Finzioni. Pratiche di scrittura e arti performative per fare e raccontare la ricerca | Fictions: Writing Practices and Performing Arts to Craft and Narrate Research

Doi: 10.5281/zenodo.14600443 | PDF

Educazione Aperta 17 / 2024

Cornici epistemologiche

A metà degli anni Ottanta Writing Cultures. The Poetics and Politics of Ethnography, curato da James Clifford e George Marcus, mise in luce una critica radicale nei confronti del discorso accademico dell’etnografia, rivelando la pratica di scrittura, così come l’azione empirica di indagine, nella sua veste di mise en scène della ricerca sul campo[1]. La “crisi antropologica”, così come ad una più generale “crisi disciplinare”, si intrecciava in quegli anni con la passione agli approcci interdisciplinari che si era diffusa nelle scienze sociali e nelle discipline umanistiche. Studiosi come Michel Foucault e Roland Barthes (Clifford ne avrebbe usato la citazione seguente in epigrafe) avevano spinto nella direzione di un “lavoro interdisciplinare” inteso non come

un confronto tra discipline già costituite (nessuna delle quali in fondo è disposta a lasciarsi andare). Per fare qualcosa di interdisciplinare non basta scegliere un “soggetto” (un tema) e raccogliervi attorno due o tre scienze. L'interdisciplinarietà consiste nel creare un nuovo oggetto che non appartiene a nessuno (Barthes, 1972, p. 3).

Furono proprio le collaborazioni e le alleanze tra studiosi di diverse discipline che contribuirono alla profonda messa in discussione dei discorsi e delle cornici disciplinari (Giorgi, Pizzolati e Vacchelli, 2023). Ne emerse la caratteristica fondamentale di essere “finzioni”, “senza più alcuna connotazione di falsità, o di qualcosa semplicemente opposto alla verità”, ma piuttosto

nel senso di “qualcosa che è stato fatto o formato”, senso che costituisce il nucleo della radice latina, fingere. Ma insieme al significato di “fare” deve essere mantenuto anche quello di “inventare”, creare cose che non sono propriamente vere (fingere, in alcune sue accezioni, implicava una componente di falsità) (Clifford, 1986, p. 31).

Anche le più scrupolose finzioni sono, dunque, sistemi o economie di verità. “Il potere e la storia lavorano attraverso di loro in forme che gli autori non possono controllare completamente” (ivi, p. 32).

Nel ventesimo secolo anche le scienze del linguaggio hanno evidenziato come elementi eterogenei confluiscano nella comunicazione, rendendola irrimediabilmente imperfetta e condizionata dal contesto. Il superamento di una concezione tradizionale del linguaggio, funzionale alla sola descrizione di possibili stati del mondo, portava a considerarne innumerevoli tipi differenti di impiego. Ludwig Wittgenstein aveva già individuato nella prima metà del Novecento come “la comprensione consist[a] nel fatto che noi ‘vediamo connessioni’” (1999, p. 69). Gregory Bateson, tra gli altri, riprese negli anni Ottanta il rapporto necessario tra intelligibilità e ipotesi di connessioni, arrivando alla conclusione che “una descrizione pura comprenderebbe tutti i fatti [...] immanenti nei fenomeni da descrivere, ma non indicherebbe alcun genere di connessione tra questi fenomeni” (1988, p. 112). Se ci fosse, dunque, una totale comunanza di esperienze, una perfetta intercomprensione, la stessa comunicazione non avrebbe senso per il semplice fatto che non ci sarebbe più niente da comunicare. Il carattere poietico e poetico della scrittura è, dunque, parte stessa degli imperfetti processi comunicativi umani.

Questa confluenza di conversioni epistemologiche ha influenzato anche la pedagogia: l’approccio problematicista, il pensiero fenomenologico, la prospettiva critica, il paradigma ecologico, l’indirizzo partecipativo sono fra i principali orientamenti epistemici che caratterizzano le scienze dell’educazione attuali. L’indagine etnografica, anche nelle sue forme visuali e multi-vocali (Bove, 2009), è entrata a far parte di uno spettro più ampio di metodologie di ricerca in ambito pedagogico, ereditando i presupposti del linguistic turn, nutriti di soggettività, riflessività e interdisciplinarietà. Le teorie e le tecniche della narrazione hanno assunto diverse modalità di esecuzione, prima in modalità sperimentali, oggi in morfologie di tradizione innovativa. Nella pedagogia clinica, ad esempio, l’autobiografia è maturata come strumento di formazione (Demetrio, 2008) e le pratiche di scrittura sono state poste al centro di un educare “indicibile eppur narrabile” che mette alla prova i ricercatori e gli educatori come “cercatori di storie” (Biffi, 2010, 2014). Nel versante della didattica democratica, le forme cooperative di scrittura rappresentano uno dei principali dispositivi di produzione di un patrimonio immediatamente riconoscibile nel panorama italiano: basti pensare a Lettera ad una professoressa, a Cipì, ma anche a Una torta in cielo, fino al più recente testo collettivo nato nella classe III M dell’Istituto “Edoardo Amaldi” di Roma, Lettera alla scuola.

Scrivere per lavoro, scrivere con gli altri

Pensare alla scrittura come spazio di riflessività e di co-produzione di conoscenza significa avviare un processo di cambiamento nelle proprie pratiche lavorative[1]. Sia che si tratti dell’ambito accademico che di quello del lavoro sociale, di cura ed educativo, i tempi sempre più frenetici e la proiezione verso la produzione continua spingono verso un lavoro solitario o, comunque, mono-disciplinare. Se è vero, infatti, che nel mondo degli operatori sociali i richiami alla co-progettazione (e quindi a un tipo di scrittura condivisa) sono ormai frequenti e ripetuti, di fatto, questa modalità di azione non è fattivamente realizzata insieme dai diversi attori sociali: singoli, rappresentanti di gruppi, di enti pubblici e del privato sociale.

Quando si tratta di scritture professionali collettive, in molti casi c’è qualcuno che ha le idee chiare su una idea e che si assume l’onere di coordinare il gruppo di esperti o di coloro che hanno una maggiore dimestichezza con la scrittura progettuale. Dopo un primo incontro, di solito, ci si distribuisce i compiti così da poter mettere insieme le varie parti in maniera armonica. Alla fine il puzzle progettuale sarà composto senza necessariamente essere stato “manipolato” contestualmente da tutti i co-autori. Questa modalità di lavoro, che un po' ridimensiona le potenzialità della co-progettazione, non è da ricondurre necessariamente alla mancanza di voglia di lavorare insieme. Spesso i tempi brevi, le condizioni e i vincoli di quello specifico compito di scrittura, la necessità di usare i ritagli del tempo del lavoro ordinario non aiutano a far sì che scrivere sia una pratica collaborativa di tipo collettivo (Hart, 2000). Elaborare un testo insieme implica, infatti, un tempo e uno spazio da dedicare in maniera specifica, prevede una impostazione di lavoro in cui le persone in sincrono ragionano sui nodi da sciogliere e poi in asincrono intervengono sul testo degli altri, propongono modifiche e suggeriscono cambiamenti. Per proporre modifiche sui testi degli altri serve un buon clima di lavoro oltre al possesso di abilità comunicative e relazionali da parte di coloro che condividono il “foglio di carta”.

Lo stesso vale per i ricercatori universitari. In alcuni campi disciplinari le pratiche di scrittura collaborativa sono più diffuse e di routine: pensiamo alle STEM e agli ambiti in cui gli articoli a più nomi sono considerati come prassi da tempo. In altri, invece, come quelli delle scienze sociali e pedagogiche, i lavori di scrittura collettiva sono meno frequenti anche se, negli ultimi anni, stanno aumentando. Da un lato sono sempre di più i ricercatori di diverse discipline che decidono di lavorare insieme ad uno stesso progetto di ricerca e questo genera maggiore possibilità di cross-pollination (Dhand et al., 2016). Ne deriva che l’iniziativa di costruire una scrittura condivisa sia quasi una evoluzione naturale del lavoro condiviso. Dall’altro lato, aumenta anche il numero delle esperienze di ricerca partecipativa in cui sono coinvolti, a vario titolo, e in varie fasi del lavoro di campo, non solo le persone che abitano e vivono i luoghi (quartieri periferici, spazi di frontiera, paesi dell’entroterra) ma anche professionisti delle arti performative come attori, registi, fotografi e videomakers (Tarsia, 2023; 2024; Tarsia e Nucita, 2024). Operatori sociali, ricercatori di professione e cittadini possono quindi trovarsi a raccontare il proprio lavoro di ricerca e ad usare la scrittura collaborativa per disseminare i risultati del proprio lavoro sul campo. Si tratta di un lavoro faticoso per i professionisti anche se gratificante per certi versi. Questi aspetti e molti altri stanno emergendo anche da un progetto di ricerca intitolato Pratiche co-costruite di scrittura nel lavoro sociale di cui fanno parte Michela Semprebon e Tiziana Tarsia, due delle curatrici di questo numero.

Allo stesso tempo, è necessario chiedersi quali relazioni di potere sono implicate nei gruppi eterogenei che attivano pratiche di co-ricerca e di scrittura condivisa. Si può ipotizzare che il ricercatore, la ricercatrice acquisiscano inevitabilmente, per status, il ruolo di leadership, per un’implicita attribuzione di maggiori conoscenze, e di più alto livello, di spirito di iniziativa e di capacità di gestione dei gruppi. Queste relazioni, che presuppongono diversi livelli e dinamiche reiterate di potere, conducono già anche il processo di scrittura verso un orizzonte di conoscenze che sono predefinite da un solo soggetto – o da una minima parte del gruppo di co-ricerca? Se si prende consapevolezza di questa dimensione come imprescindibile, come si possono costruire processi di scrittura collettiva che si svincolino da questa centratura?

Oltre al tempo e allo spazio dedicato per scrivere insieme nel momento in cui si decide di avventurarsi in questo proposito sorgono diversi problemi che generano tensioni e conflitti che vanno esplorati e gestiti dai co-autori. Stili di scrittura differenti, modi di impostare e articolare il contributo, linguaggio tecnico specifico e un approccio alla scrittura eterogeneo, sono tra quelli più ricorrenti.

Un ruolo importante lo ha anche la scelta della collocazione editoriale: i co-autori saranno portati certamente a riflettere sulla decisione di scrivere un articolo da destinare ad una rivista che segue i canoni scientifici (e anche qui c’è varietà tra le riviste ma anche tra le diverse discipline) o nell’elaborazione di un testo che, ad esempio, non è soggetto a referaggio cieco. Si media la scelta di una collocazione, così come quella delle scelte stilistiche, del registro utilizzato, del linguaggio di una scrittura condivisa che, anche in questo caso, ci si chiede quanto sia influenzata da un discorso dominante, di tipo disciplinare e terminologico. Quanto del processo di scrittura viene sacrificato per rispondere alle cornici entro cui intende collocarsi? E, dunque, ancora una volta torna la questione che si riproduce nelle dinamiche di co-ricerca: quanto si è vincolati dall’intermediazione del punto di vista del ricercatore o della ricercatrice?

Infine, un altro aspetto rilevante è quello dei destinatari. A chi viene rivolta la nostra scrittura condivisa? A chi pensiamo possa interessare? Sarà ad accesso aperto? Chi raggiungerà? Queste alcune delle questioni aperte che i contributi presenti in questo numero della rivista offrono alla discussione dei lettori.

Forme della co-scrittura in primo piano

In questo numero di “Educazione aperta” i diversi piani e le molteplici forme della scrittura si intrecciano con quegli inediti resi possibili dall’interdisciplinarietà e dalla multimodalità. I contributi, seppur diversi tra loro, confluiscono in un prisma di pratiche e forme di restituzione che la ricerca odierna sta ancora sperimentando. Sono traiettorie che riteniamo fondamentale non considerare secondarie, ma portare, appunto, in primo piano.

I primi due articoli della sezione Primopiano, curata da Michela Semprebon, Tiziana Tarsia e Maura Tripi, affrontano i processi e i metaprocessi delle pratiche di scrittura. In particolare, in Intrecci tra Filosofia e scrittura per educare a pensare a scuola di Manuela Muraglia e Milena Masseretti, si presenta la possibilità di attivare ricerca nei bambini e nelle bambine accompagnando le sessioni di philosophy for children con momenti di scrittura creativa e autobiografica, esplorando in segni grafici ulteriori possibilità che permettano il sorgere di nuove domande. In modo complementare all’oralità propria del fare filosofia, la scrittura propone una manovra di avvicinamento differente al pensiero astratto. E amplia, così, la gamma di percorsi di esplorazione che i più giovani possono intraprendere.

Secondo le autrici, l’intreccio tra oralità e scrittura fa affiorare

un anello di congiunzione necessario tra i due elementi [...], interiorità e comunicazione, ovvero la variabile motivazionale, ciò che fa scaturire il desiderio di esprimere, in forme esplicite fruibili da altri, tale mondo interiore, attraverso i diversi canali comunicativi.

Il secondo articolo, “Prove tecniche” di scrittura tra sociologia, teatro sociale e cinema documentario di Mariagiovanna Italia, Mauro Maugeri, Tiziana Tarsia, pone da un lato la questione della scrittura mentre si sta scrivendo, facendo dialogare codici e strutture semiotiche differenti nella produzione collaborativa di un testo comune. Dall’altro lato, mette in campo tre sguardi eterogenei (quello di una sociologa accademica, di un’operatrice di teatro sociale e di un documentarista) in un confronto aperto e incompiuto sulle pratiche e gli strumenti di ricerca partecipativa che adottano nei loro campi di azione professionale.

In questo caso, il testo mostra in maniera esplicita il suo carattere di “finzione”, ricostruendosi e plasmandosi nella forma scritta a partire dall’oralità di un’intervista “a tre” e stressando i canoni della scrittura accademica. Si ritorna sulle numerose affinità che il “lavoro di codifica dei dati ha [...] con il lavoro «letterario»” (Tedeschi, 2008, p. 58), e i co-autori diventano “storyteller” consapevoli e riflessivi alla ricerca di una “buona scrittura” (ivi, pp. 58-59).

Si possono rintracciare più punti di contatto tra i primi due articoli. Innanzitutto, proprio a partire da diverse esperienze di scrittura si può guardare al fare ricerca come ad uno strumento poliedrico le cui sfaccettature guardano tutte al riconoscimento di quel “pensiero debole” che si basa su

sistemi epistemici probabilistici ed ermeneutici, che fanno valere la loro temporanea validità sulla attività interpretativa della mente umana, da parte di una molteplicità di soggetti che discorrono insieme progredendo nella co-costruzione di significati negoziati e condivisi (Muraglia e Masseretti, infra).

Questo vale, in primis, per i bambini e le bambine, che partono dal mondo concreto per approdare alle teorie, alla formulazione astratta della conoscenza. Formulano “ipotesi fantastiche”, come le ha definite Ginzburg (1979, p. 22), mentre procedono nei loro percorsi di indagine.

La formulazione di un’ipotesi, anche la più “scientifica”, comporta un atto preliminare di fantasia che è nello stesso tempo una manifestazione di creatività. Soprattutto nei bambini l’ipotesi fantastica è una forma spontanea di risposta a innumerevoli quesiti che la realtà propone quotidianamente alla loro inesperienza.

Lo stesso si riconosce nelle ricercatrici e nei ricercatori, che implicano la parzialità del loro modo di osservare e procedere nel campo, così come delle loro scritture. Chi indaga con un approccio scientifico, chi fa ricerca attraverso strumenti tecnici e conoscenze scientifiche aggiornate, si trova nella posizione di poter affermare nuove ipotesi non solo nella ricerca sul campo, ma anche nelle forme della scrittura, spingendosi oltre la retorica istituzionalizzata, esplorando le proprie categorie di indagine, le proprie ritualità espressive, producendo sconfinamenti testuali.

Infine, questo legame tra ricerca e creatività, che dà come esito la formulazione di ipotesi, ma anche di atti artigianali, legati al lavoro concreto di scrittura (Clifford, 2005, p. 31), coinvolge i professionisti impegnati in quella “ricerca” che Raffaele Laporta ha definito “debole”, e che porta alla “sperimentazione” nei propri contesti professionali di nuove forme di organizzazione, nuove tecniche che provengono dal mondo della ricerca scientifica (Laporta, 2011, p. 126). Laporta faceva esplicito riferimento agli insegnanti, ma pari discorso è valido anche per gli autori e le autrici di alcuni contributi del numero, che vivono la loro ricerca professionale fuori dall’accademia, ma in costante dialogo con le sue categorie e pratiche conoscitive.

Riconoscere la scrittura scientifica come “finzione” non esaurisce, però, un dibattito costante e aperto tra questa e la narrazione, come evidenzia l’articolo di Roberto Alessandrini, Didascalia e mentalità coloniale: la complessità divulgativa di un testo breve. Il contributo non solo riprende la tensione permanente tra le categorie e i formati della letteratura e della scrittura scientifica, ma esplora la complessità del rapporto tra le immagini fotografiche, che raccontano la realtà in modo mai neutro, e la scelta delle parole di una forma specifica di scrittura scientifica, la didascalia. Questa tipologia di testo, seppur considerato un elemento “periferico” e caratterizzato da brevità, costruisce coppie semiotiche testo-immagine ricolme di impliciti culturali, definisce topoi collettivamente riconoscibili – come nel caso della segnaletica criminale – ma soprattutto rende in forma grafica l’immaginario coloniale che ispira le composizioni visuali negli occhi del fotografo, e che vincola le possibili letture di chi osserva una fotografia, per esempio esposta in un museo. Il potere delle parole si intreccia così con il potere delle immagini, a comporre prodotti culturali e narrazioni che necessitano di “una revisione critica [...], privilegiando l’emersione di punti di vista conflittuali, e delle fratture della storia, piuttosto che un racconto lineare e pacificato” (Grechi, 2018, cit. in Alessandrini, infra).

Gli ultimi due articoli della sezione Primopiano guardano ai meccanismi di autorappresentazione e rappresentazione multimodale, attraverso gli strumenti audiovisivi e le azioni performative. In particolare, l’articolo di Ignacio Gabriel San Martín Araya, Larissa Raiza Costa Carneiro, Maria Fernanda Monteiro Favacho e Mayara Feitosa Teodoro, Por uma antropologia da aproximação: o uso das fotografias e imagens em movimento como uma práxis antropológica revolucionária, esplora la fotografia e le immagini in movimento come pratica decoloniale di ricerca e di narrazione scientifica, in linea con l’etnobiografia e l’osservazione partecipante. Si afferma una ricerca antropologica visuale che rompe con le forme tradizionali di raccolta e manipolazione dei dati e di resoconto scritto dei risultati. Una ricerca che genera forme pubbliche di condivisione dei materiali culturali prodotti: in questo caso, le “finzioni” sono riconosciute in quanto tali, nella loro capacità narrativa, emotiva, soggettiva. Vengono inserite in mostre multimediali e multisensoriali, in cui immagini, suoni e scrittura si combinano, portando in primo piano le contro-narrazioni e tutte le soggettività coinvolte, sia quelle che portano avanti una ricerca attivista, sia quelle che vengono rappresentate e si autorappresentano nei prodotti multimediali.

In modo parallelo, l’ultimo articolo Tana libera tutti! Trasformare le narrazioni intorno ai disturbi della nutrizione e alimentazione, di Antonella Cuppari e Silvia Luraschi, ingaggia un lavoro in cui la multimodalità contribuisce a costruire contro-narrazioni su un aspetto biografico denso di stereotipi e pregiudizi, nonché di silenzi e dissidi invisibili: i disturbi della nutrizione e alimentazione. Ci sono diversi punti di contatto che tessono un interessante filo rosso tra questi ultimi due contributi, pur nella loro profonda diversità. Il lavoro di ricerca parte dall’incidenza di un vissuto autobiografico di entrambe le autrici, che in questo caso viene elaborato in forme di pratiche di scrittura auto-etnografica e di riscrittura duoetnografica. Da questa fase, le ricercatrici hanno individuato la necessità di disvelare gli effetti del discorso dominante, medicalizzato e patologizzante, sulle biografie individuali e sui corpi, spostandosi su una dimensione interindividuale e relazionale, in cui si possa attuare un passaggio da un elemento che non viene legittimato e viene letto come “disturbo” alla

“svolta performativa” (performative turn) nella ricerca etnografica [che] nasce dalla consapevolezza dell’esistenza di un doppio limite che vede da un lato voci incorporee (bodiless voices) nella scrittura etnografica e, dall’altro, corpi senza voce (voiceless bodies) che desiderano resistere ai poteri colonizzanti del discorso (Langallier, 1999, cit. in Cuppari e Luraschi, infra).

La metodologia art-based innesca così, attraverso la realizzazione di una video-performance, una ri-collocazione e ri-significazione dei corpi, che diventano corpi capaci, ma anche delle parole, per nuove possibili narrazioni.

Altre scritture, altre voci

Il primo articolo della sezione Esperienze e studi riallaccia un filo teso a partire dai due numeri precedenti della rivista: il 15 su I musei come spazi del sapere sensibile e eco-logico e il 16 su Saperi afro-indigeni e curricolo interculturale. Diogo Jorge de Melo, Gisele Nascimento Barroso, Marcos Henrique de Oliveira Zanotti Rosi, Ramon Augusto Teobaldo Alcantara e Jenifer Miranda Blanco esplorano le pratiche di educazione museale promosse dal Museo Virtuale Surrupira, soffermandosi principalmente su due esperienze caratterizzate dalla produzione partecipativa di audiovisivi. Il Museo Virtuale Surrupira è un progetto di terza missione dell’Università Federale del Pará (Brasile) che, in un contesto segnato dal razzismo strutturale, mette al centro saperi, forme mitopoietiche e immaginari afrodiasporici e indigeni legati in particolare all’Amazzonia brasiliana, approfondendone figure chiave (ad esempio gli/le encantados/as) e creando percorsi collaborativi con i loro luoghi di produzione e trasmissione (ad esempio, i terreiros). Il Museo Virtuale Surrupira, pertanto, si configura come uno spazio di sperimentazione sociomuseale che dialoga con l’educazione popolare e decoloniale.

Monica Dati ripercorre la convergenza fra la mobilitazione didattica sorta attorno alle 150 ore per il diritto allo studio (1973) e le questioni che due anni dopo trovarono spazio nelle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica del Giscel e furono sollevate in particolare da Tullio De Mauro. L’istituto contrattuale delle 150 ore fu frutto rappresentativo di una stagione di protagonismo politico del sindacato e si sintonizzò con il fermento pedagogico degli anni Settanta. Anni di riflessioni sul rapporto fra scuola e stratificazione sociale, partecipazione culturale e politica delle classi popolari, lingua e dialetti, innovazione didattica e organizzazione degli insegnanti, mobilitazione pedagogica e soggettività operaie trovarono un inedito terreno di pratica.

Angela Arsena, attingendo dal bacino dell’antropologia dei media, impasta l’ambito dei media education con i temi del più recente femminismo digitale, per scuotere le coscienze riguardo alla non neutralità dei sistemi di informazione e i mezzi di codifica virtuali, troppo spesso considerati come entità dissociate dalla realtà. L’autrice auspica un'intelligenza artificiale etica che eviti di riprodurre le discriminazioni di genere nei meccanismi dell’automatismo informatico.

Dei risvolti dell’Intelligenza Artificiale in campo educativo si occupa anche Lara Balleri presentando un esperimento in cui analizza la tecnica letteraria dell’autobiografia facendola specchiare con il suo doppio virtuale, un'autobiografia generata da Chat GPT al fine di indagare l’eventuale impatto dell’I.A. in percorsi di riflessione personale, dell’esplorazione del sé, della costruzione dell’identità e in altri ambiti terapeutici che hanno sempre fatto ricorso all’autobiografia come tecnica privilegiata. Dall’analisi di un corpus di 173 testi autobiografici attraverso la Grounded Theory emergono i temi narrativi emergenti con i quali viene messa alla prova la capacità dell’I.A. di riflettere su sé stessa, di generare contenuti e spazi di riflessione.

Infine, l’articolo di Christine Sidonie Ngo Bayiha ci proietta al prossimo numero, in uscita durante l’estate 2025, dedicato alle attuali prospettive critiche dell’educazione antirazzista. Il contributo è incentrato sulla pluridirezionalità educativa in un contesto interculturale e muove le mosse da un’indagine condotta con professionisti dell’educazione impegnati in comunità per Minori stranieri non accompagnati (Msna), localizzate nel territorio calabrese. Dopo una contestualizzazione della legislazione italiana relativa ai Msna, l’autrice analizza, sulle base delle interviste raccolte, quattro aspetti centrali della relazione educativa: la dimensione emotivo-affettiva, l’incontro con l’alterità, l’approccio multidisciplinare e l’orizzonte della trasformazione sociale. Quindi alla luce della filosofia dell’Ubuntu e delle proposte politico-pedagogiche di Danilo Dolci e Gayatri Spivak, elabora delle riflessioni orientate a potenziare l’incontro interculturale in chiave di reciprocità, valorizzandone il carattere emancipatorio e trasformativo.

Per la rubrica Voci, echi e dialoghi segnaliamo tre letture che dialogano con i temi del numero: Maria Domenica Licata Caruso sulla Philosophy for Children a partire dagli Esercizi di distrazione da ciò che sappiamo di Rosaria Parri; Maura Tripi sulle pratiche attive e performative nell’educazione degli adulti documentate in un collettaneo a cura di Tiziana Tesauro e Anna Milione; Francesca Adamo sui percorsi di body percussion per il primo ciclo presentati in un libro recente da Eliana Danzì. Infine, quasi a consuntivo di una stagione cinematografica particolarmente ricca, Carlo Ridolfi si sofferma su tre pellicole, uscite in Italia nel 2024, che portano la macchina da presa in ambiente scolastico (finzionale ma non scontato, nel caso di La sala professori) o toccano in modi diversamente spiazzanti per l’immaginario comune (è il caso della storicità della Montessori medico emancipazionista o del maestro freinetiano Benaiges) temi della storia educativa del Novecento.

Riferimenti bibliografici

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Note

[1]  Il contributo è stato redatto da Maura Tripi, fatta eccezione per la stesura del secondo paragrafo curata da Tiziana Tarsia.

Le curatrici del Primopiano

Michela Semprebon è professoressa associata in Sociologia generale presso il dipartimento di Giurisprudenza, studi politici e internazionali dell’Università di Parma. I suoi interessi di ricerca riguardano le politiche locali di inclusione dei migranti, la tutela legale dei minori stranieri non accompagnati, la sociologia della cura e il caregiving. Tiziana Tarsia è professoressa associata di sociologia presso il dipartimento Cospecs dell’Università di Messina, dove insegna anche Ricerca sociale in contesti formativi e socio-educativi. Tra i suoi temi di interesse: il lavoro sociale, analisi delle pratiche sociali e uso di strumenti di ricerca partecipativa e creativa nell’ambito di contesti “di vulnerabilità”, migrazioni e servizi sociali. Maura Tripi è docente a contratto di Pedagogia generale e dell’infanzia nel corso di Scienze della formazione primaria dell’università LUMSA, Palermo. Le sue ricerche sono orientate su temi di pedagogia interculturale e sulla prima infanzia in contesti di povertà educativa. È co-fondatrice del Centro educativo interculturale Casa officina di Palermo e fa parte della segreteria nazionale del Movimento di Cooperazione Educativa.