Pratica artistica e soggettivazione pedagogica. Dal trauma ecologico della Xylella alla rigenerazione comunitaria di un uliveto nel Salento | Artistic practice and pedagogical subjectivation. From the ecological trauma of Xylella to the community-based regeneration of an olive grove in Salento

Il campo dei giganti, foto di Ulderico Tramacere.

DOI:  10.5281/zenodo.10644196 | PDF

Educazione Aperta 15/2024

In the context of a Philosophy of Education that sees subjectivation as the core of its research, this contribution aims to enlighten the educational value that lies in the artistic practice, considering it a device of subjectivation. The pedagogical perspective, from an analytical point of view, plays its role by the ethical and aesthetical possibilities given to the subject in “retrospectively” reinterpreting its own "endowment". From the hermeneutic perspective, assuming all the implicit valence of the notion of “projection” (Entwurf), poiesis becomes a way of illuminating truth, which lies in the sense of the transience of existence, without denying or anaesthetising it. Recalling the ethical-aesthetic sphere of Lacanian matrix, and placing at its side the ecological perspective from the Heideggerian work about the struggle between the Earth and the World as a practice of concealment/disclosure that Art synthesises, the contribution offers a further glance at the dialogue between art and ecology by proposing a project born from the Xylella emergency and the need to use land art as a pedagogical and awareness-raising tool. Another piece in the mosaic of new practices of "care" through the medium of art, starting from a community-art experience that reconfigures the signifier "Museum" understood as the product of a cultural discourse, in the dialectic between subject and institution.

Keywords: Subjectivation; Philosophy of Education; Psychoanalysis; Jacques Lacan; Land Art.

Premessa

Per contribuire a una riflessione sulla complessità del significante “Museo” tanto come prodotto di un discorso culturale, quanto come luogo-vissuto che esplicita una funzione educativa e uno strumento di coesione sociale, l’intento del presente contributo è quello di proporre, da un lato, una riflessione etico-estetica di matrice psicopedagogica, che vede nello studio delle dinamiche di soggettivazione individuale e collettiva il Grund epistemico di riferimento. Su questo versante, si farà riferimento ai presupposti teorici ed epistemologici che fondano una psicopedagogia di orientamento lacaniano (Pesare 2018; Agagiù e Pesare, 2022a) estraendo una metodologia che si avvale di strumenti clinici e teoretici nello studio della soggettività contemporanea e nell’analisi della tenuta dei rapporti tra soggetto e istituzioni culturali (Pesare, 2023)[1]. L’attenzione alle varie forme di progettualità, costrutto che fonda le basi di ogni ricerca pedagogica, si propone dunque di assumere uno sguardo attento alle dinamiche anche inconsce che permeano le relazioni sociali a livello transindividuale, con particolare riferimento a quei contesti di strutturazione informale delle risposte socioculturali e comunitarie in grado di generare coesione sociale (De Luca 2023). Le rigenerazioni prodotte “dal basso”, infatti, sono spesso capaci di ristrutturare retrospettivamente paesaggi e immaginari: il sentiero condiviso è quello di proporre una visione ecologica e transdisciplinare aperta e sperimentale, che è la sfida in fieri propria della riflessione pedagogica contemporanea: sondare la tenuta dei rapporti tra soggetto e mondo, e tra il soggetto e le istituzioni culturali ed educative. La pratica artistica come momento della soggettivazione, dunque come possibilità che il soggetto assume in un progetto di formazione, anche al di fuori dei contesti formali di apprendimento o dell’istituzionalità museale canonicamente intesa, diviene lente progressiva per lo studio dei fenomeni di aggregazione e luogo della dialettica tra soggetto e istituzione, alle prese con le emergenze ambientali e culturali che permeano la società contemporanea. Si propone, dunque, un percorso che rileva nella teoresi psicoanalitica spunti fondanti per la teoria della soggettivazione, che possa estrarre da una base teoretica solida e germinativa gli strumenti per una riflessione pedagogica attenta ai fenomeni della contemporaneità, di cui l’ambito artistico si fa vettore privilegiato di sensibilizzazione e studio.

Soggettivazione e pratica artistica: presupposti teorici

Per avviare un rapido e denso sguardo ai presupposti teoretici che questo contributo propone di offrire, si farà riferimento al saggio heideggeriano sull’origine dell’opera d’arte (Heidegger, 1936). Il filosofo tedesco, suggerendo un nuova prospettiva per l’estetica coeva legata strettamente agli esiti ermeneutico-ontologici di Sein und Zeit (Idem, 1927), dunque considerando l’arte come luogo di discussione ontologica e non come analisi di un oggetto culturale, propone di guardare all’esperienza estetica non come pratica solo-intimistica, liberandola dunque dall’implicito riverbero romantico che essa porta con sé: si guarda, dunque, all’incontro con l’arte come progressivo avvicinamento alla verità del soggetto in rapporto con l’ente che si dis-vela e, in questo senso, l’estetica procede di pari passo con l’etica (assunto che Jacques Lacan svilupperà nel Seminario VII, come si vedrà), che coincide con il processo di soggettivazione inteso come le modalità attraverso cui un soggetto incessantemente si struttura e ristruttura. Pedagogicamente, si intende estrarre ai fini del contributo l’esperienza estetica intesa come processo di appressamento alla verità[2], intendendo quest’ultima non come dato-provato empiricamente, ma (heideggerianamente) come movimento di ricerca del soggetto verso l’aletheia, il prodigio attraverso il quale l’uomo è chiamato a prendere parte della disvelatezza delle cose. Si tratta di un cammino formativo necessariamente inquieto (Madrussan, 2017) poiché significa per il soggetto prendere parte del disvelamento della verità: parafrasando Lacan, si tratta di un percorso che non coincide con la “fantasticheria borghese” di un’etica intesa come raggiungimento del Sommo Bene (Lacan 1986), colorata da sfumature di ordine morale; piuttosto, si tratta di considerare l’esperienza estetica più che come “godimento”, come parte di un factum est: da questo punto di vista, la creatività in senso romantico del termine passa in secondo piano per prediligere un incontro con l’atto poetico, di progressivo avvicinamento all’apertura della Terra rispetto al Mondo. Quando Heidegger scrive che “l’artista è l’origine dell’opera” (Venieri, 1995, p. 25) avvisa che sarebbe “illusorio” generare una reale comprensione di cosa sia l’opera e in che modo essa sia partecipe dell’Origine attraverso un percorso di valutazione critico-comparativa (ibidem, p. 26); piuttosto, la riflessione deve assolutamente confrontarsi con lo statuto di verità implicito nell’esperienza estetica, che è fondamentalmente fatta di linguaggio. Considerando dunque l’arte come linguaggio, e vedendo il linguaggio come casa dell’essere, Heidegger pone le basi per la riflessione che Jacques Lacan svilupperà proprio intorno a questo tema: in un primo momento, che coincide con la fase strutturalista del suo percorso, l’inconscio è strutturato come un linguaggio; successivamente, il linguaggio sarà sì luogo del Simbolico, ma in esso Lacan rintraccerà una rilevante quota di Reale (cui darà progressivamente maggiore peso), ovvero quel Registro della soggettività che fuoriesce da ogni simbolizzazione, caratterizzandosi come luogo di ineffabilità perché concerne l’ingovernabilità del godimento e della morte[3]. È proprio in questa ulteriore sistematizzazione che si ritroverà la nozione di Das Ding, fondamentale per un’estetica intesa come forma di organizzazione attorno a un vuoto (Recalcati, 2018) e come momento della soggettivazione psicopedagogica (cfr. Zupančič, 2000).

Facendo un breve passo indietro per poi approfondire questo approdo estetico nei paragrafi a seguire, è proprio la considerazione del patrimonio materiale e immateriale della soggettività come “effetto di linguaggio” che conduce a vedere ogni istituzione, frutto della dialettica tra soggetto e infrastruttura culturale entro cui è immerso, nei termini di un “discorso”, termine tecnico che rimanda alla matrice foucaultiano-lacaniana del concetto (dunque intendendo il “discorso” come l’insieme di miti, riti, linguaggi che costituiscono l’identità e che fa del soggetto il prodotto di un discorso su un corpo). I presupposti teorici e metodologici, cui si fa breve accenno per ragioni di spazio, si situano precisamente nel considerare la soggettivazione come il processo attraverso il quale un soggetto si costituisce come tale assumendo, però, il soggetto dell’inconscio come oggetto privilegiato d’analisi (cfr. Agagiù e Pesare, 2022a). Nella considerazione dell’inconscio come luogo della verità del soggetto, eredità teoretica di matrice psicoanalitica che la stessa pedagogia in Italia ha assunto criticamente, proprio analizzando i cortocircuiti che permeano la relazione educativa a partire dalla dimensione latente delle strutture fondamentali della formazione (cfr. Massa, 1997), si dismette definitivamente una visione dell’inconscio come area pentacolare della soggettività. Piuttosto, ai fini della discussione, si assumono le caratteristiche dell’inconscio (transindividuale; etico e non ontico; retroattivo nella costruzione del senso) secondo l’articolazione lacaniana dei tre Registri, che non rappresentano una rigida tassonomia, ma uno strumento euristico che restituisce una quota trasformativa all’analisi del soggetto: nel momento etico-estetico della costruzione del proprio “romanzo di formazione”, infatti, al soggetto è data la possibilità di trasformare la propria domanda di avvicinamento alla verità e accedere, finalmente, a una visione più congeniale di sé stesso.

Sebbene il soggetto, a livello simbolico, sia permeato di una dialettica tra soggettivazione come assunzione peculiare del codice culturale e assoggettamento come ineluttabilità dell’assunzione di una determinata infrastruttura linguistico-culturale da cui non può prescindere, Lacan avverte, nello studio della costante interazione dei tre Registri della soggettività, che anche all’interno del linguaggio, dunque nel Simbolico, si anniderebbe una quota di Reale, dunque l’ingovernabilità del godimento e della morte, ovvero quel concetto di vuoto-causativo che muove ogni azione del soggetto a livello inconscio, nozione che l'autore recupera proprio da Heidegger. Sebbene Lacan non abbia sistematizzato un’estetica, è possibile avvicinare gli esiti lacaniani e heideggeriani nella considerazione che proprio dal Reale dell’irrappresentabile sorga l’origine dell’opera d’arte e della pratica estetica. In particolare, nel Seminario VII (Lacan 1986) il maître à penser francese avvicina l’etica all’estetica proprio nella considerazione che un’opera sia tale soltanto se ha il potere di organizzare questo vuoto costitutivo del soggetto, che riesce soltanto parzialmente a colmare attraverso un’azione organizzativa e simbolica del linguaggio. È questo il punto in cui il prodigio dell’opera d’arte si compone: “l’aspirazione alla forma sorge sempre da un confronto serrato con l’informe” (Recalcati, 2018, p. 12) e l’ingovernabile della vita, sebbene non circoscrivibile, può essere rappresentato; è il punto in cui l’insormontabilità del Reale rispetto all’ordine simbolico si manifesta, luogo di quel conflitto tra Terra e Mondo, tra occultamento e disvelamento, che produce l’opera d’arte. Pedagogicamente, significa approcciarsi all’arte come momento della soggettivazione, e assumere l’arte come forma di organizzazione, “progetto illuminante”, che accolga il trauma in un orizzonte di senso.

Arte come forma di organizzazione attorno a un vuoto. Dal lutto alla rinascita

Jacques Lacan, come anticipato, non sistematizza un’estetica, ma è possibile rinvenire nel corso della sua opera numerosi luoghi dedicati al tema dell’opera d’arte. Come proposto da Recalcati (2012; 2018) l’opera è sì una forma di linguaggio, ma ciò a cui essa si affaccia non pertiene esclusivamente l’ordine simbolico. Se si assume che l’arte sia in grado di toccare la circolarità tra la vita e la morte, che dia una qualche forma all’irrappresentabile, allora si ha contezza di come, pedagogicamente, l’educazione estetica coincida con il momento della soggettivazione. Dell’arte come elaborazione del trauma e del lutto, Recalcati offre una prospettiva sul Cretto di Gibellina in cui “Burri mostra la lezione più propria dell’arte: la sua dignità è tale solo se non evita l’incontro con il reale del trauma.” (Recalcati, 2018, p. 10). Quello che pedagogicamente insegnerebbe è, dunque, che la “morte non ha l’ultima parola sulla vita.” (ibidem). Al di là del divertissement, dell’estetizzazione o della provocazione, l’arte si configura, dunque, come necessità di confronto con il Reale, dove l’artista può indicare la via della sublimazione: l’intento non è quello di ripetere il trauma, ma di elevare il suo urto alla dignità redentrice della poesia (nel senso heideggeriano della poiesis).

Tra le scoperte della teoresi psicoanalitica, si è detto, vi è la centralità del soggetto dell’inconscio come oggetto di scienza, che mostra l’Io come un prodotto derivato e, anche, del sapere dell’inconscio come “un sapere che non sa”. È qui che si propone, dunque, una nozione di "patrimonio inconscio", collegata all’autenticità del soggetto, che criticamente rileva la transindividualità dello stesso; qui si stabilisce la fuoriuscita da un orizzonte ontologico prestabilito (dell’inconscio non si può dire che esso ‘sia’ perché il Reale mette in crisi le strutture simboliche della soggettività) ed è, infine, qui che si situa la considerazione del patrimonio inconscio in una prospettiva etica, che sovverte per l'appunto le categorie di spazio e tempo, trovando nell’aprés-coup, ovvero nella retroattività del senso, il movimento chiave di una dialettica singolare/plurale che è alla base della produzione di soggettività e di ristrutturazione del senso del trauma o della perdita (Pesare, 2020; 2023).

Più che funzionare come un’archeologia in senso stretto, per Lacan l’inconscio rappresenta una verità che può essere ritrovata perché già scritta “altrove”: nei monumenti (ovvero nel corpo), nei documenti d’archivio (la memoria), nell’evoluzione semantica (il proprio ‘stock’ di vocabolario), nel proprio “romanzo famigliare”, di cui riprende la nozione freudiana[4], nelle tracce la cui reinterpetazione attiva e creativa ristabilisce il senso del suo discorso (Lacan, 1966). Il “Devi diventare quello che sei” implica che la soggettivazione consenta al soggetto di reinterpretare retrospettivamente (per aprés-coup)[5] il proprio patrimonio inconscio, dunque di passare dal romanzo famigliare al proprio romanzo di formazione, non più inteso come Bildungsroman di memoria romantica, ma come Umbildungs-roman, "romanzo di tras-formazione" (sulla nozione di Umbildung cfr. Sola, 2003; 2008). In questo senso, la prospettiva etico-estetica di "ristrutturazione del proprio patrimonio" si costruisce attraverso il vettore del desiderio, che si muove lungo il cammino di autenticità di un’esistenza, e che fa del patrimonio non più un’Ate (dal greco, “sventura”), ma reinterpreta criticamente e creativamente il Grande Altro come garante di intelligibilità culturale del soggetto e il complesso patrimonio delle identificazioni stratificate a livello individuale e collettivo (Agagiù, 2023). Nella prospettiva psicopedagogica, questo processo interpella da vicino le strutture culturali di un individuo: nel suo percorso di soggettivazione, egli le declina retrospettivamente, anche rispondendo al trauma. Ed è qui che parimenti giace la cifra politica dell’insistente domanda sulla soggettivazione e sul patrimonio immateriale della soggettività che, oggi, implica civicamente a una definitiva dismissione di un io innatisticamente definito, e accoglie la cifra intrinsecamente derivativa e trasformativa dell’identità (Agagiù e Pesare, 2022b).

Un’esperienza di rielaborazione del trauma ambientale attraverso il mezzo artistico

L’epidemia di Xylella fastidiosa nel Salento ha causato la morìa, secondo le stime attuali, di circa 21 milioni di alberi d’ulivo (Rapporto Coldiretti 2023[6]), causando un danno incalcolabile per l’identità, l’infrastruttura economica e gli equilibri sociopolitici del territorio.

Nel 2020, dall’intuizione di Ulderico Tramacere, artista leccese, prende vita “Il Campo dei Giganti”: un uliveto ultracentenario situato a Boncore (Nardò, LE), esteso un ettaro e mezzo, composto da circa centocinquanta ulivi monumentali colpiti da Xylella. È un ex terreno agricolo che, dal 2021, è curato dall’Associazione omonima e rigenerato attraverso un’operazione di Land Art per mezzo della pittura con la calce bianca, materiale ecosostenibile e utilizzato sin dalle antiche pratiche colturali[7]. È situato nel cuore dell’Arneo (Salento jonico-occidentale), zona a vocazione agricola, destinataria negli anni Cinquanta di un vasto progetto di Riforma agraria, con intrinseca scarsità di risorse idriche, fortemente impattata dall’epidemia. Sebbene si collochi a pochi chilometri dal capoluogo salentino (Lecce, 30 chilometri), dal Comune di appartenenza (Nardò, 20 chilometri) e dallo Jonio salentino (turistico-balneare), è un contesto che presenta criticità tipiche di aree marginali: scarsità di luoghi d’aggregazione giovanili e culturali, assenza di una rete di trasporti, marginalità nelle politiche territoriali. In questo territorio una comunità di artisti e ricercatori collabora alla realizzazione dell’opera, favorendo l’attivazione di nuove pratiche e processi di coesione sociale. La missione è implementare la trasformazione dell’area periferica in polo culturale, sostenere l’ecosistema collaborativo nato sulla rigenerazione condivisa della stessa e ampliarne la fruizione, confermandosi quale luogo d’incontro e sperimentazione ecosostenibile. Il collettivo ha avviato nel 2021 i laboratori con la comunità, le Residenze d’Artista in dialogo con il luogo, ed è stato tappa delle Giornate FAI 2023 che hanno visto il coinvolgimento delle scuole secondarie superiori nei “Laboratori permanenti di Cura del Bianco”[8]. L’Associazione opera per sollecitare e facilitare esperienze di rigenerazione territoriale, nell’ottica di un contesto rifocillato di stimoli creativi per rinnovare la coscienza civica, da dirigersi verso l’ecosostenibilità degli stili di vita, e il riconoscimento di un rinnovato desiderio partecipativo per le comunità in cui le arti fanno da vettore privilegiato.

Come anticipato, l’epidemia di Xylella nel Salento ha condotto alla desertificazione e al conseguente abbandono dei terreni agricoli: la vocazione alla monocultura ha prodotto un devastante impatto sul paesaggio e sull’economia, che dell’ulivicoltura faceva un importante tassello dell’economia locale. Dall’altro, l’ulivo è un forte simbolo identitario e culturale a livello mediterraneo: gli esemplari ultracentenari, che costituivano un patrimonio materiale e immateriale attraverso la mappatura e la tutela degli esemplari monumentali, attualmente versano in stato di senescenza o hanno già intrapreso la via dell’espianto e della trasformazione.

Attraverso la Land Art si intende recuperare questo patrimonio storico-culturale in un processo di rigenerazione extraurbana, dove gli ulivi monumentali sono stati potati, curati, e dipinti con la calce, composto totalmente ecosostenibile e largamente utilizzato in agricoltura, pratica di cui gli anziani della comunità sono depositari privilegiati, e che l’opera reinterpreta in maniera innovativa. Il risultato è di straordinario impatto visivo: un complesso monumentale cui è stata restituita dignità, e ciò attraverso l’aiuto e il supporto della comunità che è la prima interessata dalla devastazione prodotta dal batterio, costituita appunto per larga parte da agricoltori. Si intende, peraltro, contrastare il fenomeno dell’abbandono e dell’incuria delle campagne, che ha assunto carattere di emergenza a causa del forte rischio incendi proprio a partire dalla Xylella, dimostrando che attraverso la creatività e la cura dei luoghi un’altra vita sia concretamente possibile.

L'innovatività che l’Associazione intende sperimentare con questo progetto sta nell'aver individuato come strategia di rigenerazione urbana il binomio arte-ambiente attraverso un progetto di Land Art e pratiche multidisciplinari Art in Nature. Si tratta di una scelta originale e coraggiosa, che mira a valorizzare il territorio e a stimolare la partecipazione dei cittadini nella prospettiva di un’arte di comunità. In Puglia e nel Salento questa strategia è stata poco sperimentata o percorsa, ma in realtà può avere risvolti e ricadute positive sia dal punto di vista sociale che economico. Infatti, la Land Art può contribuire a migliorare la qualità ambientale, a promuovere la cultura locale e a creare nuove opportunità di sviluppo. Alla luce di ciò si evince che la strategia progettuale coniuga memoria e futuro: da un lato, valorizza un paesaggio secolare ormai distrutto, ma preservato dall’espianto e non lasciato all’incuria; nello stesso tempo, il ripensamento del futuro passa attraverso la sensibilizzazione al tema ambientale, mentre il mezzo artistico è volto a raggiungere un dialogo trasversale all’interno della comunità e a stimolare creativamente risposte a partire dal trauma subìto. Questo processo di progettazione condivisa e dal basso concorre alla crescita del senso di appartenenza, rafforzando il concetto di comunità e favorendo il principio che essa possa evolversi secondo le proprie qualità intrinseche.

L’obiettivo generale del progetto è quello di favorire il coinvolgimento delle comunità locali nel processo di rigenerazione nel territorio di Boncore, quindi di sperimentare e diffondere metodologie innovative e inclusive capaci di sviluppare il senso di identità e di appartenenza ai luoghi, che progressivamente si sta perdendo proprio a causa dell’impatto della Xylella, insieme a un diffuso sentimento di marginalità nelle politiche territoriali.

Gli obiettivi specifici del progetto sono la creazione di un laboratorio permanente, ovvero un presidio attivo che abbia al centro la comunità, e l’esplorazione della relazione tra essere umano e natura attraverso pratiche multidisciplinari di Art in Nature. Ciò nella visione che questo legame, drammaticamente reciso dal dilagare dell’epidemia, possa essere rinsaldato grazie a un intervento culturale, dove gli artisti collaboratori svolgono il ruolo di mediatori. In questa prospettiva, gli artisti invitati a interagire con l’opera e con la comunità attraverso i laboratori di co-progettazione, si propongono di stimolare risposte creative a partire dal concetto di scarto che diventa opera d’arte, abbinando il know-how tradizionale all’innovazione artistica.

Accanto ai beneficiari locali, provenienti per larga parte da un bacino di agricoltori del luogo, il progetto ha attuato e intende implementare il coinvolgimento delle scuole in quanto si svolge in un territorio critico vessato dalla dispersione scolastica. Con i “Laboratori sul bianco” l’Associazione persegue l’obiettivo del rinsaldamento del legame uomo-ambiente, favorendo giornate all’aria aperta attraverso il gesto simbolico della Cura dei Giganti. È in questo senso che il progetto persegue una strategia transgenerazionale, che avviene con i laboratori e si affianca alla partecipazione attiva degli adulti nell’ottica di una pedagogia trasversale, art-based (Biffi e Zuccoli, 2019) e lifelong. La similitudine utilizzata è quella di riportare linfa artistica, necessaria alla rigenerazione di un territorio in stato di sofferenza, laddove la “sindrome dell’essiccamento precoce” causata dal batterio ha mortificato il paesaggio e depauperato il legame uomo-natura. Gli obiettivi così prefissati mirano a un cambiamento a livello trasversale, che è quello di rinnovare il legame con i luoghi di appartenenza e contribuire a un rigenerato desiderio partecipativo, che sia in grado di elaborare il lutto vissuto.

Come e perché portare a valore il trauma

Questa esperienza colpisce per più ragioni: perché rintraccia il senso di impotenza e frustrazione della comunità e, nello stesso tempo, riesce a coinvolgerla attivamente in un’operazione di tutela del territorio a fronte dell’incuria generalizzata e dell’inadeguatezza delle misure istituzionali attivate negli anni trascorsi.

Si tratta di un’opera che necessita, proprio per l’utilizzo di un composto ecosostenibile e biodegradabile, di una continua manutenzione: per questo, coinvolge la comunità in una costante frequentazione, creando un luogo di aggregazione culturale spontanea, portando vita in un terreno altrimenti destinato all’abbandono.

È, inoltre, messo a valore in senso comunitario proprio il divenire stesso del tempo: è il tempo a scalfire l’opera, e il deperimento della calce acconsente alla trasformazione, lenta e inesorabile, dei materiali. Gli effetti della corruzione del tempo sono accolti nella prospettiva estetico-ambientale di un’arte contemporanea che necessariamente operi in sinergia con la natura; la stessa natura che ha portato il trauma del batterio e che si tramuta in una bellezza che accoglie la ferita.

Come anticipato a proposito del Reale, dunque a proposito dell’ingovernabilità tradotta in fattori come il tempo e le malattie, che scuotono e disarticolano l’essere, allora sorgono quesiti che possono essere da spunto per approfondire la relazione pedagogica che sottende la discussione: come educare all’ingovernabile? Come mettere a valore il trauma? Come si relaziona il quasi-ossimoro dell’ingovernabilità rispetto all’istituzione?

Gli ulivi contorti, vessati dalla malattia, oppressi dalla scarsità idrica, si stagliano nella luce violenta del Sud e sembra che chiedano una pausa da ogni identità posticcia, da ogni rassicurante verità e da ogni schermo pubblicitario. Rendono partecipi di quel dolore, a contatto con il Reale del trauma, ricordandoci che siamo costantemente esposti agli urti della vita. La deperibilità della calce insegna che la superficie materica ancora vive: nonostante la sindrome dell’essiccamento, gli ulivi ancora vivono e trasformano il bianco laddove nelle cortecce ancora sgorgano gli ultimi istanti di vita. L’obiettivo, per l'artista che ha dato origine all’opera, non è raggiungere un bianco artificiale, ma porre quante più persone possibile a stretto contatto con la natura e con l’ingovernabilità dell’evento e del trauma. Non per esserne sopraffatti, ma per rinnovare l’io più autentico che, attraverso la pratica artistica, può partecipare poeticamente di un sodalizio con la natura.

L’energia della superficie è immanente, ed è in questo senso che l’opera appartiene interamente alla physis, mentre l’atto di poiesis è uno slancio poetico atto a fare esperienza di quel velo tra disvelamento e occultamento che è l’esperienza poetica.

In questo senso si può sì affermare che “l’opera non è dell’autore, ma è l’autore che è dell’opera” (Recalcati, 2018, p. 23). Paradossalmente, parafrasando ancora Heidegger, si potrebbe infatti dire che è l’opera a servirsi dell’artista per la sua autoaffermazione. I laboratori insegnano, infatti, che non è la mano dell’artista a governare totalmente il gesto: è la materia stessa che risponde e reagisce; ove il tronco è vivo, ove esso è morto, in quell’intreccio di legno d’ulivo millenario o sulla superficie liscia, disidratata, il bianco assume sfumature differenti. È cangiante in base all’umidità, all’esposizione al sole, alla stagionalità. La calce è viva ed è vivo anche l’albero, e questa è una lezione che insegna che l’atto di creazione non è narcisisticamente demiurgico, ex nihilo, bensì partecipa dell’energia della natura.

Questa operazione sugli ulivi ultracentenari, più che configurarsi come monumento al ricordo, assume psicoanaliticamente che la memoria non è una materia passiva, ma una attività in continuo fermento, un evento (Ereignis, cfr. Žižek, 2014) sempre vivo, che non cessa di incalzare il nostro tempo. Da questo punto di vista, insegna a relazionarsi con il Reale del trauma, e farne qualcosa.

I laboratori sul bianco, pensati in ottica transgenerazionale, rappresentano il lavoro su una superficie viva, prossima, partecipe del dolore, che non lo nega, ma che accoglie la ferita in una pratica di pittura esplorativa. A proposito del Cretto di Burri (Recalcati 2018), e in sintonia con quanto emerge dagli esiti del Seminario VII, “è necessario che la forma sorga dall’informe, che scaturisca dallo scuotimento e dall’ira della terra” (ivi, p. 29). Dunque, non è una semplice evocazione monumentale del trauma, ma si tratta di valutare come la pratica artistica possa sospendere l’orrore, e trasfigurarlo. Come sottolineato in un’intervista all’artista[9], l’intento è quello di recuperare un ancestrale atto di pietas: stendere un velo sul corpo martoriato, intrecciando il lavoro dell’arte con quello del lutto, convertendo simbolicamente l’orrore del trauma in un “progetto” attraverso la potenza lirica dell’arte. Nessuno può più ignorare un sudario bianco che si estende per ettari di terra e, mentre la ferita si riapre, si riporta la vita in un posto destinato alla desolazione.

Si tratta di un’esperienza che si situa oltre la commemorazione retorica e l’archiviazione del patrimonio; se si auspica, da un lato, che la ripiantumazione avvenga in maniera ponderata, a tutela della biodiversità senza cedere alle tentazioni del greenwashing pervasivo, la testimonianza porta con sé un dono salvifico, attraverso la trasfigurazione del lutto. Quando si verifica una perdita, infatti, non si perde solo l’oggetto in sé, ma anche tutto il mondo che ruota attorno a quell’oggetto: in questo caso specifico, si tratta dell’intera comunità che gravitava attorno alla produzione di olio. Tale operazione può essere condivisa, infatti, soltanto se si configura come un’opera di vita, e non di morte. Insegna a ripartire dalle ceneri, dal secco, sottraendo all’oblio un paesaggio altrimenti destinato a perire. La materia su cui si lavora è caduca, configurando un monumento vulnerabile che è in grado di accostare, in un’esperienza intima e ravvicinata, le sorti di un albero a quelle di un essere umano.

Pedagogicamente, l’educazione affettiva e relazionale dovrebbe partire proprio dal tema dell’ingovernabilità, da come si possa mettere a valore la reazione di un soggetto davanti all’imprevedibilità del trauma, della malattia e della morte. Se assumiamo infatti, heideggerianamente, che il Sein-zu-Tode (Essere-per-la-morte) renda partecipi della verità dell’essere, tale esperienza non si configura in termini nichilistici, ma assolutamente germinativi rispetto a pretese anestetizzanti del dolore. Il senso che il soggetto attribuisce alle apocalissi culturali (secondo una calzante definizione di de Martino ripresa da Pesare, 2023) avviene retrospettivamente per aprés-coup, risemantizzando l’altrimenti indicibile del trauma. Ecco che la possibilità per il soggetto risiede proprio nella poiesis, cui parimenti concorre un allineamento rispetto alla physis, che risulta dall’incontro dialettico tra il mondo interno del soggetto e il mondo esterno attraverso una serie di incontri che avvengono per tutto il corso dell’esistenza. Educare all’imponderabilità, all’ingovernabilità significa vaccinare da ogni strategia difensiva, che provoca identità sclerotizzanti, chiuse nei propri confini immaginari, aprendo il soggetto alla relazione con il trauma e all’educazione alla risposta. Di fronte alle elaborazioni collettive di negazione del trauma, si è visto, si situa un ampio ventaglio di elaborazioni psicopatologiche (Pesare, 2023; Pesare 2019). Un’educazione alla risposta, non anestetizzata all’emotività e all’autenticità dell’esistenza, insegna a ri-significare anche l’evento traumatico, che turba l’equilibrio del soggetto, ma che nella risposta creativa può trovare il senso di ogni insegnamento di vita. Sebbene l’atto di una rettificazione soggettiva sfidi il soggetto nel vedere travolte le proprie difese, anche al di là della tollerabilità, proprio in questi punti traumatici può nascere una nuova vita. Da questo punto di vista, l’azione ordinatrice della cultura come rappresentazione educativa può forse ripartire dalla responsabilizzazione e dall’educazione alla risposta, assumendo la caducità come punto di ripartenza, anche a fronte delle sollecitazioni ambientali e culturali, contribuendo a mutare le relazioni che il soggetto instaura con la realtà, e dunque vedendo nello studio della soggettivazione una possibilità di rintracciare le analisi, le misure e la comprensione della contemporaneità e delle sue emergenze, in un progressivo avvicinamento alla verità del soggetto come proprium di ogni Filosofia dell’educazione.

Note

[1] Si fa riferimento, per l’ambito pedagogico, a Pesare 2023; tra i contributi sul tema, cfr. Cambi 2006; Fabbri 2019.

[2] Tra i numerosi contributi di ambito pedagogico sul tema, si citano Dallari 2005; D’Ambrosio 2006; Granese 2010; Agagiù 2023.

[3] Per ragioni di spazio ci si limita ad accennare all’articolazione della soggettività nella clinica lacaniana, che è il risultato di una elaborazione progressiva lungo il corso dell’opera dello psicoanalista e filosofo francese. Nella teoria lacaniana il soggetto è visto come una convergenza di tre Registri, ovvero tre differenti istanze psichiche che opererebbero simultaneamente, a livello intrapsichico e transindividuale, e mai considerabili agenti in maniera separata, tanto che Lacan utilizza la figura del Nodo Borromeo per raffigurare questa inscindibilità costituente. Tali Registri sono l’Immaginario, il Simbolico e il Reale. L’Immaginario riguarda la natura intrinsecamente proiettiva e relazionale del soggetto (della sua alterità) e nasce con l’incontro della propria immagine speculare tra i 6 e i 18 mesi di vita attraverso il medium della superficie riflettente (specchio o superfici dotate di proprietà specchiante). Il registro del Simbolico riguarda l’incontro con il linguaggio, specificità che segna il soggetto (definito da Lacan come parlessere). Per linguaggio si intende l’incontro con i significanti culturali tanto come operanti a livello individuale, quanto come inserimento del soggetto in un ordine simbolico, ovvero in un discorso sociale. Lacan consegna la definizione di Grande Altro come l’insieme dei riti, dei miti, delle strutture operanti in un determinato contesto socio-simbolico entro cui il soggetto è inserito, non potendone prescindere. Il Simbolico è animatore della dialettica singolare/plurale in cui il soggetto è immerso per avere garantita la propria intelligibilità culturale (Pesare, 2020). Il registro del Reale è invece quello che pertiene la relazione che il soggetto instaura con il proprio corpo pulsionale, quanto con il “vuoto causativo” operante nella propria struttura. Il Reale rappresenta tutto ciò che non è simbolizzabile eppure esiste, tutto ciò che riguarda il soggetto eppure sfugge all’ontologia, intrufolandosi però in essa cortocircuitando con le strutture simboliche che sovra-determinano il soggetto.

[4] Per “romanzo famigliare” si intende il complesso di fantasie consce e inconsce che il soggetto attiva in età edipica, e ciò in virtù di quel meccanismo di identificazione o misconoscimento verso l’immagine derivata dalla propria storia famigliare.

[5] “Tutte le risoggettivazioni dell’evento che gli sembrano necessarie per spiegarne gli effetti a ciascuna delle svolte in cui il soggetto si ristruttura, secondo il suo termine, Nachträglich, successivamente, après-coup” (Lacan, 1966, p. 250). Lacan riprende la nozione freudiana di Nachträglichkeit, facendola reagire tanto con l’evoluzione della sua clinica, quanto con la sua personale ricezione dell’insegnamento della linguistica strutturale. Come anticipato, è tratta dello scritto Funzione e Campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi (1953), dove è sintetizzato il lavoro di parola dell’analista, e la teoria lacaniana dell’inconscio strutturato come un linguaggio (ibidem).

[6] News La Forza del Territorio del 15 marzo 2023, nel sito “Coldiretti”, url: https://www.coldiretti.it/comunicato_stampa/news-la-forza-del-territorio-del-15-marzo-2023. Consultato per l’ultima volta il 7/10/23.

[7] Intendiamo per land art l’intervento artistico in natura che, in questo caso,rappresenta un output specifico e unico; si parla anche di “opera naturale partecipata”. Per la scrittura di questo paragrafo ci si è avvalsi, anche, delle proposte progettuali presentate dall’Associazione. Dalla rassegna stampa fornita, si segnalano L’artista che trasforma in sculture gli ulivi uccisi dalla Xylella, in "la Repubblica", 25 settembre 2022, e il servizio RAI del 25/10/2022 (TG1 ore 20:00); C. Cipriani, Gli ulivi diventano opera di land
art, in “Exibart”, url: https://www.exibart.com/arte-contemporanea/il-campo-dei-giganti-in-puglia-gli-ulivi-diventano-opera-di-land-art/ (ultima consultazione: 7/10/2023).
Il promotore del progetto, Ulderico Tramacere, è un artista che prima della Land Art si è avvalso della fotografia come linguaggio d’arte contemporanea. Tramacere approda all’arte ambientale a seguito di un percorso che parte da Nylon (Università Bocconi, Milano, gennaio 2020- aprile 2021) e L’Oro (marzo 2023, MIA Fair, Milano), progetti incentrati sul disastro fitosanitario prodotto dalla Xylella e sulla trasfigurazione poetica del rapporto ancestrale tra uomo e natura, che si incontrano nel trauma della malattia. Ha chiamato attorno a sé un collettivo informale di artisti e ricercatori per implementare le azioni del progetto pilota, il quale ha recentemente ricevuto l’attenzione del Fondo per l’Ambiente Italiano, il sostegno del Comune di Nardò (Lecce) e del Polo biblio-museale della Provincia di Lecce.

[8] Cfr. B. Giovara, Qui la Xylella l’ha piantata, in "Il Venerdì di Repubblica", 8 settembre 2023 per una rassegna sulle Residenze Artistiche 2023 (Cristiano Pallara, Daniele Papuli) ed eventi di restituzione con il coinvolgimento dei bambini e dei ragazzi dei centri socioeducativi del luogo, oltre agli interventi di compagnie teatrali (TerramMare Teatro), poeti e autori (Mario Capanna, Dario Muci, Giuseppe Semeraro), musicisti (Daniela Diurisi, Roberto Gagliardi).

[9] Intervista di Valeria Cucchiaroni a Ulderico Tramacere, in "TG1", 25 ottobre 2022, ore 20:00, url: https://www.youtube.com/watch?v=Gt8kaTUokMA.

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L'autrice

Chiara Agagiù è dottore di ricerca in Human and Social Sciences presso l'Università del Salento. Ha condotto attività di ricerca presso la Filozofska Fakulteta dell'Università di Ljubljana (SLO), dove già dal 2015 al 2017 ha ottenuto consecutivamente due fellowships MAE. Dal 2014 è responsabile dell’internazionalizzazione del Centro di Ricerca Laboratorio di Studi Lacaniani - Università del Salento. Svolge attività di pubblicazione scientifica attorno alla Filosofia dell'educazione e alla teoria e alla clinica di Jacques Lacan. La ricerca di tipo teoretico sulla soggettivazione nelle discipline psicopedagogiche è condotta nel rapporto tra psicopedagogia, psicoanalisi e filosofia, con particolare attenzione ai processi e ai prodotti socio-culturali contemporanei.