Didascalia e mentalità coloniale: la complessità divulgativa di un testo breve | Caption and colonial mentality: the informative complexity of a short text

DOI: 10.5281/zenodo.14603092  | PDF

Educazione Aperta 17 / 2024 

Abstract. Nel rapporto spesso conflittuale tra scrittura scientifica e scrittura divulgativa, la didascalia rappresenta un elemento periferico, ma utile per vedere all’opera un dispositivo complesso. Essa non coincide con il titolo di un’opera, ma può arricchire la comprensione in virtù della sua forma più ampia e discorsiva. Tuttavia, proprio per la sua forza di inquadramento e di ancoraggio, essa può essere utilizzata in modo improprio, come testimoniano due fotografie divenute emblematiche (Madonna di Bentalha di Hocine Zaourar e Veglia funebre in Kosovo di Georges Mérillon) che riassumono la facilità con la quale griglie semantiche tipicamente occidentali forzano un immaginario colonizzandolo. Proprio per evitare che dipinti e disegni contengano nelle didascalie parole ritenute offensive, razziste o sessiste, alcuni importanti musei internazionali (tra questi il Rijksmuseum di Amsterdam, il Museo nazionale di Danimarca e il Prado di Madrid) hanno promosso progetti di aggiornamento per migliaia di opere d’arte che risentono della “mentalità coloniale”.

Parole chiave: didascalia, colonizzazione, immaginario, fotografia, musei.

Abstract. In the often conflicting relationship between scientific writing and educational writing, the caption represents a peripheral element, but useful in order to see a complex device at work. It does not coincide with the title of a piece, but can enrich its understanding with a broader and more discursive form. However, precisely because of its framing and anchoring strength, it can be also misused, as evidenced by two emblematic photographs (the Madonna of Bentalha by Hocine Zaourar and the Funeral Vigil in Kosovo by Georges Mèrillon) which summarize the ease with which typically Western semantic grids force an imagination by colonizing it. Precisely to prevent paintings and drawings from containing words deemed offensive, racist or sexist in their caption, some important international museums (including the Rijksmuseum in Amsterdam, the National Museum of Denmark and the Prado in Madrid) have promoted updating projects for thousands of works of art that are affected by the “colonial mentality”.

Keywords: Caption, Colonization, Imagery, Photography, Museums.

Introduzione

Nel Borghese gentiluomo di Molière (atto II, scena IV) Monsieur Jourdain vuole scrivere qualcosa di galante a una dama dell’aristocrazia di cui è innamorato. “Certo. Volete scriverle qualche verso?”, chiede il Maestro di filosofia. “No, no; niente versi”, replica Monsieur Jourdain. “Soltanto prosa?”, incalza il Maestro. “No, non voglio né prosa né versi”. Ma il Maestro ribadisce che deve pur essere uno dei due modi perché per esprimerci possediamo soltanto la prosa e i versi.

Jourdain: Soltanto la prosa e i versi?
Maestro di filosofia: Proprio così: tutto ciò che non è in prosa è in versi; e tutto ciò che non è in versi è in prosa.
Jourdain: E quando si parla, che cosa è?
Maestro di filosofia: Prosa.
Jourdain: Come? quando dico: “Nicoletta, portami le pantofole, e dammi il berretto da notte”, è prosa?
Maestro di filosofia: Sì, signore.
Jourdain: Per tutti i diavoli! Sono più di quarant’anni che parlo in prosa. Vi sono molto grato di avermi informato.

Lo stupore di Monsieur Jourdain offre lo spunto per andare oltre e osservare, nel rapporto dialettico, ma spesso conflittuale, tra scrittura scientifica e scrittura divulgativa, un elemento considerato periferico, ma estremamente utile per vedere all’opera un dispositivo complesso: la didascalia. Essa non coincide con il titolo di un’opera, di per sé sintetico, ma può arricchirlo di informazioni ulteriori in virtù della sua forma più ampia e discorsiva. Testo talora ecfrastico (che descrive, cioè, il suo oggetto come se volesse trasformare chi legge in spettatore), la didascalia ambisce ad offrire all’immagine una specie di “seconda cornice”, ancorando e orientando la comprensione (esercizio, come vedremo, non privo di aspetti teorici problematici).

Breve commento posto sotto un’immagine (ma anche parte non dialogica di un testo teatrale o descrizione adottata dai fumetti, dai film, dai fotoromanzi e dai copioni), il termine didascalia (dal greco διδασκαλία, da διδάσκω "insegno, ammaestro") indicava l’ammaestramento del coro, poi la rappresentazione, la messa in scena e, in seguito, le liste cronologiche delle rappresentazioni corali e drammatiche eseguite ogni anno e conservate negli archivi di Atene (il primo a raccoglierle fu, per quanto ne sappiamo, Aristotele in un’opera intitolata Διδασκαλίαι di cui purtroppo si sono conservati pochi frammenti).

Dal latino provengono invece subtítulo (spagnolo), rubrica (portoghese) e il più vincolante légende (da leggere) francese, mentre l’inglese caption si concentra sull’idea di un concetto da afferrare e il tedesco Untertitel su una precisa funzione esplicativa secondaria. L’aggettivo didascalico, che ha assunto nel tempo il significato di scolastico, pedante, divulgativo e semplificatorio, risuona invece ovunque nello stesso modo: in spagnolo didáctico, in portoghese didático, in francese didactique in inglese didactic e in tedesco didaktisch.

Pur derivando da un termine greco legato all’insegnamento, il “didascalico” confligge, nel senso comune, in modo inesorabile con la trasmissione e la condivisione dei saperi secondo i modelli della scrittura scientifica e accademica.

Scrittura scientifica e narrazione

I “formati” che l’università autorizza, ricorda Michel Serres, richiedono di precisare, anteporre il soggetto alla proposta, leggere tutto su di essa e attorno a essa;

citare gli autori, solo quelli canonici; criticare le altre fonti, classificare la bibliografia esaustiva, precisare date e edizioni; accumulare a piè di pagina il maggior numero possibile di note e di rinvii, fino a strangolare la gola e offuscare gli occhi del lettore, non avanzare assolutamente idee senza gli appoggi convergenti della dimostrazione, delle prove e dei documenti; non cadere in sfrontati eccessi di stile, piegarsi al serio, alla probità, all’onestà, senza dimenticare l’umiltà; pubblicare raramente senza la pretesa di essere letto.

Un modello eminente, esatto, virtuoso e impeccabile, che “si incolla in maniera indelebile alla nostra pelle di animali da concorso” (Serres-Dagens, 2014, pp. 14-15).

La tensione tra scrittura accademica e narrazione si arricchisce di ulteriori sfumature nel serrato colloquio tra Annie Ernaux, scrittrice e Premio Nobel per la letteratura, e Rose-Marie Lagrave, sociologa e direttrice di studi all’EHESS di Parigi, che sin dagli anni Ottanta si sono “frequentate” spesso, “leggendosi a vicenda” e con reciproco interesse (Ernaux-Lagrave, 2024).

Il costante interesse per l'autoanalisi intreccia i loro percorsi, che – pur distanti da introspezioni narcisistiche e monologhi autoreferenziali – raccolgono la sfida di scrivere le vite degli altri a partire da sé stesse e viceversa.

Le opere di Ernaux sono state apprezzate da diverse generazioni di sociologi negli ultimi quarant'anni, una popolarità che può essere spiegata dal suo stile conciso e dal ruolo che nei suoi libri viene attribuito al materiale empirico. Una scrittura di osservazione, liberata da giudizi di valore, il più possibile spoglia di affetti, di finzione e di ricerca estetica e al tempo stesso vicina alla realtà, all'indagine e al ragionamento sociologico. Spesso fraintesa, questa scrittura fattuale risponde a un'ambizione letteraria; non è pura e semplice registrazione della realtà, né trasposizione selvaggia del metodo etnografico, ma un registro di scrittura insolito che favorisce l’emancipazione dalle costrizioni e dai determinismi sociali.

A differenza di Annie Ernaux, che in alcuni dei suoi libri usa persino la terza persona singolare per parlare di sé al passato, Rose-Marie Lagrave conduce un'indagine autobiografica, rigorosa quanto qualsiasi ricerca sociologica, antropologica o storica, che la porta ad accumulare un gran numero di fonti di prima mano: interviste approfondite (alle sette sorelle, al fratello, ai figli), “carte di famiglia” (quaderni, diari, libri contabili), archivi, album fotografici, corrispondenza privata, tracce di eventi e progetti editoriali che hanno segnato la sua carriera scientifica. A partire da questo materiale autobiografico, la sociologa sviluppa un’autoanalisi originale, scientifica, ma la cui scrittura si discosta chiaramente dagli standard accademici. Nell’oggettivare la sua vita intima, Lagrave ritiene di essersi spinta “molto meno in là” di Annie Ernaux, interpretando questa moderazione come un'autocensura in contrasto con l’assunto femminista secondo cui “tutto è politico”.

Pur riconoscendo il proprio debito nei confronti dei sociologi, Ernaux ritiene che “scrivere davvero” significhi mirare a una conoscenza diversa da quella delle scienze sociali, della filosofia o della psicoanalisi, accettando di attraversare i territori dell’emozione e della soggettività. Alla ricerca dell’intimo legame tra letteratura e realtà, la scrittrice fa proprio il distacco dai fatti personali e alla domanda se fa sociologia o letteratura, autobiografia o autofiction, risponde “faccio auto-socio-biografia. O ancora: etno-socio-biografia”.

Nel quadro dei fili intersecanti della letteratura e delle scienze sociali i testi “auto-socio-biografici” di Annie Ernaux e l'“indagine autobiografica” di Rose-Marie Lagrave mostrano che le esperienze individuali sono plasmate dalle relazioni sociali di potere. Pur utilizzando strumenti propri della sociologia, Rose-Marie Lagrave condivide con Annie Ernaux l'interesse per ciò che viene percepito come insignificante, per ciò che non è percepibile nello spazio sociale.

Per la scarsa padronanza nel cogliere l'intimo con gli strumenti sociologici e il timore di esporsi più personalmente in un registro autobiografico che ha poca legittimità nel mondo accademico, Lagrave insiste sulla parola “indagine”, cioè la capacità di raccogliere un numero sufficiente di fonti e documenti per dimostrare che i risultati non dipendono dalla soggettività, ma si basano su materiale empirico. I seminari di Bourdieu le hanno rivelato che, anche se l’approccio descrittivo è molto importante, la sociologia non è solo descrizione e rompere con questa evidenza implica la decostruzione dei presupposti e dei luoghi comuni. Le emozioni e l’intimità rivendicano così il loro spazio come oggetti o dimensioni di indagine, e il potenziale euristico dell'autoanalisi letteraria o accademica contribuisce a riconfigurare le scienze sociali come strumenti di comprensione di sé e, al tempo stesso, come “armi” di emancipazione di massa.

È nell’ambito della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria che gli aspetti biografici e didascalici si intrecciano, identificandosi con le informazioni considerate essenziali dai cartellini segnaletici: cognome, nome, nomi del padre e della madre, soprannome e falsi nomi, luogo e data di nascita, domicilio, istruzione e professione, “pregiudizi”. Si aggiungono i connotati cromatici dell’iride e della cute, le fotografie di profilo e di fronte e le impronte delle cinque dita della mano sinistra. Il cartellino segnaletico si trasforma così in un’opera dell’arte contemporanea (Gilardi, 2003).

Priva delle indicazioni di scrittura – che possono essere considerate didascalie amplificate – la sola immagine fotografia risulterebbe muta e inutilizzabile.

La nuova esigenza di identificare con precisione le persone ai fini del controllo e dell’ordine pubblico viene assecondata dalla coppia semiotica “sguardo frontale-sguardo di profilo”, che accompagnerà nel XX secolo gli sforzi di lettura del corpo individuale come segno di identità psicologica e di appartenenza sociale (Tefnin, 1995).
Nel quadro di un imponente ritorno ottocentesco della “morfologia facciale”, la fisiognomica lascerà il posto all’antropometria e all’antropologia criminale, mentre la tela dipinta, la figura scolpita e la silhouette saranno lentamente sostituite dalle immagini prodotte in serie dal moderno mezzo della dagherrotipia. Rispetto ai documenti del passato, fortemente segnati dalla soggettività dell’artista, la fotografia sembra offrire un’aderenza maggiore ai fenomeni naturali e una, seppur illusoria, oggettività, associate alla possibilità di fissare l’istantaneità delle espressioni e di assicurare la riproducibilità dei volti.

L’apparato poliziesco inizia a fotografare i criminali e i sospettati da punti di vista divergenti di 90 gradi, nella convinzione che solo una doppia visuale può essere considerata garanzia di identità. Le inquadrature frontali e di profilo vengono così a configurarsi come un calco e, non a caso, spesso associate al rilevamento delle impronte digitali.

Nel suo libro La Photographie Judiciaire, pubblicato a Parigi nel 1890, Alphonse Bertillon – che perfezionando il sistema inglese crea nel 1882 il casellario giudiziario – spiega che ogni soggetto deve essere fotografato due volte perché nel profilo risiede la struttura fisica, la morfologia, mentre nella figurazione frontale risiedono le emozioni e i rituali espressivi, il dramma psicologico e sociologico.

Su questo gioca Marcel Duchamp, che nel 1923, per una mostra al Pasadena Art Museum in California, utilizza come manifesto l’annuncio per la ricerca di un criminale e colloca nelle cornici vuote due fotografie del proprio volto rovesciandone tuttavia l’ordine: l’immagine di profilo precede quella frontale e la ignora, essendo rivolta verso l’esterno del cartello, cioè a sinistra e non a destra (Wanted: $ 2000 Reward, 1923, Philadelphia, Museum of Art, collezione Louise and Walter Arensberg). E con gli stessi elementi gioca anche Laszlo Mololy-Nagy, che nel suo Pittura Fotografia Film (1925) propone come “foto di un dilettante” e con il commento-didascalia “forme iniziali di ritratto simultaneo” la sovrapposizione di uno scatto frontale e di uno scatto di profilo.

La didascalia e la colonizzazione dell’immaginario

Proprio in virtù della sua forza di ancoraggio, la didascalia può essere utilizzata in modo improprio. Due episodi, divenuti emblematici, riassumono la facilità con la quale griglie semantiche tipicamente occidentali forzano un immaginario colonizzandolo.

Algeria, 1997. Nella notte del 22 settembre, nel villaggio di Bentalha – 15 chilometri a sud della capitale Algeri – terroristi islamici massacrano 417 persone, in gran parte donne, vecchi e bambini.

All’esterno di un ospedale, il fotografo Hocine Zaourar ritrae il dolore di una donna algerina dopo la morte di alcuni famigliari: il fratello, la moglie del fratello e la loro figlia. Accanto alla donna in lacrime, una parente che ha insistito per accompagnarla. L’immagine, intitolata dal giornalista Michel Guerrin La Madonna di Bentalha, viene pubblicata da oltre 700 quotidiani nel mondo. A uno sguardo occidentale ricorda innumerevoli opere d’arte con Maria sofferente, dall’affresco della crocifissione di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova (1305) al Compianto in terracotta sul Cristo morto di Nicolò dell’Arca in Santa Maria della Vita a Bologna (seconda metà del XV secolo). Detti anche lamentazioni, sepolcri e pietà, i compianti sono composti da figure a dimensione naturale disposte attorno al Cristo secondo una configurazione teatrale che inscena in modo corale il dramma della sua morte. Come ha osservato l’antropologo Ernesto De Martino (1975), in quelle terrecotte si riflettono i modi e le forme del lamento funebre antico, una rappresentazione rituale di capelli strappati, di ceneri sparse, di mutilazione negli abiti e nel corpo, di prefiche piangenti e di gesti che dai rilievi egizi sono giunti fino a noi attraverso il mondo greco e gli avori dell’arte medievale.

Un secondo episodio porta la data del 29 gennaio 1990. Georges Mérillon dell’agenzia Gamma scatta nel villaggio kosovaro di Nagafc un’immagine che farà il giro del mondo. In una piccola stanza, pianto dai famigliari, giace il cadavere di Nasimi Elshani, 28 anni, militante nazionalista, ucciso due giorni prima nel corso di un agguato della Polizia serba che ha provocato quattro morti e trentadue feriti. La foto viene spedita a Parigi con la didascalia Veglia funebre in Kosovo intorno al corpo di Nasimi Elshani, ucciso durante una manifestazione per l’indipendenza del Kosovo. Considerata un capolavoro e paragonata ad una tela di Mantegna o di Rembrandt, l’immagine viene pubblicata da L’Express e da Le Figaro magazine e premiata come foto dell’anno dalla giuria del World Press Prize. Rivestita di celebrità, l’immagine, che allo sguardo di un occidentale evoca la scena di un compianto, si trasforma presto da Veglia funebre in Pietà del Kosovo, senza che nessuno si attribuisca la paternità della modifica.

Come osserva Georges Didi-Huberman, “Pietà” e “Madonna” sono espliciti riferimenti all’iconografia cristiana, quando invece la realtà documentata si riferisce a fatti avvenuti nel mondo musulmano.

È come se il dolore della gente di Nagafc o di Bentalha venisse “colonizzato” e sottoposto a una griglia semantica che trova i suoi modelli più espliciti ed estremi nelle figure del Cristo e della Madonna (Didi-Huberman, 2007, p. 41).

Secondo Barthes la didascalia è un “messaggio parassita” che connota l’immagine, a cui è subordinata e con la quale interagisce, attribuendole significati ulteriori, attraverso modalità di chiarimento e puntualizzazione. Veicolo comunicativo semplice e rassicurante, essa è un’interpretazione a posteriori e per questo a rischio di strumentalizzazione e di significazione arbitraria, ma anche disvelatrice di processi manipolativi con finalità politiche e sociali.

Applicando le sue categorie semiologiche al sistema della moda e al mondo del vestiario, Barthes si trova in difficoltà con la coppia significante-significato, cioè espressione e contenuto. Mentre il primo è dato dagli elementi dell’abito, il secondo va cercato proprio nelle didascalie dei servizi di moda, quindi nella lessicalizzazione dei significati proposti dalle riviste. In altri termini, secondo Barthes, siamo in grado di comprendere un’immagine solo se la ancoriamo a un testo verbale, idea che non riconosce piena autonomia al linguaggio visivo nei suoi aspetti figurativi e plastici.

C’è un lavoro che mi piace enormemente, è quello che consiste nel costruire un rapporto fra il testo e l’immagine. L’ho fatto varie volte, e sempre con un piacere intenso. Adoro apporre delle didascalie alle immagini. L’ho fatto nel mio libro sul Giappone, nel mio libretto Barthes di Roland Barthes, e l’ho fatto per la terza volta in questo libro [La camera chiara]. Quello che mi piace in realtà è il rapporto tra l’immagine e la scrittura, che è un rapporto molto difficile, ma con ciò stesso procura delle vere gioie creative, come una volta piaceva ai poeti lavorare su difficili problemi di versificazione. Oggi, l’equivalente è trovare un rapporto fra un testo e delle immagini (Schwarz-Mandery, 2015).

Secondo Jean Keim (1963), se la fotografia viene privata della sua didascalia – quindi della contestualizzazione biografica, temporale e geografica – “rischia sempre di essere fraintesa”, indecisa, imprecisata. L’autore più qualificato per la redazione di questo breve, ma essenziale testo scritto è il fotografo stesso.

Per dimostrare come le foto da sole non siano in grado di trasmettere correttamente un messaggio, la rivista “L’Express” pubblicò nel dicembre 1956 due volte lo stesso reportage sulla rivolta ungherese, accompagnandolo da didascalie diametralmente opposte: in un articolo sosteneva le ragioni degli invasori sovietici e nell’altro quelle del popolo ungherese aggredito.

Nancy Newhall, che analizza l’uso della fotografia soprattutto in ambito giornalistico (1952), distingue tre tipi di didascalia: enigmatica (corrisponde a un saggio in miniatura); narrativa (è quella più comune e “racconta” cosa avviene nell’immagine); aggiuntiva (combina le proprie connotazioni con quelle della fotografia per produrre una nuova “immagine” nella mente di chi guarda).

L’interesse per la natura problematica della fotografia attraversa anche la produzione dello scrittore francese Michel Tournier, che nei suoi romanzi, in particolare La goccia d’oro, Il Re degli Ontani e I sudari di Veronica, e nelle pubblicazioni Le Crépuscule des masque. Photos et photographes, Vues de Dos e Des clefs et des serrures: images et proses, inventa un genere ibrido tra letteratura e scatto fotografico, in cui il testo e l’immagine sono inscindibili (Cappellini, 2008; Piccotti, 2014). Una nuova forma, quindi, di didascalia dalle ambizioni letterarie che rievoca le conclusioni di Benjamin (2002, p. 77) nella Piccola storia della fotografia:

La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete, il cui effetto di shock blocca nell’osservatore il meccanismo di associazione. A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letteralizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa.

Fissare la fotografia in un messaggio linguistico resta tuttavia problematico, irrigidisce l’interpretazione in una definizione univoca e la polisemia insita in ogni immagine rischia di perdersi. Come ha osservato Susan Sontag, “le parole parlano più forte delle immagini […], anche una didascalia perfettamente esatta è solo una possibile interpretazione, necessariamente limitativa, della fotografia alla quale è unita” (Sontag, 2004, pp. 95-96).

I musei cambiano le didascalie

Il passaggio dalle collezioni private aristocratiche ai musei pubblici avviene nel momento in cui i paesi europei definiscono la loro identità in senso nazionale e coloniale, presupponendo la propria cultura come universale. Questo aspetto è particolarmente evidente nei musei etnografici, che classificano ed espongono oggetti che sono spesso frutto di conquiste e che, in molti casi, persistono nella marginalizzazione delle altre culture.

Ma attraverso quali politiche e quali strategie i temi legati alla decolonizzazione possono dialogare con le esigenze di documentazione scientifica proprie dei musei, molti dei quali nati in seno alla cultura positivista (Leonardi-Maffioli, 2021)? Scrive l’antropologa Giulia Grechi (2018):

Le istituzioni che hanno a che fare con la memoria sono spesso trattate come depositi del patrimonio culturale. Il patrimonio è usualmente interpretato temporalmente e spazialmente, senza mettere in discussione questi parametri e la loro relazione storica e politica con le questioni di appropriazione, colonialismo, contatto cross-culturale, che hanno prodotto narrazioni spesso più complesse e conflittuali di quelle riportate dai musei. Sarebbe estremamente importante operare una revisione critica di queste narrazioni, privilegiando l’emersione di punti di vista conflittuali, e delle fratture della storia, piuttosto che un racconto lineare e pacificato. Sarebbe estremamente necessario, come punto di partenza, soprattutto per i musei etnografici, esplicitare nelle proprie narrazioni (ad esempio nelle didascalie e negli apparati comunicativi) l’origine degli oggetti esposti, e il motivo per cui si trovano nelle collezioni Europee, facendo così emergere le relazioni coloniali alla base della costruzione di parte del nostro patrimonio museale.

I musei hanno iniziato a fare i conti con il passato coloniale e quindi con gli oggetti esposti e le modalità della loro acquisizione e presentazione, come prevede il Codice etico dell’ICOM (https://www.icom-italia.org/codice-etico-icom/).

Per evitare che dipinti e disegni contengano nelle didascalie parole ritenute offensive, razziste o sessiste, alcune importanti realtà internazionali hanno promosso progetti di aggiornamento per migliaia di opere d’arte che risentono della “mentalità coloniale”. Nell’ultimo decennio, il Rijksmuseum di Amsterdam ha per esempio cancellato termini come “negro” e “nano” e così il dipinto di Simon Maris Young Negro Girl e diventato Young Girl Holding Fan e il Negro Servant di Margaretha van Raephorst ha assunto il titolo di Young Black Servant.

Il Museo nazionale di Danimarca ha seguito l’esempio sostituendo la parola “negro” con “africano” nelle didascalie di quattordici opere e un’iniziativa analoga è stata adottata dal museo del Prado di Madrid, che ha eliminato nelle didascalie di alcuni dipinti termini come “nano” (sostituito con “buffone di corte”) “nanismo” (sostituito con “acondroplasia”), “minorato”, “handicap”, “moglie di” e “obesità”. Fanno eccezioni i titoli delle opere dati dall’artista che li ha dipinti, per esempio El maricón de la tía Gila di Francisco Goya. I vecchi titoli, ha comunicato il museo, sono stati conservati nel database come “titoli storici”.

Di grande interesse, a questo proposito, è il reportage dello scrittore e giornalista Christophe Boltanski all’African Museum di Tervuren, in Belgio, un tempo Museo reale dell’Africa centrale, sottoposto a un imponente processo di ristrutturazione. Chiuso per lavori nel 2013 e riaperto nel 2018, è stato interamente rimesso a nuovo. Alcuni cartelli-didascalie sono eloquenti: “Le statue presentate in questa sala facevano parte dell’esposizione permanente. Oggi non vi trovano più posto. Sono la testimonianza dei pregiudizi e degli stereotipi profondamente radicati che hanno contribuito al razzismo nelle nostre società moderne”. Il processo di decolonizzazione avviene attraverso sostituzioni e aggiunte, cancellazioni ed evidenziazioni, attenta riformulazione degli apparati didascalici (Boltanski, 2023; sul tema in generale: Zane, 2020).

Di diversa natura la controversa didascalia dedicata a papa Pio XII da Yad Vashem, contestata dal Vaticano sin dalla sua apparizione, nel 2005, in coincidenza con l’apertura della nuova ala del museo della Shoah di Gerusalemme. Il testo è stato modificato nel 2012, non senza polemiche, che hanno agitato l’ambiente ebraico e alcuni studiosi.

Riassumiamo l’episodio nella cronaca offerta pubblicata da Davide Frattini sul “Corriere della Sera” (Frattini, 2012):

Il titolo non è più “Papa Pio XII” ma “Il Vaticano”. Restano la formula “la reazione di Pio XII all’uccisione degli ebrei durante l’Olocausto è una materia controversa tra gli studiosi” e l’accusa di non aver firmato il 17 dicembre 1942 la dichiarazione degli Alleati che condannava il massacro degli ebrei. “Tuttavia – aggiunge il nuovo testo – nel suo discorso radiofonico del 24 dicembre 1942 fece riferimento ‘alle centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di origini etniche (stirpe), sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento’”. I ricercatori di Yad Vashem fanno notare che “gli ebrei non sono menzionati esplicitamente” e proseguono come nella didascalia precedente: “Quando gli ebrei vennero deportati da Roma ad Auschwitz, il Pontefice non protestò pubblicamente”. Vengono ricordati gli appelli ai governanti di Slovacchia e Ungheria.

Il penultimo paragrafo presenta le posizioni di chi lo incolpa: “I critici sostengono che la sua decisione di astenersi dal condannare l’uccisione degli ebrei da parte della Germania nazista costituisca un fallimento morale: la mancanza di linee guida chiare ha concesso a molti di collaborare con la Germania nazista, rassicurati dal pensiero che questo non contraddiceva gli insegnamenti morali della Chiesa. Ha anche lasciato l’iniziativa di soccorrere gli ebrei ai singoli preti e laici”. Il finale, tutto nuovo, offre la parola ai suoi sostenitori: “I difensori ribadiscono che questa neutralità abbia evitato misure più dure contro il Vaticano e le istituzioni della Chiesa in tutta Europa, permettendo così un numero considerevole di attività segrete di aiuto a livelli diversi della Chiesa. Evidenziano i casi in cui il Pontefice offrì incoraggiamento ad azioni che permisero di salvare ebrei”. 

Auschwitz-Birkenau: semplificare per trasmettere?

Nel bosco di betulle del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, il crematorio V forma una sorta di radura. Dal 5 aprile 1943 le SS lo misero in funzione per la prima strage di massa con il gas. È qui che un anonimo membro del Sonderkommando, la squadra di lavoro composta da prigionieri addetti ai crematori, nell’agosto 1944 riesce incredibilmente a scattare quattro fotografie, che oggi sono “le sole testimonianze visive di un’operazione nel crematorio durante il suo svolgimento” (Didi-Huberman, 2014, p. 46): la corsa disperata delle donne verso la camera a gas, il fumo, i cadaveri. Il pezzo di pellicola esce dal campo di sterminio in un tubetto di dentifricio e arriva il 4 settembre alla resistenza polacca di Cracovia, accompagnato dalla nota scritta da due detenuti politici, una specie di ampia, descrittiva didascalia finalizzata ad inquadrare e a “spiegare”.

Tre di quelle fotografie sono ora collocate accanto a ciò che resta del crematorio, su tre stele, la prima dotata di un’ampia descrizione. Tuttavia, le tre immagini sono state reinquadrate per rendere più leggibile la realtà o corrette per cancellare l’angolatura obliqua e la penombra, proprio ciò che le aveva rese possibili. L’anonimo fotografo clandestino “doveva nascondersi per vedere” ed è questo “che la pedagogia memoriale vuole qui, curiosamente farci dimenticare” (ibidem). In altri termini, sono state semplificate fino a tradire le condizioni stesse della loro esistenza per rivestirle dello statuto di luoghi della memoria. Le domande di Didi Huberman sono lapidarie: “Bisogna semplificare per trasmettere? Bisogna ingentilire per educare? Radicalizzando, si potrebbe dire: bisogna mentire per dire la verità?” (ibidem).

Viene naturale rispondere che semplificare, ingentilire e mentire non sono strade da percorrere; trasmettere, educare e dire la verità sono invece azioni che rientrano in un “ordine del discorso” e, come ricorda Foucault, “ogni sistema di educazione è un modo politico di mantenere o di modificare l’appropriazione dei discorsi, con i saperi ed i poteri ch’essi comportano” (Foucault, 2004, p. 23).

La difficoltà deriva da un’epoca ormai priva di incantesimo narrativo e di introspezione (Han, 2024) in cui i racconti, divenuti strumentali e “commercializzabili”, semplificati e ingentiliti, sono sottomessi alle regole del consumo e della “fruizione”. Tuttavia, se vogliamo evitare sguardi superficiali e omologati, caotici e disarticolati, senza rinunciare alla comprensione o cedere al dogmatismo, dovremmo ricordare che tra comunicazione e contenuto c’è un equilibrio oltrepassato il quale la comunicazione non comunica alcunché (Codignola, 2024).

Le quattro fotografie di Auschwitz-Birkenau spostano così l’attenzione su ciò che nell’immagine “brucia”, su ciò che può favorire un’autentica comprensione visuale in grado di eludere sia il logocentrismo occidentale sia l’ipertrofica produzione di figure (Guerri-Parisi, 2013) assumendo una “difficile etica dell’immagine”: né l’invisibile per eccellenza, né l’icona dell’orrore, né il semplice documento (Didi-Huberman, 2005). Inevitabilmente, anche per la didascalia si aprono le condizioni per un nuovo, inedito, compito.

Riferimenti bibliografici

Benjamin W., Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000.

Boltanski C., King Kasai. Una notte coloniale nel cuore dell’Europa, Add, Torino 2024.

Cappellini E., Michel Tournier e la didascalia, tra immagine, realtà e Scrittura, in S. Albertazzi e F. Amigoni (a cura di), Guardare oltre: letteratura, fotografia e altri territori, Meltemi, Roma 2008, pp. 125-140.

Codignola T., La civiltà dell’eccesso, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2024.

De Martino E., Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1975.

Didi-Huberman G., Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano 2005.

Didi-Huberman G., Costruire la durata, in J.-L. Nancy Didi, G. Huberman, N. Heinich e J.-C. Bailly, Del contemporaneo: saggi su arte e tempo, a cura di F. Ferrari, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 21-52.

Didi-Huberman G., Scorze, Nottetempo, Roma 2014.

Ernaux A. e Lagrave R.-M., Una conversazione, Oligo, Mantova 2024.

Frattini D., Il museo israeliano dell'Olocausto
«si corregge» su Pio XII
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L’autore

Roberto Alessandrini insegna Antropologia culturale all’Università Pontificia Salesiana di Roma. È presidente del Consiglio di indirizzo della Fondazione Ago Fabbriche culturali, direttore editoriale di Bibliotheka e consulente delle Edizioni di Storia e Letteratura.