Come la vita stessa: perché il workshop è la via didattica privilegiata (ma non esclusiva) per l’educazione degli adulti | Like life itself: why the workshop is the preferred (but not exclusive) educational way for adult education

DOI: 10.5281/zenodo.8215044 | PDF | Educazione Aperta 14/2023

This article addresses the specific characteristics of the workshop as a most appropriate learning strategy for adults, because it promotes the development of participatory, creative, and reflective behaviors, which are considered, at the same time, manifestation and exercise of adult identity. On proceed to a critical consideration of its strengths and difficulties, and of distortions or reductionisms due to its superficial application, starting from a writing by Eduard C. Lindeman – author of The Meaning of Adult Education (1926), a milestone for andragogical theory and practice – explicitly dedicated to the workshop operating methods. The mainly purpose is to reveal and discuss some functionalities of experiential learning which, now as then, are regarding a concept of education based on active exercise of intellectual and emotional faculties, interpersonal relationships and enhancement of experience, in terms of situated knowledge, critical approach and reflexivity.

Keywords: E. C. Lindeman, adult education, experiential learning, laboratory teaching, workshop.


1. Alcune premesse: esigenze e istanze del contesto (di ieri, di oggi)

 

La rivista “The Journal of Higher Education” – fondata nel 1930, e tuttora attiva per i tipi della Taylor & Francis quale punto di riferimento del dibattito accademico statunitense sulla formazione superiore – pubblica l’articolo Like Life Itself. An Interpretation of the Educational Workshop di Eduard C. Lindeman nello stesso mese della sua morte. È il 13 aprile del 1953, infatti, quando a New York si spegne colui che può essere considerato il padre fondatore dell’Educazione degli adulti in senso moderno (Brookfield, 1987; Jarvis, 1987; Steward, 1987; Stubblefield, 1988) grazie all’opera The Meaning of Adult Education (1926) e, più in generale, all’impegno profuso per chiarire le finalità, le condizioni e gli strumenti che connotano le specificità dei processi formativi che interessano la stagione adulta della vita. Con l’esito, da un lato, di caratterizzare e di valorizzare tutta l’educazione come permanente e, dall’altro, di fare emergere quegli assunti che Malcom S. Knowles sistematizzerà e svilupperà poi nel cosiddetto modello andragogico (Knowles, 1973a; 1973b; 1989).

L’opera di Lindeman costituisce dunque un caposaldo, un vero e proprio “classico” dell’Educazione degli adulti, sia per averne argomentato una legittimità teorica che non si aggancia alle esigenze contingenti (l’alfabetizzazione, la formazione professionale ecc.), bensì trova nella coltivazione continua delle facoltà umane, in primis l’intelligenza, il suo perno sostanziale, affinché tutti siano messi nella condizione di poter attribuire significato alla propria esistenza, sia per aver individuato le implicazioni più squisitamente didattiche che, coerentemente, discendono da questa impostazione. Si tratta dell’esperienza elevata a libro di testo vivente, da cui partire e a cui ritornare con accresciuta consapevolezza; dell’approccio situazionale, cioè della problematizzazione critica di vicende reali della vita, a cui richiamare le elaborazioni disciplinari; del lavoro formativo strutturato in piccoli gruppi affinché si possa funzionalmente interagire, discutere e collaborare nel co-costruire conoscenza; del considerare e sfruttare ogni occasione, contesto, attività come potenzialmente educativi perché suscettibili di essere conosciuti, significati e trasformati, in un’interazione cosciente tra la dimensione individuale e la dimensione comunitaria del vivere (Marescotti, 2013).

La temperie storica in cui Lindeman matura ed esprime tali istanze – che egli condensa nella formula: l’educazione è vita – è ben determinata, ed è una realtà composita, eterogenea, vastissima e complessa, in rapida evoluzione come quella americana dei primi decenni del Novecento, in cui precocemente si sono evidenziate questioni riconducibili alle necessità di mobilità, coesione, emancipazione, inclusione e partecipazione sociale in seno e per il tramite di veri e propri “movimenti”, come quello, appunto, dell’Educazione degli adulti. Di cui, però, Lindeman intravvede lucidamente anche le possibili, pericolose derive: che essa diventi qualcosa di standardizzato, addirittura di commerciale; che si esaurisca nell’asservire le necessità del mondo economico-produttivo; che si limiti alla trasmissione di conoscenze precostituite e all’indottrinamento. Per questo sostiene sia imprescindibile chiarirne il significato e la portata di innovazione civile e adoperarsi affinché possa davvero diventare il principio ispiratore dei programmi e delle politiche formative: sul piano statale non meno che su quello locale, nella realtà urbana come in quella rurale, nei luoghi delle istituzioni educative, del lavoro, del tempo libero e della famiglia (Lindeman, 1921; 1922; 1924; 1926; 1933; 1934; 1952).

Mutatis mutandis, non possiamo quindi non rilevare come la considerazione di Lindeman per il dispositivo culturale, sociale e politico intitolato all’educazione abbia una valenza fortemente attuale, perché volta a coglierne gli elementi di funzionamento strutturale e le finalità intrinseche, tendenzialmente universali. Vale a dire aspetti che, pur plasmati nella, dalla e per la realtà storica in cui agiscono, puntano a trascendere i limiti di quel contesto e a proiettarsi in un orizzonte di senso più vasto e duraturo, mantenendo intatta e vitale la loro carica interpretativa, critica, progettuale. In questa prospettiva, Lindeman, come tutti i “classici” degni di tale appellativo, “ci serve” per meglio comprendere i fenomeni in cui siamo immersi, ovvero per disvelarne i meccanismi, le tendenze, i significati impliciti e per mettere a punto le linee guida non solo più efficaci per la formazione, ma più rispondenti alla tensione ideale miglioristica e inclusiva che anima l’educazione. Ecco, allora, che in riferimento al nesso tra princìpi ispiratori e finalità ideali dell’Educazione degli adulti, da una parte, e modalità attuative, prassi, metodologie didattiche, dall’altra, ritornare a riflettere su alcune analisi e argomentazioni del Nostro risponde al bisogno di mettere a fuoco il funzionamento dell’educazione. A cominciare dallo stabilire una corrispondenza mezzi-fini tale da innescare circoli virtuosi e da potenziare esponenzialmente, nel suo stesso progredire, la reale incidenza dell’educazione nello sviluppo individuale e collettivo.

Invero, il richiamo a quelle implicazioni di carattere didattico cui si accennava più sopra – e che trovano nel learning by doing di deweyana memoria la loro base più solida (Dewey, 1938a; 1938b) – è da tempo presente nella letteratura specificatamente dedicata all’Educazione degli adulti, con approfondimenti che affrontano le peculiarità di svariati modelli di apprendimento, dall’Embodied Learning all’Experiential Learning, dal Narrative Learning al Transformative Learning, dall’Engaged Learning all’Organizational Learning, per rammentare i più rilevanti, riconoscibili nelle loro specificità perché organici e strutturati, oltre che sperimentati (Biasin e Chianese, 2022). Modelli differenti, e quindi distinti e distinguibili, eppure che possono essere ricondotti ad una matrice comune, rispecchiata nella sua complessità di articolazione dalle aggettivazioni che a seconda dei casi li contrassegnano: generare cambiamento, riflessività e azione in relazione alle culture personali, ai modi di operare e di essere nei molteplici contesti di vita e di esperienza (Fabbri e Romano, 2017). Ciò significa, al fondo, considerare di importanza decisiva il fatto che le pratiche di formazione non debbano mai tralasciare di interrogare il senso, il contesto e i soggetti ai quali sono rivolte, riflettendo così anche sulle motivazioni, sui desideri e sui significati esistenziali che ogni apprendimento implica (Formenti, 2017, p. 17).

Seguendo questo tracciato, pertanto, si propone qui una focalizzazione critica relativamente alla questione del workshop come metodologia didattico-formativa o, meglio, come esperienza educativa in sé, per usare le parole di Lindeman, così come questi ha inteso significarla, mostrandone e discutendone non solo i punti di forza ma anche le difficoltà. Difficoltà che, come si vedrà, dipendono da impostazioni formative assai radicate nel nostro sistema culturale, ora come allora, e che richiedono di essere disvelate e affrontate apertamente, pena sminuire il workshop stesso – e ogni altra metodologia e situazione analoga – a mera moda didattica, assunta e svolta superficialmente, senza un’effettiva cognizione della ratio che lo legittima e giustifica in termini educativi, e che potremmo esprimere riprendendo un riferimento più comprensivo allo sviluppo dell’essere umano in tutti i suoi aspetti come “autonomo dispiegamento delle sue potenzialità in forme ludico-esplorative” (Visalberghi, 1988, p. 18) . Questa espressione, infatti, che si riferisce all’educazione come autoespressione, ci sembra qui particolarmente felice per sottolineare come il workshop si imperni su una visione che enfatizza non solo l’autonomia del soggetto, ma anche aspetti quali il gusto, la gratificazione, il piacere della formazione come ricerca personale.  L’occasione, dunque, si presta anche a fissare quelle condizioni di fattibilità e di significatività dell’apprendimento esperienziale che, non di rado, rischiano di essere sopravanzate da didatticismi e tecnicismi, da uno sbilanciamento di attenzione per i processi o per i prodotti, a seconda dei casi, o dalla caducità di un fare per fare, fine a se stesso.

2. Predisporsi all’apprendimento esperienziale: alcuni pesanti ostacoli da rimuovere

Non a caso si ricordava che l’espressione l’educazione è vita racchiude il convincimento più sentito e profondo di Lindeman circa sostanza e scopo dell’entità educativa, oltremodo evidente nell’Educazione degli adulti, quando i suoi attori testimoniano quotidianamente e in tutti gli ambiti esistenziali come l’esperienza sia, incessantemente, il motore e il traguardo di ogni atto creativo, conoscitivo e di intelligenza volto a dare alla vita stessa un significato, una direzione, uno scopo. A rendere propriamente educativo il metodo di lavoro tipico del workshop è, infatti, e in primo luogo, il fatto che esso si comporta come la vita stessa: fa lavorare insieme ad altri; porta a realizzare prodotti utili; ravvisa nel risultato finale la prova del successo o del fallimento di quanto si è fatto; non richiede incentivi illusori o fittizi; non necessita di esami artificiosi (Lindeman, 1953, p. 191).

Queste notazioni, come quelle che seguiranno, non sono solo il portato di speculazioni astratte o di deduzioni logiche ma, segnatamente, l’esito di un’osservazione attenta e partecipata che lo stesso Lindeman ebbe modo di compiere in occasione del Graduate Workshop in Education, svoltosi al Lewis and Clark College di Portland (Oregon) nell’estate del 1952, per il quale fu chiamato come esperto consulente esterno. I risultati attesi di quel laboratorio di specializzazione in ambito educativo consistevano nella messa a punto di due elaborati: uno relativo ad uno studio fattuale delle opportunità, delle risorse e delle esigenze ricreative di una precisa comunità nei pressi di Portland e l’altro riguardante un’analisi fattuale della consulenza professionale ivi presente. Due compiti estremamente concreti, ma altresì bisognosi di attività di rielaborazione, studio, valutazione, da svolgere mettendo in campo strumenti quali interviste, test, procedure statistiche, modalità di presentazione e di discussione. Tutto ciò portò i partecipanti a lavorare come se fossero stati all’interno di quella comunità, assumendo determinati ruoli in autonomia, giacché la presenza di Lindeman si limitava alla supervisione e all’essere interpellato solo laddove fosse necessario risolvere problemi specifici (come nella vita stessa accade quando si manifesta il bisogno di un parere esterno).

La scelta del workshop, proprio in virtù di questo suo allineamento analogico alle condizioni della vita reale, presenta dunque agli occhi di Lindeman una serie interessante di vantaggi rispetto all’apprendimento indiretto (studio di libri, ascolto di lezioni ecc.). Tuttavia, prima di passarli in rassegna e di motivarli, esplicandone il potenziale, egli ritiene necessario dedicare l’attenzione ad una disamina delle questioni che sovente impediscono a questo potenziale di svilupparsi pienamente, e che individua in tre ordini di ostacoli ascrivibili all’abitudine all’autorità, alla quantità di tempo necessario all’apprendimento e, non ultimo, alla difficoltà di mantenere un alto livello di intelligenza critica quando si è immersi nel “fare” tipico dell’attività laboratoriale.

Circa il primo aspetto, Lindeman constata che:

La prima e più ardua difficoltà risiede nel bagaglio di abitudini accademiche che ogni studente laureato ha accumulato nel suo percorso formativo e che porta con sé. Per tutta la vita, dai primi giorni di scuola fino all’università, è stato abituato alla pratica di riempire i suoi quaderni appuntando le idee di altri. Si è abituato all’autorità. Ciò che sa, o che pensa di sapere, è un insieme di conoscenze che non sviluppa da sé, bensì che appartiene a qualcuno che egli riconosce come autorità. Il suo deposito di apprendimenti è come un negozio di seconda mano pieno di articoli già usati, logori. Per godere autenticamente dell’esperienza di un workshop è necessario interrompere questa abitudine, e per la maggior parte delle persone è un processo faticoso (ivi, pp. 192-193, traduzione nostra).

È evidente, pertanto, che non ci si può illudere di ottenere i massimi benefici dal workshop considerandolo nella sua estemporaneità o limitandosi ad introdurlo ex abrupto in un sistema formativo improntato ad una logica di trasmissione-ricezione-restituzione che non concede spazio al discente di operare su e con la conoscenza. Questo porta, dunque, e sempre, a considerare quanto si palesa nell’ambito dell’Educazione degli adulti come pregnante per una messa in discussione del sistema educativo nel suo complesso, a partire proprio dall’impostazione scolastica. Come ci si può scoprire attivi e partecipi in relazione al proprio conoscere se tali posture non sono mai state valorizzate ed esercitate prima? E, viceversa, se essere attivi e partecipi del proprio apprendimento è di rilevante importanza per la qualità dello sviluppo, perché non si è avviati a questo approccio sin dalla scuola?

Sono quesiti che spostano il focus di interesse sull’educazione a tutto tondo, sul senso stesso dei processi di alfabetizzazione, di istruzione, di inculturazione e, via via, di formazione superiore, di specializzazione, di aggiornamento continuo, e che pongono l’accento sulla necessità di compenetrare l’acquisizione di contenuti con la padronanza di strumenti atti a trasformarli, arricchirli, crearli.

A seguire, Lindeman sostiene che:

La seconda difficoltà riguarda la quantità di tempo necessario all’apprendimento, anche in relazione alle aspettative di apprendimento. Assimilare le conoscenze acquisite e organizzate da altri è un’operazione rapida. Ciò che si apprende diviene subito conoscenza. Imparare dall’esperienza, invece, comporta una serie di fasi di apprendimento, sia immediato che differito. E ciò che viene acquisito durante l’apprendimento immediato sembra spesso poco importante. L’apprendimento differito – il più significativo che emerge dall’esperienza – non viene consapevolmente apprezzato durante l’esperienza stessa. Accade così che gli studenti che godono di un’autentica esperienza di workshop non si rendono conto di quanto questa contribuisce al loro apprendimento fino a quando, dopo un po’ di tempo, non hanno assimilato l’esperienza stessa (ivi, p. 193, traduzione nostra).

Questo passaggio, per quanto sintetico e anche semplice nella sua formulazione, ci sembra riesca a spiegare in modo efficace la complessità dell’apprendimento esperienziale che non si “consuma” con il consumarsi dell’esperienza che si vive, appiattendosi sulla dimensione del qui e ora, ma che individua un suo presupposto fondamentale nella permanenza di quanto esperito ben oltre al suo darsi fenomenico. È un processo di apprendimento, dunque, che non può basarsi solo sull’emozione o sulla corporeità coinvolte nelle attività laboratoriali, e che non si realizza meccanicamente, in modo automatico o spontaneo, bensì abbisogna del presidio continuo della razionalità e del tempo necessario affinché si possa compiere un lavoro di riflessione e di valutazione prima, durante e dopo lo svolgimento delle attività. In ognuno di questi momenti, infatti, si procede ad elaborare conoscenza, il cui compimento può avvenire anche dopo diverso tempo dalla conclusione del workshop stesso, quello necessario ad organizzarne i risultati e ad inserirli in una cornice di senso di cui si deve aver maturato padronanza.

Tale estensione temporale rischia, in buona sostanza, di scontrarsi con quelle aspettative di immediatezza che sembrerebbe pressoché intuitivo annettere all’imparare facendo e, a dire il vero, rovescia il convincimento comune secondo il quale l’attività di studio tradizionale (ossia esclusivamente libresco, per intenderci) richiederebbe più tempo rispetto a forme più dinamiche quali, appunto, un workshop in cui si alternano lavori di gruppo, ricerche sul campo, discussioni, produzione di elaborati di vario genere. Ancora una volta, Lindeman riconosce nella autenticità del workshop (genuine, del resto, è l’aggettivazione più frequente a cui egli ricorre nell’articolo che stiamo ripercorrendo) una svolta sostanziale per l’educazione, non solo degli adulti, nella misura in cui tiene insieme l’acquisizione di quanto già noto con l’innovazione che proviene dall’impiego costruttivo delle intelligenze, sempre nuove e diverse, di coloro che stanno vivendo un’esperienza di apprendimento.

Infine, la terza difficoltà:

Come fa il gruppo, in un’esperienza di workshop, a mantenere un alto livello di intelligenza critica? Nel corso di un workshop i partecipanti sono completamente immersi nel loro lavoro, nelle loro attività “sul campo”. Allo stesso tempo ci si aspetta che si comportino da studiosi. Ad esempio, si presume che leggano materiale inerente alla loro ricerca. Si prevede inoltre che impareranno a valutare le loro esperienze lavorative alla luce di adeguate prospettive intellettuali e teoretiche. Ma questo duplice approccio è molto difficile da realizzare. I partecipanti sono assorbiti dall’effettivo “fare” e sembrano volersi liberare dal “pensare”. Lavoro sul campo e intelligenza critica sembrano troppo incompatibili per essere combinati. Si fa troppo poca formazione di base ed è estremamente difficile “elevare” il livello della discussione al piano speculativo (ibidem, traduzione nostra).

Far interagire proficuamente la dimensione del fare con quella del pensare, senza sacrificare o trascurare l’una a favore dell’altra, e viceversa, rappresenta, nella visione di Lindeman, la sfida più impegnativa dell’apprendimento esperienziale, giacché richiede ai partecipanti una spiccata capacità di auto-monitorarsi e di auto-regolarsi nel mentre che si svolge l’apprendimento stesso. Egli allude, dunque, ad una vigilanza continua sulle proprie posture conoscitive la cui gestione, se per un verso attesta la maturità (in altri termini, l’adultità) dei partecipanti, per altro verso contribuisce a determinarla e a rafforzarla. Ma, anche in questo caso, non si tratta di consapevolezze, competenze e abilità acquisibili per abbrivio, bensì di una forma mentis che deve poggiare e nutrirsi di un’adeguata formazione pregressa, e propedeutica, sulla quale innestare modalità di lavoro apprenditivo di livello progressivamente superiore, come quello, appunto, che Lindeman ravvisa nella compenetrazione e continuo rimando tra piano concreto e piano astratto, tra particolare e generale, tra analisi e sintesi, tra procedimenti induttivi e procedimenti deduttivi.

3. Il workshop autentico: coraggio, sforzo, relazioni umane

Venendo ora ai punti di forza del workshop – che per buona parte si sono comunque già delineati, per contrasto, trattando delle difficoltà – non sembrerebbero quelle scelte per il titolo di questo paragrafo (coraggio, sforzo, relazioni umane) le parole chiave più adeguate ad esplicitarli, eppure Lindeman le utilizza quali indicatori, potremmo dire, della sua autenticità educativa. Una preoccupazione costante di Lindeman è, infatti, come già si diceva, che la messa in atto del workshop ne garantisca l’effetto trasformativo, accrescitivo, creativo sul piano contenutistico non meno che metodologico, perché solo se si configura e si comporta come occasione di ricerca può essere definito un “vero” workshop educativo. Se il suo scopo è quello di conferire alle persone padronanza circa la conoscenza applicabile in situazioni concrete, è necessario essere in grado di approcciarsi alle situazioni con sentimenti di serenità, disinvoltura, sicurezza e fiducia in se stessi che non derivano dalla presunzione, ma dalla consapevolezza di aver già vissuto un’esperienza simile. Ciononostante, sarebbe riduttivo considerare il workshop solo in termini di simulazione o di preparazione alle situazioni della vita (che, in quanto tali, non sono mai prevedibili nella loro complessità e varietà) e più corretto, piuttosto, concepirlo come non separato dalla vita, come la vita stessa. In questo senso:

Questa, quindi, è la prima delle gratificazioni che si ottiene dalla formazione in autentici workshop: le persone saranno pronte ad affrontare lo stesso tipo di situazioni che le aspetta nella vita reale e saranno dotate di quel tipo di coraggio forgiato direttamente dall’esperienza (ibidem, traduzione nostra).

Si tratta, pertanto, di una disposizione ad affrontare le situazioni con volontà di comprensione e di risoluzione dei problemi che si possono presentare, e non certo dell’assunzione di una sorta di protocollo da applicare rigidamente o dell’assimilazione di ricette preconfezionate da eseguire; dell’essersi in qualche modo allenati ad andare incontro, e per certi aspetti ad aggredire, metaforicamente, le situazioni della vita, consci di poter fare affidamento su un’attitudine conoscitivo/trasformativa coltivata attraverso la metodologia del workshop vivendo esperienze reali, anche se predisposte intenzionalmente con finalità formative.

Il secondo vantaggio del workshop riguarda la dimensione emotivo-affettiva, nella misura in cui è assunta come quella dimensione che sollecita ad agire e che pertanto necessita di essere gestita con sapienza: in quest’ottica, è l’armonizzazione tra logos e pathos – che Lindeman aveva già sottolineato, asserendo che l’educazione punta alla realizzazione di personalità integrate, ove le emozioni si compenetrano con l’intelligenza (Lindeman, 1926, pp. 103-105) – a connotare lo sforzo che l’individuo compie nell’apprendimento esperienziale e che diviene esso stesso un suo punto di forza:

La vita è una lotta continua per portare il nostro sentire ad essere in linea con i fatti. Le emozioni sono la molla principale dell’azione. Noi passiamo dall’inerzia all’azione perché in qualche modo siamo arrivati ​​a sentire che qualcosa è importante. Ma questo nostro sentire è notevolmente inaffidabile. Se non sono mitigati dai fatti, i sentimenti ci portano inevitabilmente fuori strada. Come si acquisisce, allora, una giusta considerazione dei fatti? Sembra che esista una sola via, cioè quella, ardua, di dare vita ai fatti attraverso i propri sforzi. In un’esperienza di workshop può accadere che i fatti scoperti siano estremamente semplici. Tanto semplici da sembrare relativamente poco importanti. Ciò che è importante, tuttavia, è la realtà incarnata nel processo conoscitivo stesso dei fatti (Lindeman, 1953, p. 194, traduzione nostra).

L’apprendimento in questione, perciò, ha una valenza che è sempre duplice, se non triplice: riguarda i fatti in sé e per sé (e questo, al fondo, pare essere l’aspetto meno rilevante…); riguarda i processi con cui i fatti vengono scoperti, considerati, accertati, ossia resi oggetti di conoscenza (e si tratta di processi trasferibili anche ad altri fatti e contesti); riguarda, infine, la consapevolezza e la capacità di valutare, soppesare e gestire il nostro coinvolgimento nell’atto stesso del conoscere (ed è, questo, un habitus che, in quanto tale, l’individuo può far proprio e portare sempre con sé).

Infine, nel chiudere le sue argomentazioni, Lindeman rileva che

Forse il più rilevante di tutti i vantaggi dell’apprendimento in un workshop si situa nel campo delle relazioni umane. In primo luogo, agli insegnanti e ai consulenti viene assegnato un ruolo normale. Tutti lavorano. L’insegnante non si pone al di fuori del processo, pontificando da una posizione di autorità. È parte del gruppo di lavoro. Se quanto prodotto dal gruppo si rivela un fallimento, l’insegnante stesso ha fallito. Non può mascherare il suo fallimento nascondendosi dietro una serie artificiale di domande d’esame a cui, tra l’altro, qualcun altro ha già risposto per lui. Il workshop umanizza l’insegnante. Allo stesso tempo, tutti i componenti di un gruppo di workshop possono pervenire a conoscenze reciprocamente utili, che si rivelano solo in un rapporto di lavoro. Quando l’apprendimento rimane a livello verbale o “libresco”, è possibile che un individuo superficiale si guadagni una reputazione di saggezza. Questo non può accadere in un workshop. In condizioni di lavoro collettivo, ogni individuo rivela la sua vera personalità. Alla fine ognuno viene apprezzato per il suo reale valore, la sua capacità di rendimento. Se vogliamo migliorare costantemente le relazioni umane, credo che dovremmo imparare a lavorare con gli altri. In effetti, questa è la semplice prova delle buone intenzioni verso gli altri, la dimostrazione che il lavoro svolto in modo cooperativo conduce all’apprezzamento delle differenze umane. Parlarne soltanto non è sufficiente (ibidem, traduzione nostra).

La relazione in atto, in definitiva, è quanto conferisce concretezza alle potenzialità dell’apprendimento esperienziale: il farsi delle relazioni, il vivere il confronto, l’integrazione, lo scambio di vedute e di approccio ai problemi e il porsi insieme ad altri considerandoli funzionali al raggiungimento di uno scopo porta a collocare (e a collocarsi) l’apprendimento nell’alveo della dinamicità che trasforma e che crea, perché rende evidente che ciò che si apprende non era già presente prima dell’azione dell’apprendere stesso, ma è ad essa consustanziale, e che non si limita ai soli contenuti o, meglio, che i contenuti dell’apprendimento sono comprensivi delle cognizioni e dei modi attraverso i quali sono stati plasmati.

4. Considerazioni conclusive

Il workshop è, per queste ragioni, la via didattica privilegiata per l’educazione, massimamente degli adulti. Va ora spiegato perché nel titolo abbiamo altresì voluto rimarcare che privilegiata non vuol dire esclusiva. I motivi sono essenzialmente riconducibili a una considerazione di carattere, potremmo dire, logico, per un verso, e alla volontà di evitare quegli approcci unilaterali e preclusivi che potrebbero facilmente discendere dalla valorizzazione entusiasta di una pratica, per altro verso.

Circa il primo punto, va detto che se è vero che l’esperienza del workshop va intesa e trattata come l’esperienza reale che effettivamente è, è altrettanto vero che le attività che vi si svolgono – sia pure laddove da “compiti autentici” tendono il più possibile ad avvicinarsi a “compiti di realtà”, per usare una distinzione oggi particolarmente sensibile in ambito didattico – risentono inevitabilmente dell’artificiosità necessaria a predisporle e controllarle come situazioni di apprendimento. Come la vita stessa non significa la vita stessa, quel “come” ha un suo peso. Per ritornare al caso specifico da cui Lindeman ha preso le mosse, laddove il gruppo di lavoro del Lewis and Clark College non fosse stato in grado di espletare l’incarico di ricerca in modo soddisfacente, o nei tempi assegnati, non avrebbe conosciuto le reali conseguenze di un committente deluso: un licenziamento, una mancata retribuzione, una vertenza o anche solo un’attestazione di sfiducia tale da comprometterne la reputazione e quindi il successo professionale. E si potrebbero fare ovviamente anche altri esempi a riguardo, per ricordare che il contesto del workshop formativo deve inevitabilmente sottostare a dispostivi di controllo e di protezione rispetto alle dinamiche anche irreversibili delle situazioni di vita “senza rete” o senza possibilità di replay, per intenderci.

Questa necessaria, perché funzionale al workshop stesso, artificiosità si ricollega poi al secondo punto cui abbiamo fatto cenno: l’enfasi posta sull’apprendimento esperienziale diretto non deve essere confusa con il rifiuto degli apprendimenti che poggiano sull’esperienza vicaria o sulla trasmissione di saperi, giacché la formazione contempla anche una dimensione trasmissivo-cumulativa che non necessariamente corrisponde alla passivizzazione dell’individuo che si pone “in ascolto”. Al contrario: il corpus di conoscenze maturate in un determinato contesto culturale diventano, insieme all’esperienza del singolo, il materiale su cui far lavorare le facoltà individuali e del gruppo. Ciò crediamo debba essere ribadito con chiarezza e fermezza, affinché occasioni come quelle del workshop non si svuotino di contenuti culturali snaturandosi in virtuosismi metodologici ad essi indifferenti, ma possano diventare vere e proprie “officine” in cui il patrimonio culturale in essere deve fare il suo ingresso per essere discusso, maneggiato, verificato, trasformato, ma anche consolidato e conservato nelle sue componenti di qualità e di complessità. “Officine” in cui sperimentare e allenarsi a prestare attenzione, giacché

[…] per percepire il problematico è necessario attivare uno sguardo di intelligenza sul reale. La perplessità da cui ha origine il pensare riflessivo non è, infatti, uno stato mentale inaspettato, come è lo stupore. La mente avverte la perplessità quando è disposta a coglierla, quando è vigile e sta in guardia. […] Tale capacità di attenzione, che si traduce in un’attenta nominazione e messa in cornice del problema, è un apprendimento che si sviluppa attraverso un adeguato processo di formazione, che mette al centro lo sviluppo della capacità riflessiva. È difficile che si verifichi quello stato di disagio cognitivo che, conseguente alla percezione di una dissonanza, ossia di un elemento problematico, è all’origine di un processo d’indagine quando il pensiero scivola sugli eventi lasciando che le cose accadano così come accadono senza interrogarle. È la vigilanza critica sulla qualità della fenomenicità dell’esperienza la condizione necessaria per attivare una prassi attenta alla realtà (Mortari, 2017, pp. 26-27).

In questo senso, l’esperienza non è solo generativa ma, anche, rigenerata e rigenerante, e suscettibile di dar luogo a quel “quarto sapere” che, rispetto agli altri tre (quello delle conoscenze già assodate, quello delle capacità necessarie per affrontare i compiti della vita quotidiana e quello degli atteggiamenti necessari per impiegare in modo proficuo conoscenze e abilità in situazioni concrete; segnatamente sapere, saper fare, saper essere) non è residuale o il frutto di una loro combinazione, bensì qualitativamente diverso (Reggio, 2010, pp. 26-27). L’ottica, dunque, è quella dell’integrazione degli approcci, e non dell’alternativa, così che nessuno in particolare ne cancelli o si sostituisca ad un altro. Lo stesso Lindeman, occorre precisarlo, nel puntare l’attenzione sulla didattica esperienziale non espungeva mai del tutto il ricorso ai libri o agli esperti, anche se intendeva apertamente riservare loro una posizione non più predominante. Del resto, ci sembra quest’ultima una preoccupazione del tutto contemporanea: a fronte del moltiplicarsi ampissimo, rapidissimo e anche disorientante delle fonti del sapere, e dell’altrettanto facile, perché istantanea e pervasiva, accessibilità ad esse – è evidente che ci stiamo riferendo al World Wide Web e ai sempre più sofisticati sistemi di intelligenza artificiale – si palesa con tratti inediti un problema di affidabilità e di generalizzazione delle conoscenze poste in capillare circolazione.

Queste ultime considerazioni portano vieppiù ad evidenziare come il metodo del workshop possa essere a buon diritto ricondotto sia all’orizzonte teorico-operativo della formazione sia, in particolare, alla nozione di “competenza strategica” come è stata definita proprio nell’ambito dell’Educazione degli adulti o, meglio, del paradigma del lifelong learning:

[…] con il concetto di competenza strategica per il lifelong learning si fa riferimento non a una abilità specifica ma a una metacompetenza, intesa anche nel senso di potere di apprendere (learning power) o energia apprenditiva (learning energy), che è il risultato della capacità di mobilitazione di un complesso di dimensioni/direttrici del sapere, e dell’agire, integrate in modo significativo, che vanno a connota e il profilo culturale adulto, funzionale rispetto alle istanze di riflessività dei contesti di vita (Alberici, 2008, p. 47).

Ecco perché il “vero” workshop continua ad essere qualcosa di impegnativo, che richiede sforzo, applicazione e disponibilità ad acquisire strumenti di interpretazione che passano anche attraverso momenti assimilativi e di confronto, giacché non coincide con la propria personale (e limitata/limitante) esperienza, bensì allude ad un esercizio apprenditivo continuo che si configura esso stesso come un apprendimento.

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L'autrice

Elena Marescotti è Professoressa associata all’Università degli Studi di Ferrara, dove insegna Educazione degli adulti, Educazione e comunicazione per la sostenibilità e Bisogni educativi e formativi della società. Dirige la rivista “Annali online della Didattica e della Formazione docente”. Tra le sue pubblicazioni: Educazione degli adulti. Identità e sfide (2012);  Il significato dell’educazione degli adulti di Eduard C. Lindeman. Un classico dalle molteplici sfaccettature (2013); Adultescenza e dintorni. Il valore dell’adultità, il senso dell’educazione (2020); Educazione permanente e degli adulti: storia di un’idea. Interlocutori privilegiati e concetti fondativi (a cura di, 2022).