È questa l'università che meritiamo? Dialogo con Marco Damilano su educazione e opinione pubblica | Is this the university we deserve? Dialogue with Marco Damilano on education and public opinion
DOI: 10.5281/zenodo.8225397 | PDF | Educazione Aperta 14/2023
“L’autosufficienza è incompatibile con il dialogo.”
Paulo Freire (2005, p. 80)
“L’avvenimento sarà il tuo maestro interiore.”
Emmanuel Mounier (2014, pag. 14)
Prime parole
Se la “mediazione” ha il significato di porre in relazione due o più persone – non necessariamente va vista come la ricerca di una sintesi finale o definitiva tra concetti o punti di vista: mediazione è il potere della comunicazione dialogica, come strumento del discorso intercalato a due o più voci e che assume un particolare senso nel contesto storico e culturale in cui sono state pronunciate o scritte.
Il mito dell’autosufficienza o della mancanza di necessità di mediazione di significati, opinioni e verità può portare a non vedere l’importanza del dialogo come processo di conoscenza e comprensione della realtà che se autodeterminata, oltre che autorappresentata, può perdere di vista la tensione relazionale di carattere dialogico e cadere sempre di più nelle trame dell’intelligenza artificiale come unica mediatrice delle nostre relazioni.
Ne abbiamo parlato con Marco Damilano, tra i più noti giornalisti italiani attualmente ideatore e conduttore del programma Il Cavallo e La Torre su Rai3 e a lungo direttore del settimanale “L’Espresso”, interrogandoci sulle criticità della comunicazione e della pedagogia in tensione tra un mercato che vuole trasformare i lettori, spettatori - così come gli studenti - in consumatori, e possibili alternative in grado di aprire vie d’uscita da questo paradigma della conoscenza e di formare l’opinione e l’educazione pubblica per la coscienza critica.
In un sistema della comunicazione polarizzato e convinto della propria autosufficienza, ci si costruisce la notizia in modo spesso autosufficiente e immediato, senza particolari approfondimenti. D’altra parte nel mondo dell’educazione si fa largo il modello neoliberista alimentato dal mito della competizione e una falsa “meritocrazia” che genera stati di ansia e di stress sempre più diffusi tra i giovani: un problema che ci riguarda tutti, ma in particolare dovrebbe far riflettere chi vive in prima persona quella che potremmo definire l’università 2.0 intrisa da un’aspirazione all’eccellenza sulle sabbie mobili di una precarietà sociale, economica ed esistenziale che risucchia ogni legittima rivendicazione al benessere dell’esistenza.
Il mito della competitività si scontra con la dura realtà, in cui si arranca, si fa difficoltà a costruire un futuro e inquadrare un presente che abbia senso. Studiare viene spesso confuso con una gara. La formazione viene distorta dalla performance. La colpa e il merito ricadono sullo studente trasformato in “individuo” e si perde il senso della responsabilità sociale.
Bisogna cogliere segnali divergenti, che non si piegano a un sistema accumulatore e competitivo e vengono non solo da critiche interne al corpo docenti, ma anche e soprattutto da voci studentesche che ci segnalano in modo inequivocabile come questo disegno di università non tenga sufficientemente conto dei tempi della persona, delle possibili fragilità psicologiche o di ostacoli economici, agendo in un equilibrio labile e sempre in bilico tra merito e colpa, eccellenza e fallimento.
D’altra parte, dal dialogo con Damilano emerge il rischio della perdita di fiducia tra i più giovani in figure di riferimento che vengono viste come intruse nella relazione personale con il web, finisce con l’affidare la mediazione di dati, affetti e relazioni all’algoritmo, sistema che da l’illusione della conoscenza infinita, ma - nel metodo - risulta ripetitivo e meccanico. Eppure, nella comunicazione come nell’educazione, esiste una speranza: ed essa vive nella ricerca incompleta, infinita e imprevedibile non costruita solitariamente né spontaneamente, ma in un dialogo che non presuppone un criterio di certezza assoluta di giudizio o di verità. Questa incertezza e apertura relazionale implica, si, ricerca di rigore scientifico e metodologico, ma anche continue mediazioni di senso: ed è esattamente questo aspetto che ci da coscienza della nostra incompiutezza e del senso infinito della conoscenza e ridisegna la figura del giornalista e dell’educatore come soggetti aperti alle possibilità continue del dialogo come via d’uscita dalla meccanizzazione dell’informazione e dell’apprendimento. Nel dialogo, attraverso il dialogo.
L’invasione dell’algoritmo e la crisi delle mediazioni
Paolo Vittoria: Il sistema educativo è sempre più invaso da un modello che “premia” l’idea del possesso, dell’accumulo, della competizione e usa un vocabolario, ormai interiorizzato da noi addetti ai lavori e mutuato dal mondo finanziario, in cui si ricevono e trasmettono parole come “accumulare” “acquisire” e “spendere”, o si misura la didattica in “crediti” e “debiti”. D’altra parte, studentesse e studenti iniziano a denunciare la crisi di questo modello, come Emma Ruzzon e Alessandra De Fazio – che in occasione delle inaugurazioni dell’anno accademico delle rispettive università (Padova e Ferrara) – hanno espresso una critica decisa e profonda a un modello che continua a richiedere di eccellere in un pantano di precarie aspettative asfissianti.
Marco Damilano: Credo sia importante – a proposito di quello che dici – ricordare che nella lingua tedesca “debito” e “colpa” si definiscono entrambi con la stessa parola. Questo mi sembra emblematico del sentimento di colpevolizzazione di chi non ce la fa e porta a delle conseguenze anche molto drammatiche, come è stato segnalato dalle due studentesse nel giro di poche settimane - dall’Università di Padova all’Università di Ferrara - che si sono esposte in prima persona per raccontare la propria esperienza o di loro colleghi in bilico tra il mito del successo e il fallimento, con conseguenza anche tragiche. Io penso che questi discorsi siano stati in modo equivocato intesi come uno sfogo, quando si tratta di vere e proprie denunce e sarebbe molto più coerente considerarle tali. Credo che bisognerebbe smantellare subito questa immagine del successo ed è una grande questione, anche civile e sociale. La questione delle parole e della ricerca va posta nei termini della libertà di creare parole piuttosto che riceverle e basta: in questo senso le parole sono uno strumento con cui fotografi una nuova realtà. La ricerca è una tensione. Non c’è un sapere costituito una volta per tutte, non c’è una democrazia conquistata una volta per tutte, non c’è una libertà conquistata una volta per tutte, ma c’è una continua ricerca, una continua tensione verso tutto questo e se nel mondo della comunicazione, come in quello accademico o educativo, si perde di vista tale tensione e si propone un modello pietrificato e nuovamente gerarchico, si rischia di fare un grandissimo errore e gravissimi danni sulle future generazioni.
Vittoria: È proprio il caso di dire che abbiamo bisogno di testimoni, più che di maestri - parafrasando un’espressione da te recentemente citata - o meglio di maestri-testimoni continuamente alla ricerca di una coerenza tra quello che si dice e quello che si è.
Damilano: Si tratta di una frase di Paolo VI che recita “il mondo non vuole più saperne di maestri, vuole dei testimoni e accetta dei maestri solo in quanto sono testimoni” ed è – come dicevi – la ricerca di coerenza tra quello che si dice e quello che si vive, molto significativa per un uomo che è stato al vertice di un’istituzione e struttura gerarchica come la chiesa cattolica a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Questo discorso, a mio avviso, vale anche – o soprattutto – per la cultura laica e nella contemporaneità dove il tema della pedagogia, dell’educazione, del maestro, questo atto di tramandare una cultura, è diventato particolarmente importante, considerando che siamo in una stagione di crisi delle mediazioni che colpisce in profondità tutte le forme di relazione: questa crisi riguarda il mio mestiere di giornalista, che fino a un po’ di tempo fa era il mediatore tra la realtà e la sua stessa trasformazione in notizie che arrivavano ai lettori, agli spettatori, alle persone che si informano; ma anche la politica, per quanto riguarda i partiti e i sindacati; e il campo dell’educazione con i maestri, gli educatori e perfino i genitori. Siamo in una stagione in cui ognuno fa da solo questa mediazione grazie ai social e al digitale, questo però certamente non vuol dire che le mediazioni non esistono più o che i mediatori non esistono più, così come sarebbe assurdo pensare che non c’è la possibilità di tramandare e testimoniare la persistenza di una cultura, di quello che abbiamo appreso e di quello che vogliamo restituire dopo di noi. Ho, però, la sensazione che questa crisi delle mediazioni ci ponga di fronte a un problema nuovo per quanto riguarda i metodi, i mezzi e gli obiettivi, i fini, lo scopo della stessa educazione, per cui risulterebbe del tutto inadeguato, se non dannoso, il modello pesantemente pedagogico dei decenni precedenti.
Vittoria: Parlando di mediazione mi viene in mente una frase del pedagogista Paulo Freire “nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, ci educhiamo gli uni con gli altri mediati dal mondo”: se da una parte il “nessuno educa nessuno” segnala il superamento dell’autoritarismo, il “nessuno si educa da solo” rimarca l’illusione del fai-da-te, dell’autoeducazione.
Damilano: Questa frase di Paulo Freire coglie il punto perché definisce un modello gerarchico, verticale dell’educazione con connotazioni autoritarie che è stata l’educazione fino a qualche tempo fa, ed è chiaramente un modello che non reggeva più da tempo. Al tempo stesso pensiamo di averlo sostituito con quella che definirei come “la pedagogia del selfie” che non è solo una pratica di fotografia in cui ci si autoritrae, ma è diventato anche un concetto, un modo di essere in cui si crede o – diciamo – si è sempre più convinti di poter fare le cose da soli, senza dover fare molta fatica e doversi necessariamente confrontare con gli altri. Questo tipo di mentalità modifica anche il campo dell’apprendimento che ruota non su qualcosa che ti può sorprendere o anche mettere in crisi perché in relazione con una persona che ti incuriosisce o ti contraddice, c’è un incontro, e c’è sempre qualche sorpresa o imprevedibilità che in fondo è quello che non sai, che non sai ancora, o diciamo non sai di sapere, e che qualcun’altro ti comunica. La “pedagogia del selfie” è invece frutto di un’ideologia precisa dell’autorappresentazione in cui questa sorpresa, o anche situazione critica rispetto all’apprendimento, svanisce grazie alla mediazione potentissima e al tempo stesso oscura dell’algoritmo, che ti fa apprendere e accumulare quello che già sai, quello che hai già scoperto, quello che hai già trovato, o quello che hai già ricercato. Non dimentichiamo che l’algoritmo funziona analizzando le nostre ricerche e restituendole in forma personalizzata come interessi, relazioni, contatti o prodotti di consumo e che – se diventa impermeabile a tutti gli altri stimoli che non sono contenuti in quel meccanismo – agisce come strumento di potere molto forte e sofisticato perché viene meno, anche in senso dialettico, quel primo segno di contraddizione per tutti che è l’incontro, la relazione con l’altro e con la realtà conoscibile.
Oltre a Paulo Freire, penso a una frase di Emmanuel Mounier che ammiro e sento molto vicina anche per il mio impegno di giornalista ed è “l’avvenimento sarà il tuo maestro interiore”: l’avvenimento diciamo è quello che accade, è l’esperienza stessa nel suo essere sorprendente. In sostanza, c’è un modo di fare il mio lavoro di giornalista – ma anche altre professioni nell’ambito della cultura, dell’educazione – che si fa dettare le conclusioni a partire da una visione del mondo impermeabile a tutto, alle opinioni, alle idee degli altri, a fatti o avvenimenti che smentiscono o in qualche misura mettono in crisi le proprie verità. Poi, in senso più profondo, c’è “quello che accade”, che è anche un incontro, direi soprattutto una relazione che, tornando a Mounier, è un maestro interiore perché magari può spiazzarti, può costringere a ripensarti, ti rimette in discussione, ti fa sorgere tanti dubbi su quello che stai facendo, pensando, scrivendo o dicendo e da questi dubbi, da questi stati critici nasce la possibilità di una risposta, o comunque di un’apertura ad un’altra dimensione della conoscenza e del sapere, di una relazione non univoca, ma complessa, contraddittoria e per questo anche più difficile. Quindi i due modelli che emergono sono quello più antico, gerarchico, autoritario, patriarcale – che risulta obsoleto e inadeguato – e quello dell’illusione dell’autosufficienza dove c’è invece il rischio di una disillusione rispetto al non avere bisogno di mediazioni. Il sistema chiamato algoritmo studia ed elabora, a livello meccanico, l’enorme quantità di dati che noi inseriamo nella rete e ce li ripropone senza permetterci di uscire da quel circuito che, in modo più o meno inconsapevole, noi stessi abbiamo creato: l’algoritmo crea un circuito chiuso che quasi sempre è un circuito di potere e quindi può diventare un cortocircuito da cui è difficile uscire. La cultura educativa diventa, quindi, una sfida per ritrovare il senso dell’incontro, in effetti una rottura – o per meglio dire – un’uscita da quel circuito, che è proprio spezzare un paradigma prevedibile della conoscenza.
Vittoria: Il tema dell’algoritmo per come lo descrivi, mi sembra – da una parte – l’illusione della conoscenza infinita, dall’altra la dura realtà della prevedibilità che ti educa ad una conoscenza meccanica, appiattita su quello che già è, mentre l’educazione è tale se ispirata dall’avventura, dalla ricerca continua di senso, dalla scoperta, anche dal disorientamento, lo spaesamento, l’incantamento.
Damilano: Intuitivamente il navigare nel web è come immaginare un mare senza bussola in cui questo spaesamento è molto elevato. La realtà, invece, è che il navigare non solo è molto orientato, ma scientificamente mediato dall’analisi di dati di cui parlavamo; quindi, il mio pensiero è che innanzitutto bisogna problematizzare l’incontro con la realtà andando oltre l’accumulo di dati sulla realtà ed anche di persone, costruendo delle interpretazioni che sono piccole bussole che permettono di orientarci dopo che ci siamo persi, o disorientati. Penso che anche questo sia un senso del nostro lavoro. Più specificamente diciamo che intravedo, in questa fase, due strade: una dove agisci come se la realtà non ci fosse e l’altra in cui la realtà è in fondo inconoscibile perché è un insieme di puntini senza collegamento. Io invece credo a una terza alternativa in cui la connessione, il collegamento tra dati, nozioni, elementi è una necessaria funzione intellettuale, che ha bisogno di studio e di conoscenza. Ogni volta che ragiono su questo tema mi viene in mente l’articolo di Pierpaolo Pasolini sul "Corriere della Sera" del 1974 in cui si riferiva alle stragi – quasi un romanzo delle stragi – e quell’ “io so” con cui apre l’articolo che è molto forte: “Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe”, io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 1969 … delle stragi di Bologna e di Brescia, dei vecchi fascisti ideatori di golpe, dei neofascisti autori delle stragi”… e poi ancora menziona “gruppi di potenti appoggiati dalla CIA; la strategia della tensione”; poi dice: “so tutti i nomi, tutti i fatti” ma specifica “non ho le prove e né gli indizi”. Io so perché “sono un intellettuale che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.” Ecco se vediamo la realtà come una serie, un insieme di sequenze, di fotogrammi, come siamo abituati a fare nella conoscenza sul digitale ci sembra di conoscere tutto e forse non conosciamo niente. Solo se creiamo delle connessioni - e da questo punto di vista il digitale diventa uno strumento formidabile -, non faremo regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero che, nel senso attribuitogli da Pasolini, sono lati oscuri del potere. Un altro atteggiamento sarebbe invece quello di dire: “io so”, ma non ho indizi, non ho prove e non ho neanche una visione del mondo; oppure “io so” perché penso di sapere con arroganza e qualsiasi cosa succede non mi distoglie dalla mia visione. Questi naturalmente sono due estremi, due strade possibili e parallele, quando quella in mezzo è la strada della connessione, che ancora una volta è una forma di mediazione, come la stessa conoscenza è una forma di mediazione. La conoscenza è una mediazione tra una massa informe inconoscibile e il tentativo disperato dell’essere umano da sempre di dare un ordine al caos: magari può sembrare un discorso astratto, ma è molto concreto, perché il nostro lavoro quotidianamente è dare un ordine conoscibile, o forse meglio una leggibilità, al caos.
Vittoria: Pierpaolo Pasolini ha pagato caro il suo sapere. E oltre la sua vicenda, la sua tragica morte che ha molto dell’oscuro, del mistero, non c’è dubbio che la sua ricerca della verità fosse scomoda, perché faceva luce sui lati oscuri, come nella lettera a cui hai fatto riferimento. Attualmente, questo potere della ricerca della verità ruota sempre più attorno ai dati oltre che alle notizie o le opinioni. Mi riferisco in particolare alla vicenda di Julian Assange, di cui si parla troppo poco, che è straziante dal punto di vista umano, e apre una serie di riflessioni e interrogativi sulla ricerca della verità. Com’è noto, il suo “reato” è stato quello di aver denunciato e divulgato dei dati veri sullo spionaggio degli Stati Uniti anche a scapito di governi occidentali: la persecuzione che ne è scaturita è alla stregua dei peggiori criminali e di una violenza inaudita, con il rischio dell’estradizione negli USA e una condanna di 175 anni di carcere.
Damilano: Io penso che – senza se e senza ma – Julian Assange non dovrebbe soffrire questa violenza e non dovrebbe pagare nessun reato perché non ha commesso nessun reato. È chiaro che si tratta di una persecuzione di carattere politico per aver diffuso delle notizie vere: una grande quantità di dati e di notizie che svelano il sistema di spionaggio degli Stati Uniti. Su questo non ho nessun dubbio e d’altra parte la libertà di espressione, di “stampa” come si dice, la libertà di divulgazione e diffusione del pensiero è profondamente minacciata ed è pericolosamente aggredita anche negli Stati cosiddetti liberaldemocratici. Ho lavorato per molti anni a "L’Espresso" ed è stata la testata che Julian Assange aveva scelto nel 2010-2011 per pubblicare i leaks, per cui ho avuto anche modo di lavorare successivamente a quell’operazione. Una questione che si pone riguarda la messa in rete di tutti i dati. Da una parte, si può affidare a chi li consulta il compito sia di diffonderli che di interpretarli. Dall’altra, una diversa filosofia: si lavora per mesi e mesi su una quantità di carte e documenti che sarebbero inconoscibili o incomprensibili se fossero letti così come sono e quindi hanno bisogno della mediazione di chi sa leggerli, interpretarli e farne delle connessioni che non sono solo nelle carte, nei documenti, ma che richiedono una specializzazione, una competenza, oltre a una capacità di restituzione. Sono, quindi, due modalità diverse ma che in ogni caso nulla hanno a che fare con la vicenda personale di Julian Assange, di chi avrebbe il “torto” di aver pubblicato dei dati che davano fastidio al governo degli Stati Uniti e dovrebbe essere immediatamente rilasciato e messo in libertà.
Vittoria: … La vicenda di Assange pone anche interrogativi su un modello dell’informazione e della cultura che non tutela il punto di vista dei più deboli, in una continua rincorsa alle semplificazioni e poco inquieta sulla ricerca della verità.
Damilano: C’è un’arroganza di chi pensa di poter chiudere la realtà in due minuti di giornalismo televisivo, in trenta righe di un pezzo o peggio ancora in un post su un social network. C’è un’arroganza perché si pensa che con lo strumento del giornalismo si possa sintetizzare qualsiasi cosa fuori da un dialogo. Però, c’è anche l’importanza di questo strumento come nel caso di Julian Assange che è appunto la conoscenza della realtà e di proposizione purché il giornalismo si liberi da tutti i difetti, tutti i malanni che si porta dietro da decenni: gli stereotipi, le semplificazioni che tradiscono la complessità, la tutela del punto di vista del più forte rispetto a quello del più debole, la lontananza dai contesti concreti e dai territori, l’omologazione. Non è poco il lavoro da fare anche nella funzione pedagogica della comunicazione e del giornalismo stesso. Il giornalista non è un sacerdote, non è un professore, non è qualcuno che ha una cattedra o un pulpito da cui parlare, dovrebbe essere immerso nella realtà anche più scomoda – e darne una rappresentazione o interpretazione il più possibile tendente o vicina alla verità. Non possiamo dire “verità” in senso assoluto, ma alla ricerca della “verità”. Nel caso della nostra intervista (nella fase di videoregistrazione n.d.r), ad esempio, basta che giri la camera ed hai un’altra realtà che non è meno vera di quella che stiamo ritraendo adesso, ma una tensione verso la verità si può testimoniare e credo che sia la cosa che arriva di più e che può essere la cosa più utile da rimettere in circolo: anche qui non si tratta di venir meno al ruolo di mediazione, ma di reinventarlo. La mediazione non è più l’antico giornalista modellato sul principio di Hegel: “la lettura dei giornali è la preghiera dell’uomo moderno”, che faceva sentire la lettura del giornale quasi in modo liturgico, sacerdotale. Oggi è tutto molto diverso e questo rappresenta una grande opportunità da cogliere. La mediazione è anzitutto nella relazione che va riscoperta: ed è una relazione in cui le parti sono scompigliate, scompaginate, non c’è più un alto un basso, un giovane e un anziano, un uomo e una donna. Le mediazioni quindi si rinnovano e reinventano continuamente ed è quello che dobbiamo cercare in questa stagione in cui, in fondo, siamo in una fase di mezzo o in un passaggio epocale che a sua volta è una mediazione in cui possiamo e dobbiamo continuare a cercare senza pensare di aver mai raggiunto la meta. Per me è evidente che il giornalismo, come l’educazione, è un dialogo anzitutto interiore che per ognuno di noi è l’incontro che si compie con la realtà.
Vittoria: Tuttavia il mondo dell’educazione, come quello della comunicazione è invaso dal modello neoliberista, in cui si tende a riprodurre quello che già è stato trasmesso ed è sempre più difficile ripensare la cultura in forma dialogica e critica…
Damilano: Quello che accade nel mondo del giornalismo è legato all’ordine del marketing e del profitto e può mettere in crisi dei sistemi anche industriali. Quindi, da questo punto di vista, la questione si pone in modo drammatico perché c’è una spinta del sistema industriale e mercantilista - diciamo pure capitalista - a trasformare sempre di più l’opinione pubblica in una mercificazione che si adegua a quello che chiede il pubblico mediato dal sistema del mercato. E in presenza di una crisi anche industriale del mondo della comunicazione, dietro ogni innovazione c’è sempre un bivio: l’innovazione per mantenere la qualità del giornalismo e soprattutto la sua funzione di formazione dell’opinione pubblica in una società democratica – oppure il giornalismo come “marketing” per adeguarsi o fotografare le evoluzioni del mercato. Ho visto che questo bivio è continuamente presente, ma è difficile capire verso che strada ti porta. Un problema comune di chi fa il giornalista per professione e di chi assume il punto di vista del lettore, dell’ascoltatore, è quella di vivere in una fase di falsa onnipotenza dell’informazione. Ad esempio, per quanto riguarda la notizia del treno deragliato a Firenze oggi (21/4/2023 n.d.r), attraverso lo smartphone abbiamo comunicazioni giornalistiche minuto per minuto su quello che sta accadendo: se la linea ferroviaria è stata ripristinata o no; quali sono gli aggiornamenti sui ritardi dei treni, ed altro. L’altra faccia di questa onnipotenza è un’estrema debolezza della comunicazione, ovvero manca qualcuno che ci spieghi le cose, ci spieghi quello che sta accadendo e - ritorno a dire - in questo modo pensiamo di sapere tutto, ma non sappiamo niente. Sappiamo tutto in tempo reale, ma capiamo sempre meno ed abbiamo sempre meno strumenti di comprensione e qui c’è un terreno enorme su cui lavorare: in questo senso sono molto ottimista perché c’è molto da fare mentre sono – per così dire – pessimista – anzi preoccupato che, se dovesse prevalere quell’altro modello, allora verrebbe meno la funzione civile e democratica dell’informazione che in fondo da sempre fa la differenza tra una società democratica e una società che non lo è, così come fa la differenza l’accesso alla cultura e all’educazione garantita da istituzioni come scuole o università.
Vittoria: Questa riflessione è la porta per un ripensamento del sistema della comunicazione e della pedagogia: dell’educazione ed opinione pubblica …
Damilano: Certamente tutto quello che sta accadendo richiede un ripensamento di tutti i modelli, senza dimenticare quella che è stata la domanda della pandemia su tutti i campi. Questo ci richiama alla responsabilità pubblica della scuola e dell’università che non possono essere dei luoghi di una dinamica di investimento-cliente-consumo, cittadino-consumatore, lettore-consumatore, studente-consumatore, ma dovrebbe essere una dinamica completamente slegata da questo tipo di logica per restituire ai lettori, agli ascoltatori e spettatori così come a studenti e docenti quella dimensione formativa che è il vero obiettivo dell’educazione pubblica che non è l’accumulo, ma l’istruzione, per paradosso, incompiuta. Un circolo aperto che contraddice quel modello di cittadini-consumatori che divengono compiuti quando acquisiscono un voto, una competenza o un diploma. Questo vuol dire non piegarsi a un sistema profilato dal mercato, ma aprirsi all’esperienza di relazioni incompiute e proprio per questo adeguate a un sistema democratico in cui il compiersi si fa insieme agli altri e non da soli perché sei il migliore di una classifica decisa dagli altri.
Il bluff del merito: la denuncia delle studentesse
“Credere alla meritocrazia è come credere alle streghe”; “Si pensa che il merito sia un criterio equo e giusto, eppure nella pratica viene anche esso nella pratica confuso con un’ideologia competitiva”. Le due studentesse, Alessandra De Fazio ed Emma Ruzzon fanno eco al disagio studentesco e, dall’inaugurazione dell’anno accademico rispettivamente dell’università di Ferrara e di Padova, sferrano una critica altrettanto pungente e legittima. Sebbene il merito sia una categoria che, nella cornice della Costituzione (si veda l’articolo 34)[1], assume significato di eguaglianza e pari opportunità, è stato completamente stravolto dall’ideologia neoliberista in ragione di una competizione su cui si sente il rischio del fallimento. Molti professionisti della comunicazione hanno definito le parole delle studentesse come uno “sfogo”, quando si tratta effettivamente di un coerente ragionamento politico-educativo che sfocia in una precisa denuncia di un sistema a cui non possiamo sottrarci.
3.1 Emma Ruzzon: “Da quando studiare è diventato una gara?”
Inaugurazione dell’anno accademico Università di Padova, 13 febbraio 2023:
Cara comunità studentesca, Magnifica Rettrice, Ministro Bernini, autorità, cara comunità dell’Università di Padova: credo siano evidenti a tutti le profonde contraddizioni della narrazione mediatica intorno al percorso universitario. Ci viene restituito il quadro di una realtà che fa male. Celebrate eccellenze straordinarie facendoci credere che debbano essere ordinarie, facendoci credere che siano normali. Sentiamo il peso di aspettative asfissianti che non tengono in considerazione il bisogno umano di procedere con i propri tempi, nei propri modi. Siamo stanchi di piangere i nostri coetanei e vogliamo che tutte le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire, insieme a noi, come attivarsi per rispondere a questa emergenza, ma serve il coraggio di mettere in discussione l’intero sistema merito-centrico e competitivo. Con quale coraggio possiamo ascoltare il bisogno umano di rallentare? Ci viene insegnato che fermarsi significa deludere delle aspettative, sociali e molto spesso familiari. Fermarsi vuol dire rimanere indietro? Ma da quando studiare è diventato una gara? Da quando formarsi è diventato secondario rispetto al performare? Tutto quello che sappiamo è che una vita bella, una vita dignitosa, non ci spetta di diritto, ma è qualcosa che ci dobbiamo meritare. Notoriamente il merito è inteso quale fattore garante di un percorso equo per tutti, capace di appianare ogni differenza, in nome di un impegno personale che viene riconosciuto e premiato. Quindi il mancato raggiungimento di un risultato è da attribuirsi esclusivamente alla colpa del singolo di non essersi “impegnato abbastanza”. Ricordiamoci però che molti degli ostacoli che incontriamo nel nostro percorso accademico sono strutturali e sono, per esempio, non potersi permettere una casa da fuori sede, non poter frequentare le lezioni, non avere una borsa di studio, ed è codardo che si deleghi al singolo studente la responsabilità di trovare un modo per arrivare alla fine del percorso indenne, superando degli ostacoli che è compito delle istituzioni rimuovere. Quest’anno a Padova 2.426 studentesse e studenti avevano diritto a ricevere una Borsa di Studio che non è mai stata erogata. Mi chiedo come si possa immaginare che vivano serenamente il loro percorso universitario, quando la preoccupazione principale diventa come sostenersi economicamente. Come possano avere fiducia nel loro Ateneo, nella loro Regione, nel loro Stato, se vedono non rispettato un loro diritto costituzionale, quello di poter studiare. Sono domande che esigono risposta, e vorrei porle direttamente a Lei, assessora Donazzan, alla luce della mancata copertura delle borse di studio che la nostra Regione reitera da anni, così come da anni non si impegna in una reale azione di residenzialità pubblica studentesca. Queste politiche di disimpegno e trascuratezza colpiscono sempre e solo chi è già in condizioni precarie, spesso quegli stessi studenti che non si sono potuti adeguare a un mercato immobiliare che specula sulle carenze del pubblico. Quella abitativa, così come quella economica, sono emergenze, e come tali vanno affrontate. Dal 2018 il nostro Ateneo si è impegnato nell’anticipare i fondi destinati alle borse di studio che la Regione manca di stanziare, dimostrando di riconoscere l’importanza di garantire il Diritto allo Studio: ci aspettiamo che alla luce dei finanziamenti del PNRR in arrivo, questo impegno venga nuovamente mantenuto. Non godere di un reale diritto allo studio pesa sul percorso universitario, così come insiste sulle nostre spalle la costante competizione corrosiva a cui siamo sottoposti e un ragionamento sul benessere psicologico ancora in fase embrionale, che non fornisce nemmeno a tutte le Università uno sportello di assistenza e ascolto, e che dove è presente lo vede sottofinanziato e di conseguenza mal funzionante. Vogliamo lo psicologo di base. Anche se sentiamo solo il contrario, ricordiamoci che non è una sessione o la nostra media a definire chi siamo, ricordiamoci che è legittimo chiedere aiuto e pretendere che ci siano delle strutture adeguate a darcelo. La corona d’alloro non deve significare l’eccellenza, la competizione sfrenata. Deve essere simbolo del completamento di un percorso che è personale, di liberazione attraverso il sapere. Abbiamo scelto di mostrarla qui con un fiocco verde, quello del benessere psicologico, per tutte quelle persone che non potranno indossarla, per tutte le persone che sono state o stanno male all’idea di raggiungere questa corona. Stare male non deve essere normale. Se però si aspira a proseguire il proprio percorso accademico, è d’obbligo prendere atto di come il nostro Paese consideri l’Istruzione e il mondo della Ricerca. Il 55% tra dottorandi e dottorande non riesce a risparmiare nemmeno 100 euro al mese. Una volta conseguito il titolo, ciò che li attende in Italia è l’incertezza. Saltare da un assegno all’altro, senza possibilità di accedere ai basilari diritti dei lavoratori, come maternità e tredicesima. Nessuna possibilità di accedere ad un mutuo vista la difficoltà a mantenersi autonomamente nelle principali città italiane. All’infuori del nostro paese la ricerca viene riconosciuta come un impiego e i cosiddetti “cervelli in fuga” sono di fatto persone colpevoli di non aver accettato la precarietà radicata nella scelta di una carriera accademica in Italia. Pochi mesi fa, Ministro Bernini riportava alle Camere che sarebbe un contratto lavorativo a limitare la libertà di un ricercatore. Ebbene no: è l’assenza di tutele che limita la libertà, impedendogli di immaginare un progetto di vita stabile nelle attuali condizioni. In tal senso la proroga di un anno degli assegni di ricerca non deve mettere in dubbio la necessità di una tempestiva riforma del preruolo, che garantisca stabilità e futuro nel nostro Paese a chi fa ricerca. In questo contesto di precarietà ci viene richiesto di eccellere, con i mezzi a disposizione, qualunque essi siano, dentro e fuori l’Università. Sempre di più, sempre meglio, sempre più veloci, senza arrestarsi mai, nemmeno davanti alle difficoltà. Chi vuole può, giusto? Dobbiamo chiederci se è vero che tutti abbiamo la possibilità di arrivare ovunque e accettare che la risposta, per quanto possa fare paura, è no. Non finché mancherà la volontà politica di costruire una società priva di pregiudizi, attenta alle differenze, che livella le disuguaglianze. Ma noi ci troviamo davanti un Governo che sceglie deliberatamente di ignorare le grida di allarme dei suoi giovani, gli stessi che chiedono più fondi all’istruzione pubblica e che invece vedono in legge di bilancio aumentare il finanziamento alle private, oppure i giovani che disobbediscono civilmente e pacificamente per denunciare la catastrofe climatica e che hanno ricevuto poca attenzione sul contenuto, ma tanti commenti riguardo la sfumatura di arancione su quelle pareti. La civiltà e la forza di uno Stato si misurano su come questo tratta chi è messo ai margini dalla società stessa: come osano mentire raccontandoci che non toccheranno il diritto all’aborto? Non avete paura di cosa ne sarà dopo i tre disegni di legge che lo mettono in discussione? Non vi indigna il silenzio delle istituzioni davanti agli 84 suicidi dei detenuti in carcere nel 2022? Oppure che, in questo momento, alla Camera si stia proponendo l’aberrante tentativo di legittimare l’omissione di soccorso? L’accanimento verso gli ultimi e il calpestamento dei diritti civili e sociali sono atteggiamenti che appartengono ad uno dei periodi più bui della storia del nostro Paese. Ma dalle sue macerie è nata la nostra Costituzione, costruita sulle fondamenta della democrazia, dell’uguaglianza, della libertà e dell’antifascismo. Principi che oggi dobbiamo al coraggio ed al sacrificio delle giovani generazioni di allora, anche studenti come noi, che si schierarono con coraggio contro l’oppressione del regime. Lo stesso coraggio con cui l’Università di Padova ha ottenuto la medaglia d’oro al valore per il ruolo avuto nella Resistenza al Nazifascismo, che dobbiamo ricordare oggi con grande orgoglio: esattamente ottant’anni fa, nel 1943, l’allora Rettore Concetto Marchesi prendeva una posizione chiara: cacciava i fascisti dalla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Accademico, in nome della Patavina Libertas. Questi continueranno ad essere i principi su cui si fonda il nostro Ateneo e, nel ribadirlo, vorrei concludere questo mio contributo rivolgendomi alla comunità studentesca: Il presente non è facile e altrettanto avere fiducia nel futuro. Forse la sfida più grande consiste nel non adeguarci al poco che ci viene concesso, pretendendo sempre di più. Possiamo esserne in grado solo mettendo da parte gli individualismi, in un’ottica di solidarietà, come disse Marchesi “Per la fede che ci illumina e per lo sdegno che ci accende”. Buon inizio dell’Anno Accademico.
3.2 Alessandra De Fazio: “Siamo bombardati dal mito della competizione”
Inaugurazione dell’anno accademico Università di Ferrara: – 4 aprile 2023:
Sono un fallimento, non merito di vivere. Queste non sono le parole che titolano l’ennesimo giornale che riporta quotidianamente, accanto alle morti delle nostre compagne, l’esaltazione di una studentessa che riconosce nel sonno un ostacolo per laurearsi nella metà del tempo. Queste parole sono uscite dalla stessa bocca della persona che oggi sta di fronte a voi, queste parole le ha dovute sentire e subire mia madre quando subito dopo il test di medicina ho percepito di non avercela fatta, per la seconda volta... Che esagerazione per un test che si può riprovare l’anno successivo – continua la studentessa – ma come possiamo pensare che un percorso universitario debba essere dettato dai nostri tempi mentre siamo bombardati costantemente dal mito della performatività e da una competizione illogica che ci sbatte in faccia il successo degli altri e ci fa tirare un sospiro di sollievo quando qualcuno fallisce al posto nostro.
Citando Alessandro Barbero, in altre epoche credevano alle streghe, noi crediamo nella meritocrazia. Si pensa banalmente che il merito possa essere un criterio equo, sostituto del vecchio privilegio, del quale invece ha ereditato tutto il divario e la disparità. Le borse di studio sono un ricatto. Se tutte abbiamo lo stesso diritto perché qualcuna dovrebbe essere costretta a tenere tempi più serrati solo perché più povera? Il sistema universitario è classista. È un’istituzione che disconosce la nostra umanità piegandosi ai ricatti del mercato. Le università promuovono le illusioni di garantirci pari strumenti… Ci viene data la possibilità di redimerci dalla nostra condizione di povertà, come se fosse una colpa, a patto di dimostrare di essere meritevoli, conseguendo risultati eccellenti entro periodi di tempo cadenzati e ristretti. Le studentesse e gli studenti non sono il mezzo per sostentare la formazione, il diritto allo studio deve risiedere nell’emancipazione collettiva e deve essere parte integrante e inscindibile del welfare sociale pubblico, gratuito e garantito dallo Stato per tutte...
Chiediamo che il nostro Paese consideri il benessere psicologico diritto fondamentale dell’individuo, al pari della salute fisica, sia con l’introduzione dello psicologo di base, ma anche con una riforma sistemica che decostruisca i pilastri meritocratici. Non siamo più disposti ad accettare senso di inadeguatezza, depressione e persino suicidi a causa delle condizioni imposte da un sistema malato che baratta la persona per la performance. Non ci dobbiamo meritare di studiare, di avere una casa e delle cure.
Riferimenti bibliografici
Boarelli M. Contro l’ideologia del merito, Laterza, Roma-Bari 2022.
De Fazio A. Intervento della Presidente del Consiglio degli Studenti. Università di Ferrara, 4 aprile 2023, url: https://www.youtube.com/watch?v=vfVvm1VZELw
Freire P. La pedagogia degli oppressi, EGA, Torino 2005.
Mounier E. Il personalismo (a cura di Giorgio Campanini e Massimo Pesenti), Editrice Ave, Roma 2004.
Mounier E. L’événement sera notre maître intérieur: pages choises, Parole et silence, Paris 2014.
Pasolini P.P. Cos’è questo golpe? Io so, in “Corriere della Sera”, 14 novembre 1974 in P.P. Pasolini, Io so, Garzanti, Milano 2014.
Rai Radio3: L’Università non è una gara. Con Luigi Zoja e Paolo Vittoria. Fahrenheit – 3 marzo 2023, url: https://www.raiplaysound.it/audio/2023/03/Fahrenheit-del-03032023-6eadb585-eb82-4d2c-b087-0e1d90b7e14d.html
Ruzzon E. Intervento della Presidente del Consiglio degli Studenti.
Università di Padova – 24 febbraio 2023, url: www.unipd.it/sites/unipd.it/files/2023/Intervento%20Emma%20Ruzzon.pdf
Note
[1] “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”
Gli autori
Marco Damilano è un giornalista, saggista e conduttore televisivo. Già direttore de l’“Espresso”, conduce la striscia di informazione Il cavallo e la torre su Rai3.
Paolo Vittoria insegna Pedagogia generale e sociale all’Università di Napoli. Dal 2010 al 2019 è stato docente di Filosofia dell’Educazione all’Università Federale di Rio de Janeiro. È autore di libri sull’educazione critica, i movimenti sociali e Paolo Freire, alcuni dei quali pubblicati in diverse lingue. Collabora con “il Manifesto”.