dell'educazione e, specificamente, mi chiedo quale sia il compito degli insegnanti e degli educatori. La risposta che propongo è che il compito dell'educatore risiede nel rendere possibile l'esistenza adulta di un essere umano. Utilizzando termini più precisi, si tratta di suscitare, in un altro essere umano, il desiderio di voler esistere al mondo in un modo adulto.

Si tratta, in sostanza, di alimentare, in un altro essere umano, il desiderio di crescere e, "mano a mano, chiamarsi uomo" (o donna, o non-binario): cambiando nel tempo pur rimanendo sempre la stessa persona. L'esito positivo di questo percorso è, dice Biesta, l'adultità, che consiste in una particolare qualità o modo di esistere. Ciò che distingue un modo adulto di esistere da uno non-adulto è che nel primo caso si è in grado di riconoscere l'alterità e l'integrità di ciò che è altro da sé mentre nel secondo caso l'altro da sé non è neanche preso in considerazione. Per dirla diversamente, un soggetto adulto riconosce che il mondo "là fuori" è davvero "là fuori" e non è né un mondo che abbiamo costruito noi né un mondo semplicemente a nostra disposizione, di cui possiamo fare liberamente ciò che vogliamo (Biesta, 2022, p. 16).

Diventare adulti significa venire a patti con la realtà, accettando che il mondo che è fuori di noi delimiti i confini dei nostri desideri. Un'operazione né semplice né scontata, perché i limiti, come scrive Christopher Lasch, "significano vulnerabilità, mentre chi si propone di sopravvivere vuole diventare invulnerabile per proteggersi contro il dolore e la rovina". Come gli dèi. Non a caso a scoperchiare il vaso, nel mito, è Pandora, la prima mortale, plasmata, narra Esiodo, con acqua e terra. Pandora è curiosa, ed è a causa della sua curiosità che tutti i mali (o i beni, a seconda delle versioni) fuoriescono dal vaso: un gesto incauto senza il quale, però, sarebbe impossibile ogni emancipazione.

All'interno del vaso resta solo la speranza, ultimo bene rimasto agli uomini o, a seconda dei punti di vista, "un male come tutti gli altri: un affetto senza fondamento, una misera e illusoria consolazione", dalla quale,  però, scrivono Rita Corsa e Lucia Monterosa (2015), si sprigiona una "potente forza propulsiva e di apertura al futuro". La speranza, continuano, prendendo in prestito la frase da Ernst Bloch, è "un fattore gnoseologico che promuove conoscenza e progresso"; citano poi Maria Zambrano, secondo la quale "la speranza inafferrabile è un ponte tra passività, per estrema che sia, e l’azione":

Il ponte con le sue arcate è il paradigma di una via che dispiega le ali al di sopra della corrente del fiume, così come i passi dello sperare indicano una strada che può essere percorsa sopra il proprio tumulto interiore e lo scorrere del tempo.

Perché il bambino possa riuscire a emanciparsi dalla dipendenza e sviluppare un'attitudine attiva all'esistenza (ridimensionando i propri desideri), ha bisogno di questo ponte: il compito dell'educazione è quello di costruirlo.

C'è una scena commovente e buffa, al tempo stesso, nel film di Chiarello, quella in cui i bambini prendono atto del fatto che Babbo Natale non esiste. La verità arriva in classe per bocca di una bambina e il discorso prende una piega etica: è giusto o non è giusto privare gli altri delle proprie illusioni? "Anche se lo sapevo chi era, io ci credevo, in qualche modo, comunque" dice una bambina. È la logica pacifica del gioco: "una logica disorientante in cui le opposizioni non si escludono a vicenda", come scrive Shachaf Bitan.

Ma la giocosità non deve essere confusa con "una dimensione frivola: la logica del gioco significa anche pensare in modo austero e critico" (Bitan, 2016). "L'uccisione di Babbo Natale" è una "rivoluzione ludica", come quella che compie Dolly del mare profondo quando "si leva le scarpe e cammina sull'erba insieme al figlio del figlio dei fiori", nella ballata di Francesco De Gregori. Una tappa, cruenta e liberatoria, nel processo di emancipazione che i bambini percorrono insieme, tra lacrime, rabbia e ironia. Scrive Nicola Lagioia (2005):

L’incanto di un essere soprannaturale che in concomitanza della Natività mette la sua natura ubiqua a disposizione di ogni bambino del pianeta per consegnare doni si mostra in apparenza come un solido spartiacque tra infanzia e mondo degli adulti. [...] Lo spartiacque è destinato a cedere con precisione rituale quando di regola, in seguito al consueto passaparola tra ragazzini in finto regime di clandestinità, un fratello o un cugino maggiore si fanno portatori di una rivelazione – “Babbo Natale non esiste” – che ha per il destinatario un effetto traumatico e riempie il mittente di crudele soddisfazione. L’attraversamento di Babbo Natale acquista in questo modo tutti i crismi di una prova iniziatica. Da una parte dà ai novelli iniziati (il fratello, il cugino maggiore) finalmente l’occasione di esercitare – sia pure per interposizione degli adulti – il “potere della conoscenza”. Dall’altra, chi sostiene la prova acquista suo malgrado, al costo di un bruciante disincanto, la prima piccola patente di adultità.

È il "passaparola" che apre lo spartiacque e libera i flussi che si agitano nel sottosuolo, la scialuppa che tiene a galla i bambini sulla superficie increspata è il dialogo. Un dialogo che non deve essere inteso "alla stregua di una conversazione, ma di una forma esistenziale, un modo di stare insieme che cerca di rendere giustizia di tutti gli esseri viventi [...] una sfida continua e senza fine" che richiede "energia, attenzione e impegno continui e rinfocolati nel tempo", e che "ci risveglia comunicandoci che siamo veramente nel mondo - un luogo dove ciò che faccio è importante, dove il mio modo di essere è importante e dove io stesso sono importante" (Biesta, 2016, p. 25). E dove è possibile "un esperire giocoso" in cui fondare il significato "attraverso il discorso dialogico l'un l'altro" (Bitan, 2016).

E fanno la solita strada/Fino al cadavere del grillo/La luna impaurita li guarda passare/E le stelle sono punte di spillo/ [...]/E la neve comincia a cadere/La neve che cadeva sul prato/E in pochi minuti si sparse la voce/Che Babbo Natale era stato ammazzato/Così Dolly del mare profondo/E il figlio del figlio dei fiori/Si danno la mano e ritornano a casa/Tornano a casa dai genitori.

Forse dovremmo tutti sederci in cerchio insieme ai bambini della prima B della scuola Manin per capire come fare anche noi a tornare a casa. Per ritrovare il sentiero antico tracciato da Socrate che, ritenendo di non avere alcuna verità assoluta da insegnare e rifiutandosi, coerentemente, di fissare nella parola scritta il proprio insegnamento, affidava al dialogo il compito di ricercare quella conoscenza che rende gli uomini liberi, ossia capaci di pensare in modo logico, autonomo e critico, oppure schiavi governabili come cose. Socrate credeva che solo attraverso l'esercizio della riflessione, del dubbio e dell'argomentazione, l'uomo potesse sviluppare la capacità di pensare con la propria testa e di "vivere una vita degna di essere vissuta". 

Oggi il suo esempio è centrale nella teoria e nella pratica della tradizione umanistica della tradizione occidentale, e certe sue idee si ritrovano nei modelli pedagogici in India e in altre culture non occidentali. [...] Ma l'ideale socratico si trova sotto duro attacco in un mondo orientato alla massimizzazione della crescita economica. La capacità di pensare e argomentare da sé appare a molti superflua, se tutto ciò che vogliamo sono risultati di natura quantificabile in termini commerciali. E poi è difficile valutare la capacità socratica sulla base di test scolastici standardizzati. [...] Nella misura in cui la ricchezza personale o nazionale è l'obiettivo dei programmi di studio, le capacità socratiche rischiano di non essere sviluppate (Nussbaum, 2011, pp. 65-66).

Il rischio che corriamo, dimenticando qual è il compito della scuola, è di tradire noi stessi, come collettività. La scuola, anche se è "soltanto una delle tante fonti che influenzano le menti e i cuori dei bambini", ha però il potere, attraverso i principi e le scelte pedagogiche, di stimolare l'intelligenza dei bambini e dei ragazzi perché diventi "attiva, competente e responsabilmente critica verso le complessità del mondo" (Nussbaum, 2011). Tutte qualità fondamentali per i cittadini di un mondo democratico, perché, ed era questo il chiodo fisso di Socrate, le persone che non sanno ragionare e vivono in balia di false convinzioni "sono fin troppo facilmente influenzabili":

Quando un abile demagogo si rivolse agli ateniesi con un'appassionata retorica, ma cattivi argomenti, essi furono subito disposti ad acclamarlo, senza valutare bene cosa volesse dire. Poi furono facilmente influenzati nella direzione opposta, senza mai capire davvero il senso della loro scelta [...]. Sotto l'influenza del demagogo Cleone, che parla loro di onore tradito, i cittadini in assemblea votano per l'uccisione di tutti gli uomini di Mitilene e la riduzione in schiavitù di donne e bambini. La città invia una nave per consegnare questo ordine. Poi un altro oratore, Diodoto, calma il popolo e invoca la grazia. Persuasa, la città vota contro il primo ordine e invia un'altra nave per fermare la prima. Per puro caso, la prima nave ha avuto dei problemi in mare e così la seconda riesce a raggiungerla. Dunque, tante vite, e una questione politica di tale importanza, furono lasciate al caso piuttosto che a un dibattito ponderato (Nussbaum, 2011, pp. 67-8).

"Noi siamo un dialogo", dice Giovanni Stanghellini, un titolo in cui è racchiusa

la formula antropologica della salute mentale [...], una formula che racchiude, al suo interno, e nel suo essere “tra”, la possibilità e la necessità di un continuo dialogo vitale, mai saturo e definitivo, con l’alterità che abita in primis il nostro interno. Con quell’alterità che, da Freud ad Husserl, da Rimbaud a Ricoeur, da Cargnello a Levinas, sono io stesso, prima di essere l’altro da noi. È in questo scambio interno/esterno, inter/intra, proprio/altrui, che si gioca la possibilità di dare senso a quel surplus che sempre appare, irriducibile e indomabile, a ricordarci la non esauribilità dell’essere umano e del suo mondo. [....] Si comprende bene così, come l’incontro con l’alterità, la possibilità di dialogo con l’alterità propria o altrui siano, per dirla con Callieri, rischio e scommessa, possibilità di arricchimento senza fine e allo stesso tempo di crisi e vero e proprio naufragio esistenziale (Di Petta e Colavero, 2018).

Nel titolo del libro di Stanghellini riecheggia un verso di una poesia incompiuta di Johann Christian Friedrich Hölderlin: "Molto ha esperito l’uomo./ Molti celesti ha nominato,/ da quando siamo un colloquio/ e possiamo ascoltarci l’un l’altro." Il colloquio è "il parlare insieme di qualcosa", scrive Martin Heidegger (1988, p. 47):

è in tal modo che il parlare rende possibile l'incontro. Ma Hölderlin dice: "da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l'un l'altro". Il poter ascoltare non è una conseguenza che derivi dal parlare insieme, ma ne è piuttosto, al contrario, il presupposto. Ma anche il poter ascoltare è in sé a sua volta orientato in relazione alla possibilità della parola e di essa ha bisogno. Poter discorrere e poter ascoltare sono cooriginari. Noi siamo un colloquio e questo vuol dire: possiamo ascoltarci l'un l'altro. Noi siamo un colloquio, il che significa al contempo, sempre: noi siamo un [solo] colloquio. Ma l'unità di un colloquio consiste nel fatto che di volta in volta nella parola essenziale  è manifesto  quell'uno e medesimo su cui ci troviamo uniti, sul fondamento del quale siamo uniti e siamo quindi autenticamente noi stessi, Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci. [...] Un colloquio noi lo siamo dal tempo in cui "vi è il tempo".

È attraverso il colloquio che si sviluppa in noi la capacità di "immaginare come ci si sente nei panni di una persona diversa da sé e [...] di comprendere le emozioni, i desideri e le speranze che una certa persona potrebbe custodire" (Nussbaum, 2011). Quelle capacità che Marta C. Nussbaum immagina debba possedere il perfetto cittadino di un mondo che per sopravvivere ha bisogno di esseri umani responsabili e consapevoli del rapporto di interdipendenza che intercorre tra tutte le forme di vita che abitano il nostro pianeta. Persone in grado di esprimere ciò che sentono e pensano e di riconoscersi negli altri, di mettersi, sullo stesso piano, a confronto con gli altri, e di sviluppare in questo modo quell'attitudine introspettiva che è alla base della capacità di riflettere e ragionare con la propria testa, con spirito critico e non gregario.

Sono esattamente le stesse capacità che Stanghellini ritiene necessarie per gli psichiatri e gli psicologi clinici, in quanto

cittadini allenati a confrontarsi con la vulnerabilità umana, con l’evidenza della nostra animalità e della nostra razionalità fragile, con le ansie della nostra condizione mortale, con i dilemmi dell’autonomia della autorità e i conflitti dell’esclusione e dell’inclusione, e in generale con l’incontro con l’alterità che caratterizza la vita umana (Di Petta e Colavero, 2018).

Una descrizione appropriata anche per gli insegnanti che hanno il compito di contribuire alla costruzione di una “società psicologicamente matura” secondo la definizione che, come ci ricorda Simone Bruschetta, ne dà Donald Winnicot nel 1950, sostenendo la necessità di un dialogo tra le discipline psicologiche e quelle sociologiche in merito allo sviluppo culturale delle comunità politiche:

Secondo lo psicoanalista inglese questo tipo di “società psicologicamente matura”, consente lo sviluppo non soltanto dei propri membri, ma anche della propria organizzazione politica, ed è caratterizzata essenzialmente da una qualità, affine al concetto di maturità emotiva dei singoli individui che ne fanno parte: la qualità democratica. Nel famoso saggio «Alcune considerazioni sul significato della parola democrazia», scritto nel 1950 per la rivista Human Relations egli riporta a proposito la seguente definizione: “una società democratica è una società bene adattata alle parti sane dei propri membri (Bruschetta, 2018).

Tornando quindi alla domanda di partenza, "a cosa serve la scuola": il suo compito è quello di educare, ossia, secondo la definizione dell'Enciclopedia Treccani, "promuovere con l’insegnamento e con l’esempio lo sviluppo delle facoltà intellettuali, estetiche, e delle qualità morali di una persona, spec. di giovane età". Una definizione che risolve il binomio educazione-istruzione a vantaggio della prima parola, dalla quale l'altra dipende. È per questo che il ragionamento sulla scuola deve essere centrato sull'educazione e sulla direzione verso cui essa deve tendere, non sulla standardizzazione fine a se stessa delle procedure e dei processi, né tantomeno su questioni che non le competono come il mercato del lavoro o la meritocrazia che è, come scrive Vittorio Pelligra, "una distopia. Nel senso più stretto ed etimologico del termine". Un mito che offre legittimazione morale alla diseguaglianza, per liberare una società ingiusta anche dal senso di colpa.

Occorre, invece, liberare la scuola dai ragionamenti capziosi, e mettere a fuoco il suo scopo, ossia lo sviluppo di quel tipo di capacità umane che rende possibile la sopravvivenza del tipo di mondo in cui vogliamo vivere. "Parliamo di scuola", dice Chiarello,

anche come luogo fisico dove nonostante la complessità tutto è possibile, e dove forse i bambini si sentono liberi di esprimersi. Però poi finito quel momento magico di fatto c’è da chiedersi se la società è pronta ad accogliere questo cerchio e a dargli una continuità. Conoscendo bene questi ragazzini e avendo una relazione con loro in qualche modo mi rendo conto che l’uscita dal mondo dell’infanzia è molto più difficile. Ad attenderci non c’è un cerchio che ci rende tutti uguali. Questo mi ha accresciuta, cambiata in meglio anche come adulta nella consapevolezza di fare parte di una comunità educante. In quest’ultimo caso non solo in quanto genitore, ma proprio per la postura che decidi di avere: anche come regista, perché Il cerchio mi ha fatto capire dove ho voglia di andare. Per questo motivo ho cercato di ascoltarmi il più possibile (Cerofolini, 2023).

"La postura" che assumiamo a scuola dipende dalla direzione che scegliamo di seguire, in prospettiva del futuro che ci appare desiderabile, in un'ottica collettiva. Il resto viene da sé, come racconta una bambina, nel film: "mi è piaciuto scrivere con il quaderno a righe, perché senti quella sensazione che il quaderno ti dica quello che devi fare. Il quaderno ti dice: scrivi". Un percorso semplice e naturale, come il dialogo che scaturisce dalle domande e e mette in moto il desiderio di conoscere e imparare: scrivendo sui cartelloni, giocando a dama, saltando la corda, mettendo i numeri in colonna per fare le addizioni. Sentendosi parte di un gruppo che pensa e si interroga: su cosa significhi migrare, su cosa voglia dire "raccogliere" oppure cacciare la gente che arriva nel nostro paese, su cosa significhi essere felici, innamorarsi, separarsi, lavorare, ragionando sulle cose che capitano intorno a noi, come l'arresto del sindaco di Riace che ospitava i migranti. Gli adulti, in aula (la maestra, la regista), non dicono ai bambini cosa pensano (cioè cosa è giusto pensare): domandano, ascoltano. Parlano il minimo indispensabile, perché "nel silenzio come disposizione accorta e attenta", scrive Rita Casadei, "è possibile vigilare sul rischio di scadere nella tendenza a considerare l’altro a partire da esclusive e proprie categorie, nel cui solco egli potrà essere conosciuto solo come oggetto e non come soggetto di autoconoscenza" (Casadei, 2021). È in questo modo che si creano le condizioni per un dialogo in cui, come dice Walter Omar Kohan, "le domande non sono di proprietà di nessuno, l’esercizio di pensiero è ciò che accomuna". Ciò che dà avvio all'esercizio del pensiero è il gesto semplice (e quindi difficile, perché richiede consapevolezza, preparazione e metodo) che interrompe "quello che deve essere fatto per fare quello che sentiamo che vada fatto: affermare la vita, la gioia, la comunità, il bisogno di cercare una vita diversa da quella che ci impongono ogni giorno" (Kohan, 2018). In una logica secondo la quale educare non è questione di trasferire conoscenze, ma di tenere in vita quel processo di educazione emancipatrice di cui parla Jacques Rancière.

Forse è (anche) questa la scuola ideale di cui Gaia Giani va alla ricerca nel suo documentario La zona oscura - L’età bambina in cui racconta la storia della Casa dei bambini fondata a Milano da Jole Ruglioni che ha chiuso i battenti dopo 40 anni di attività. Poco importa che la scuola continui a vivere altrove, le immagini di Giani "rifioriscono attraverso i ricordi", intrise di nostalgia per un passato in cui: "nulla è più quel che era". Anche nel film di Chiarello avvertiamo un sentimento di nostalgia ma di un tipo diverso, potremmo chiamarla, prendendo in prestito una battuta di Luigi Nono, "nostalgia del futuro": la scuola Manin è una scuola reale, imperfetta come tutte le cose reali, ma viva e attuale, in cui i bambini sperimentano se stessi come parte di una collettività alla quale però, una volta usciti da lì, non potranno fare ritorno. "Le immagini del film" dice Chiarello "ci restituiscono la sensazione del paradiso perduto ed è come se i bambini ci dicessero che da soli non si va da nessuna parte":

Mi sto inoltrando in sentieri che forse c’entrano poco con il cinema ma mi piacerebbe sapere che l’ascensore sociale esiste. La realtà mi dice che non è così ma poi penso a quanto sia importante per questi bambini aver attraversato questa esperienza per la possibilità di poter attingere alle tracce che questa ha lasciato in loro (Cerofolini, 2023).

Sono tracce di un sentiero luminoso che procede verso l'ignoto, nella speranza che i lumini disseminati lungo la via riescano a gettare i loro bagliori sul mondo sbagliato (parafrasando Mario Lodi), che i bambini troveranno ad attenderli fuori dalla scuola. La cinepresa di Chiarello registra le parole, i giochi, i cartelloni colorati, le crepe sui muri, il cortile bagnato dalla pioggia, la bandiera sfilacciata. All'uscita dal cinema, dopo aver visto il film, e il giorno dopo, quando tornavo a pensarci, mi risuonava nella testa la voce cantilenante di Bruno Ganz (nella versione italiana è quella di Riccardo Cucciolla): "quando il bambino era bambino, se ne andava a braccia appese, voleva che il ruscello fosse un fiume, il fiume un torrente e questa pozza il mare". Sono i primi versi di Elogio dell'infanzia, la poesia di Peter Handke con cui si apre Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. Nel film c'è una città distrutta dalla guerra e divisa da un muro, ci sono esseri umani perennemente assorti in dolorosi monologhi interiori, ci sono angeli che non potendo interferire con le vite degli uomini annotano sui taccuini i loro pensieri, e ci sono bambini, gli unici in grado di vedere gli angeli, e gli unici

a potersi permettere di guardare direttamente in macchina, verso la soggettiva perenne degli angeli, mentre tutti gli altri personaggi devono conservare sguardi le cui direttive sono perse ai limiti delle inquadrature verso un altrove mai chiaro. Solo rimanendo un po’ bambini nel cuore, c’è la possibilità di superare il senso di angoscia di una propria perdita di individualità perché [...] i bambini non hanno ancora imparato la differenza tra «io» e «te», solo per loro il mondo è un flusso unitario che non riesce ad ammettere reali confini tra sé e l’altro (Spagnoletti, 2019).

Nel film c'è un vecchio che vaga per la città in cerca della Potsdamer Platz, senza riuscire a trovarla, è Homer, il cantore dell'umanità, ormai stanco e sperduto, perché, come scriveva Walter Benjamin (1995, pp. 247-248),

l'arte del narrare si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado di incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve [...]. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze. Una causa del fenomeno è evidente: le azioni dell'esperienza sono cadute. E si direbbe che continuano a cadere senza fondo. Ogni occhiata al giornale ci rivela che essa è caduta ancora più in basso, che non solo l'immagine del mondo esterno, ma anche quella del mondo morale ha subito da un giorno all'altro trasformazioni che non avremmo mai ritenuto possibili.

L'angelo Damiel incontra Homer mentre, appoggiandosi al bastone, sale le scale della Staatsbibliothek, uno spazio enorme, privo di muri e pareti, solo tavoli, scaffali pieni di libri e scale, in cui gli angeli si riuniscono per ascoltare i pensieri dei lettori. Attraverso Damiel ascoltiamo i suoi pensieri:

Narra, Musa, del narratore, l'antico bambino, gettato ai confini del mondo, e fa che in lui ognuno si riconosca. Col tempo, quelli che m'ascoltavano sono divenuti miei lettori e non siedono più in circolo, ma ognuno per sé e nessuno sa nulla dell'altro. Io sono un vecchio con la voce stridula. Ma il racconto si leva ancora dal profondo, e la bocca, lievemente aperta, lo ripete con forza e facilità, una liturgia dove nessuno va iniziato al senso delle parole e delle frasi (Handke, 1987).

È per queste ragioni che è importante che Il cerchio di Sophie Chiarello abbia vinto quest'anno il David di Donatello come miglior documentario, perché ci mostra una scuola che non si dà per vinta e che, al riparo dalla retorica, coltiva quotidianamente uno spazio di condivisione, di democrazia e di pace. E perché, con "la macchina da presa ad altezza di bambino", senza filtri né tesi pregresse, ci fa entrare nel mondo di queste persone piccole, "con piccole mani e piccoli piedi e piccole orecchie ma non per questo con idee piccole", per usare l'immagine di Beatrice Alemagna, in cui è necessario che ci riconosciamo. Come scrive Wim Wenders (1992),

se perderemo tutto ciò che è piccolo smarriremo anche la nostra capacità di orientarci, cadremo vittima delle grandi dimensioni, di ciò che è inafferrabile, onnipotente. Dobbiamo batterci per conservare tutto ciò che è di piccole dimensioni, che conferisce alle grandi cose una visuale, una prospettiva.

Riferimenti bibliografici

Alemagna B., Che cos'è un bambino, Topipittori, Milano 2008.

Benjamin W., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1995.

Biesta G. J. J., Riscoprire l'insegnamento, Raffaello Cortina, Milano 2022.

Bitan S., Winnicot e Derrida, la logica del gioco, in "L'annata psicoanalitica Internazionale (The International Journal of Psychoanalysis)", 8, 2016.

Bruschetta S., Il fattore democrazia nei Servizi di Salute Mentale delle società postmoderne, in "Nuova rassegna di studi psichiatrici", 17, 2018, url: www.nuovarassegnastudipsichiatrici.it/volume-17/fattore-democrazia-servizi-salute-mentale-societa-postmoderne.

Casadei R., Il potere trasformativo del silenzio come matrice di dialogo tra pensiero, parola e azione, in "Studium Educationis", XXII, 2021,  url: ojs.pensamultimedia.it/index.php/studium.

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Gaia Colombo
Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l'Università degli Studi di Palermo, si è occupata di formazione degli adulti presso enti pubblici e privati e di Management didattico per l'Università degli studi di Palermo e per la Crui (Conferenza dei Rettori Italiani). Dal 2007 insegna nella scuola primaria, nell'anno in corso ha tenuto un laboratorio di didattica della scrittura presso il Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria della LUMSA, sede di Palermo.