Editoriale

Educazione Aperta 17 / 2024

Il Primopiano di questo numero 17 riguarda la scrittura, qui intesa come pratica da problematizzare nell’ambito dei processi di produzione della conoscenza. Tiziana Tarsia e Maura Tripi, che lo hanno curato con Michela Semprebon, presenteranno nella loro introduzione i singoli contributi e i contenuti dell’intero numero. Con questo editoriale vogliamo richiamare il nesso fra le pratiche di scrittura a cui ci riferiamo e il principio per cui la conoscenza si costruisce intersoggettivamente e le persone possono tutte legittimamente contribuire alla co-produzione di sapere. Nel caso della conoscenza scientifica, questo assunto può impegnarci a misurarci con esercizi di scrittura che debordano da un linguaggio e da una metrica più tradizionali. Allo stesso tempo però permettono, al pari di stili maggiormente riconosciuti dalle comunità accademiche, di formalizzare e valorizzare il metodo usato e il materiale empirico qualitativo (storie, rappresentazioni e narrazioni di luoghi, di persone e di movimenti) che affiora in superficie in percorsi di co-ricerca. In questa accezione la scrittura è strumento di comunicazione, ma anche spazio di rielaborazione e unità di analisi. La scelta di lavorare con questi intenti sul modo in cui si scrive richiede consapevolezza delle asimmetrie di potere che i ricercatori e le ricercatrici di mestiere ma anche gli operatori sociali, gli educatori e gli insegnanti devono fronteggiare nei rispettivi campi di azione: accademia, scuola, servizi territoriali. Le buone intenzioni, il desiderio di lavorare insieme, l’intento del riconoscimento reciproco si scontrano con dimensioni di potere strutturali, politiche e organizzative su cui è necessario essere sempre concentrati perché il rischio di pensare di fare bene, mentre invece si è rimasti intrappolati in logiche che idealmente non ci appartengono, è alto. La scrittura può essere d’aiuto per rimanere focalizzati, mantenere il pensiero su cosa facciamo e su come agiamo, sui nostri schemi cognitivi e bias.
Abbiamo provato a parlare non di una scrittura autoreferenziale e fine a se stessa, che si incarta sulla necessità di produrre qualcosa in tempi brevi, in continuazione e sempre di più. Ci interessa, invece, una scrittura che può concretizzarsi in partecipazione effettiva con altri diversi da noi e diventare spazio di consapevolezza che muove il cambiamento nei co-autori e nelle co-autrici ma anche in chi legge il testo, decodifica le immagini, ascolta un audio. Una scrittura che si affianca e si contamina con altre forme espressive e che si fa carico delle tensioni e delle contraddizioni insite nella costruzione del sapere scientifico. Howard Saul Becker, di mestiere sociologo e musicista jazz, richiamava Thomas Khun, di mestiere storico e filosofo della scienza, ricordando che l’osservazione, che rimanda ad una idea di oggettività e neutralità della descrizione della realtà, è necessariamente “carica di teoria”.
La scrittura su cui ci interroghiamo è, per la Comunità di ricerca, spazio che può svelare i conflitti e le asimmetrie insite nei percorsi di ricerca sociale e pedagogica e nella ricerca scientifica in senso più ampio. È quella scrittura, inoltre, che può diventare un tempo fecondo per riflettere sui ruoli dei singoli soggetti, sulla commistione tra differenti saperi ma anche sul posizionamento dei ricercatori e delle ricercatrici.
È un tempo che interpella gli autori e le autrici su questioni di metodo e di comprensione della realtà con l’intento di restituire complessità e profondità alle situazioni che vengono analizzate e provando a superare anche credenze, ideologie e verità che vorremmo gridare con forza ma che, per quanto ci sembrino “buone e giuste”, non rispondono sempre al livello di consapevolezza delle persone con cui si scrive e di cui si scrive e che sono immerse nei contesti che raccontiamo. In questa veste, la scrittura diventa così anche dimensione in cui si elabora una rappresentazione della realtà improntata su un fare etico che rispetta le persone, le loro fatiche quotidiane e le loro rappresentazioni del mondo. La scrittura collettiva e creativa, come quella proposta in questo numero, apre spazi interstiziali di confronto lento ma efficace e, allo stesso tempo, permette di co-costruire relazioni tra ricercatori professionisti, esperti, persone interpellate a vario titolo nelle ricerche. L’intento è quello di aprire scenari emancipatori ma necessariamente situati e tracciati sul solco di una interdipendenza trasformativa.
In questo numero ci interroghiamo anche sul potenziale euristico delle arti performative – non solo come linguaggi espressivi più efficaci e adatti a raggiungere interlocutori diversi. Da tempo la ricerca sociale e di ambito educativo si confronta con i linguaggi artistici della fotografia, del teatro, dell’audiovisivo per disseminare i dati empirici, per raccontare le storie delle persone e rappresentare le immagini di luoghi e di mondi sociali difficili da concettualizzare, perché spesso molto distanti dalla conoscenza di “prima mano” delle persone e immaginati in maniera distorta e stereotipata. Se non si vuole che l’aggettivo “creativo” riguardi solo i canali espressivi per la disseminazione dei risultati, comunque ottenuti, occorre coltivare la consapevolezza di quel che di nuovo i codici espressivi usati apportano al nostro studio, del modo in cui la scelta dei linguaggi retroagisce sulla conoscenza che cerchiamo di costruire. Si tratta, ancora una volta, di scegliere un modo in cui è possibile stare in relazione con i nostri campi d’interesse scientifico e le persone che li abitano, e questa scelta ha un valore politico. Obbliga a volte a rallentare il passo, a dismettere certezze assolute, a collocarsi nei contesti con sguardo aperto allo spiazzamento, attento alle traiettorie di vita e alle evoluzioni possibili delle persone e dei contesti di cui, interessandocene, cominciamo a far parte.