Cinema, scuola, educazione: tre film di quest’anno | Cinema, School, and Education: Three Films from the Past Year
DOI: 10.5281/zenodo.14604008 | PDF
La sala professori (Das Lehrezimmer – The Teacher’s Lounge). Germania, 2023. Regia: Ilker Çatak. Sceneggiatura: Ilker Çatak, Johannes Duncker. Fotografia: Judith Kaufmann. Montaggio: Gesa Jager. Musiche: Marvin Miller. Produzione: If Productions. Con: Leonie Benesch (Carla Novak), Leonard Stettnisch (Oscar), Eva Lobau (Friederike Kuhn). Durata: 98’.
Mentre partono le note dell’Ouverture dal Sogno di una notte di mezza estate di Felix Mendelssohn-Bartoldy compare sullo schermo l’immagine di un ragazzino trasportato su quella che sembra una sedia gestatoria.
Non lo è. Non è così. Tutto il film scritto e diretto da Ilker Çatak è, infatti, un invito a riflettere su ciò che appare e ciò che è, su dove stia e in quali gradi sia possibile la verità, sul controllo e sulla libertà. La sala professori è il primo di tre film (tutti e tre del 2023, ma usciti nelle sale italiane fra la primavera e l’autunno di quest’anno) che hanno raccontato in modo non usuale ambienti di scuola e figure dell’educazione.
Carla Novak (Leonie Benesch) è un’insegnante di matematica e di educazione fisica in una scuola media di Amburgo. Da qualche tempo l’istituto è funestato da una serie di piccoli furti, sia ai danni degli studenti che degli insegnanti, di cui si sta cercando il colpevole.
Anche Carla ne subisce uno, dopo che aveva predisposto il suo computer portatile a riprendere ciò che accade nella sala professori, dove ha lasciato incustodita la sua giacca con dentro il portafogli. Come il sassolino che rotola dalla montagna e provoca una valanga, il piccolo video da lei realizzato porterà nella vita scolastica una serie di conseguenze sempre più drammatiche.
Ilker Çatak, regista turco che lavora in Germania, ha scritto questo film insieme al suo amico d’infanzia Johannes Duncker, partendo da una loro comune esperienza quando abitavano a Istanbul e avevano l’età dei giovani protagonisti della storia.
Presentandolo in anteprima a una trentina di sale cinematografiche italiane collegate online, la sera di domenica 25 febbraio, ha raccontato che il film – uscito in Germania e in altri paesi circa un anno fa – ha avuto un’ottima accoglienza anche negli Stati Uniti, dove spesso gli è stato raccontato che il pubblico si aspettava che da un momento all’altro qualcuno estraesse una pistola e cominciasse a sparare.
La tensione della vicenda è, come detto, molto evidente e sempre più accentuata. Ma non siamo di fronte ad un thriller. La stessa vicenda dei furti non è, infatti, che il pretesto narrativo per la costruzione di una serie di situazioni che vedono implicata la protagonista e che pongono a tutti noi molti interrogativi sullo stato di salute della scuola (non solo quella tedesca) e, più in generale, della società.
L’interpretazione magistrale di Leonie Benesch è costruita ricorrendo ad un uso del corpo, non solo del viso, che appare sempre più teso e agitato – con molti momenti in cui le mani assumono un’importanza molto significativa – via via che la vicenda si fa più intricata e drammatica. Il rapporto con i suoi giovanissimi studenti sembra inizialmente amichevole e sereno, certo molto più che quello con i colleghi. Ma i ragazzini e le ragazzine sono tutt’altro che sottomessi e acquiescenti e – questo mi pare uno degli aspetti più interessanti di un film che ne ha davvero molti – intendono prendere la parola con interventi niente affatto a sproposito.
Ma le nuvole, in senso letterale, si addensano ben presto. C’è un violento temporale mentre si svolge una tesissima riunione con i genitori. Più avanti ce ne sarà un altro, con un intenso confronto di sguardi tra l’insegnante e la madre di uno dei suoi alunni.
Si approfondisce così la riflessione sugli stereotipi culturali e sociali e su quanto essi influenzino i punti di vista e i giudizi sulle persone. Fino al punto di rottura, che avviene anch’esso concretamente, e che mette di fronte la professoressa Carla e uno dei suoi migliori studenti, Oscar (Leonard Stettnisch), figlio di una collaboratrice scolastica che con l’insegnante ha avuto in precedenza un durissimo scontro.
E qui, mediato dal cubo di Rubik (Oscar è bravissimo in matematica), il rapporto fra i due diventa un confronto tra mondi e concezioni del mondo. Carla è di genitori polacchi, arrivati in Germania dopo la caduta del muro di Berlino, ma non è disponibile a parlare in polacco col collega che ha la sua stessa origine. Cerca al massimo delle sue forze di comprendere ragioni e sentimenti dei suoi alunni e delle sue alunne, spesso scontrandosi con i colleghi per questa sua disponibilità che viene ritenuta eccessiva. Oscar, ritenendo di aver subìto un torto, prima organizza una vera e propria rivolta degli studenti e delle studentesse. Poi, ulteriormente perseguito per atti ritenuti dolosi, si barrica nella resistenza passiva, con un atteggiamento che lo stesso regista ha invitato a ricondurre allo scrivano Bartleby di Herman Melville e al suo “Preferirei di no”.
Tutt’altro che consolatorio e pacificatorio, La sala professori ha persino momenti di cattiveria quasi esilarante, se non fosse riconducibile alla lucida follia di troppi comportamenti degli adulti, come quando il consiglio di classe, reiterando la linea politica della preside che richiama alla tradizione di un istituto che ha scelto la “tolleranza zero”, procede al voto democratico che sancisce il massimo della pena per lo studente considerato reo.
Scandita dai pizzicati ostinati degli archi messi in partitura da Marvin Miller, come se fossero lancette di un orologio amplificato, la vita nella scuola in cui insegna Carla diventa manifestazione conclamata dell’incrinarsi delle sue certezze professionali ed esistenziali, con un momento in cui la realtà e i suoi pensieri sembrano sovrapporsi creandole un fortissimo disagio.
Qual è il confine tra il controllo e la repressione? Quale quello tra la democrazia e la dittatura, se pur ammantata di formale cortesia? Dove sta il discrimine tra i fatti, la loro interpretazione e la verità? O, forse, è possibile una scuola e una relazione educativa meno ossessionate dalla ricerca di verità assolute e più attente alle persone in carne e ossa e pensieri e paure ed entusiasmi e incertezze?
Le risposte non ci sono, dentro questo film, né potrebbero esserci e benissimo hanno fatto il regista e il suo co-sceneggiatore a non azzardarle, perché sarebbero state posticce e poco credibili.
Ma le domande che pone sono per tutte e tutti noi, a patto che ci si predisponga alla visione spogliandoci della difesa preventiva dei nostri ruoli, che sono molto meno saldi e inattaccabili di quanto pretenderemmo.
Il maestro che promise il mare (El mestre che va prometre el mar). Spagna, 2023. Regia: Patricia Font. Soggetto: dal romanzo El maestro che prometìo el mar di Francesc Escribano. Sceneggiatura: Albert Val. Fotografia: David Valldepérez. Scenografia: Anna Auquer. Costumi: Maria Armengol. Musica: Natasha Arizu del Valle. Con: Enric Auquer (Antonio Benaiges), Laia Costa (Arianna), Luisa Gavasa (Charo), Felipe Garcia Vélez (Carlos adulto). Produzione: Carlos Fernàndez, Laura Fernàndez, Tono Folguera, Francesc Escribano. Distribuzione: Officine Ubu. Durata: 105’.
Il film di Patricia Font inizia là dove finisce Madres paralelas (2021) di Pedro Almodovar: durante gli scavi che riportano alla luce le fosse comuni con i resti delle decine di migliaia di donne e uomini trucidati dai franchisti.
È lì che si recherà Arianna (Laia Costa) per cercare tracce del proprio bisnonno, mentre il nonno materno, Carlos, è in una casa di riposo verso la fine dei suoi anni, senza mai aver parlato né alla figlia né alla nipote degli anni della sua infanzia.
Così come accade in Cielo di fuoco (Usa, 1949) di Henry King, grande film sulla memoria della guerra mondiale, è una folata di vento che le scompiglia i capelli a introdurci nel primo di una serie di flash-back che raccontano la storia del maestro Antonio.
Giunto ad insegnare a Banuelos de Bureba, un borgo nella provincia di Burgos, il giovane insegnante riesce a poco a poco a conquistare l’attenzione e la fiducia dei suoi giovanissimi allievi, mettendo in pratica tutti gli insegnamenti e le tecniche di Célestin Freinet: la tipografia a caratteri mobili con la quale comporre piccoli libri e un giornale; la corrispondenza con scuole di tutto il mondo; l’osservazione all’aria aperta.
La scelta dello sceneggiatore Albert Val e della regista è di alternare il tempo presente della ricerca di Arianna con i ricordi dei giorni di scuola del maestro Antonio e della sua classe. Scelta quanto mai opportuna, che evita il rischio, sempre presente in opere come questa, del facile sentimentalismo e della nostalgia consolatoria. Toccando in alcuni momenti persino il registro del didascalico, ma di un didascalico né stucchevole né posticcio, il film tratta con rigore e precisione sia il tema della memoria e della storia, sia quello della pedagogia innovativa e ovviamente malvista dai notabili laici (il sindaco) o clericali (il parroco) della cittadina della regione di Castiglia e Lèon.
È un maestro che non sta in cattedra, che stacca il crocifisso perché la scuola della Repubblica spagnola che sarà poi piegata dal franchismo è laica, che dichiara senza mezzi termini la sua volontà di permettere ai bambini e alle bambine di essere bambini e bambine in pieno, senza la strumentalità falsamente prodiga degli educatori che li vogliano considerare piccoli adulti da preparare al mondo dei grandi dove si dev’essere forti e lavorare sodo.
C’è un tema che ricorre sia nei giorni d’oggi in cui si dipana la ricerca di Arianna sia nell’epoca remota del maestro Antonio: il cavallo. Il cavallo che intaglia nel legno il giovanissimo Carlos, ospitato dal maestro perché il padre Bernardo si trova in carcere; il piccolo cavallo anch’esso di legno che dondola allacciato allo specchietto retrovisore dell’auto usata da Arianna per i suoi spostamenti.
E la parola “cavallo” che il ragazzino Carlos, non più analfabeta perché si è fatto convinto di accettare gli insegnamenti del “maestro più bravo del mondo” scrive correttamente così come farà per tutta la frase richiesta, nella sequenza della visita dell’ispettore scolastico che bisognerebbe far veder a tutti coloro che continuano a sostenere che l’educazione attiva non favorisce l’apprendimento.
È un film da proporre alla visione scolastica – a mio parere già nel terzo anno della secondaria di primo grado – perché può insegnare davvero molte cose. Il dovere della memoria, ad esempio, che non può tuttavia esser disgiunto da una rigorosa ricostruzione storica, come dimostrano le molte sequenze in cui si fa ricorso a documenti, registri, archivi, foto d’epoca e a quante più fonti possibili, compresa la testimonianza orale dei sopravvissuti.
Memoria e storia che tuttavia incontrano ostacoli sia nella difficoltà di reperire la documentazione, sia nella reticenza – che in Spagna è ancora forse più forte che altrove – degli stessi ultimi testimoni viventi a parlare di un passato evidentemente ancora vivo con tutte le sue ferite e tutti i suoi orrori.
Anche per questo vanno seguiti per intero i titoli di coda, nei quali compaiono una serie di fotografie e di reperti che rafforzano ancor più l’emozione del racconto che si è fino a quel punto seguito.
Così come potrà essere interessante rivedere l’opera in lingua originale, con una serie di probabili sottigliezze derivanti dal confronto tra castigliano e catalano che con il doppiaggio in italiano si sono perse in modo probabilmente inevitabile.
Madres paralelas terminava con una frase di Eduardo Galeano che potrebbe benissimo stare anche ad esergo de Il maestro che promise il mare: “Per quanto si tenti di ridurla al silenzio, la storia umana si rifiuta di tacere”.
Non tace il romanzo di Francesc Escribano, non tace il film di Patricia Font, per quanto vada a chiudersi – a dirci che c’è ancora un ampio margine di rimozione e oscurità da riempire – con l’afasia dell’anziano Carlos, solo in tarda età giunto in riva al mare.
Non tace l’associazione Escuela Benaiges (escuelabenaiges.blogspot.com), che si è data come scopo la perpetuazione della memoria del maestro Antonio e dei suoi insegnamenti e che ha contribuito alla realizzazione di questo film bello e importante.
Maria Montessori. La nouvelle femme. Francia/Italia, 2023. Regia: Léa Todorov. Sceneggiatura: Léa Todorov, Catherine Paillé. Fotografia: Sébastien Goepfert. Scenografia: Pascale Consigny. Costumi: Agnès Noden. Montaggio: Esther Lowe. Con: Jasmine Trinca (Maria Montessori), Leola Bekthi (Lili d’Alengy), Raffaèlle Sonneville-Caby (Tina d’Alengy), Raffaele Esposito (Giuseppe Montesano). Produzione: Grégoire Debailly. Distribuzione: Wanted Cinema. Durata: 114’.
Attrice e regista di documentari, fino a questo che è il suo primo lungometraggio, Léa Todorov è figlia del filosofo Cvetan Todorov e della scrittrice Nancy Huston (che compare nel film nella parte della munifica madame Betsy che finanzierà le imprese montessoriane) ed è madre di una bambina neuroatipica, di quelle che almeno fino all’inizio del secolo scorso venivano catalogate nella categoria dei “deficienti”.
Anche per questo ha probabilmente scelto di dedicare un film a Maria Montessori – in precedenza trattata televisivamente nella discutibile miniserie Maria Montessori. Una vita per i bambini, del 2007, scritta da Gianmario Pagano e Monica Zapelli e diretta da Gianluca Maria Tavarelli, con Paola Cortellesi come protagonista. E cinematograficamente con la rappresentazione di una scuola montessoriana, con un’insegnante che assomiglia molto fisicamente alla madre fondatrice, che compare ne Il padre di famiglia, 1967, di Nanni Loy, con Nino Manfredi e Leslie Caron.
La scelta operata da Léa Todorov e dalla co-sceneggiatrice Catherine Paillé è stata quella di prendere in esame la prima parte della vita professionale e di quella privata della psichiatra e pedagogista marchigiana. Nel 1900 Maria Montessori lavora a fianco di Giuseppe Montesano nella ricerca di nuovi metodi scientifici per la cura dei bambini ritardati.
In quest’epoca e in questa situazione la regista ha deciso di inserire un personaggio di fantasia, la cocotte Lili d’Alengy, madre di Tina, bambina con gravi problemi di linguaggio e di apprendimento, che decide di recarsi a Roma per affidarla all’istituto di cui ha sentito tanto ben parlare.
L’espediente narrativo è finalizzato alla costruzione di un racconto che ha come temi portanti la maternità, l’indipendenza economica e professionale della donna, la costruzione di una educazione nuova che non avesse l’esclusione e l’allontanamento degli “anormali” come base portante.
Maria (personaggio storico, straordinariamente interpretato da Jasmine Trinca) e Lili (personaggio di fantasia, a cui dà volto e voce Leola Bekthi) sono due madri in difficoltà. La seconda non accetta la disabilità della figlia. La prima ha un figlio, Mario, che ha due anni all’epoca del racconto, avuto da Montesano in una relazione che lei stessa non vuole sancire col matrimonio e a causa della quale il bambino dev’essere in pratica tenuto nascosto dalle convenzioni sociali e dal benpensante senso comune dell’epoca.
Nei primi minuti del film c’è un’inquadratura nella quale Lili e Tina si riflettono in tre specchi davanti ai quali è seduta la cortigiana che si prepara al riposo serale, e si tratta di un evidente segnale visivo della divisione emotiva e fisica tra loro e anche tra loro stesse. Va ricordato che Tina è interpretata dalla brava e intensissima Raffaèlle Sonneville-Caby, bambina neurodivergente così come altri e altre interpreti del film, ed è un grande merito di una realizzazione cinematografica nella quale c’è stato un evidente lavoro di applicazione pedagogica anche sul set.
Sarà attraverso la conoscenza prima della dottoressa (che al primo incontro non viene riconosciuta come tale, così come stentano a fare anche moltissimi dei colleghi maschi) con la bambina, poi delle due donne che a poco a poco imparano a capirsi, che Maria Montessori maturerà non solo l’idea di poter applicare le sue intuizioni definite scientificamente e l’uso dei suoi materiali anche con i bambini “normali”, ma anche che il piccolo figlio ha bisogno di qualcosa di più che la vita in campagna con la balia che lo sta crescendo.
È un film scritto da donne, diretto da una donna, donne sono anche la costumista e la responsabile del montaggio, incentrato sul rapporto tra due madri, nel quale la parte dei maschi è quasi del tutto relegata a quella di adagiati nel proprio storico privilegio patriarcale – sono amanti a pagamento della cortigiana o luminari dell’università attaccati alle proprie certezze che ritengono incrollabili – che non si rendono conto che il mondo attorno a loro sta cambiando con grande velocità e in modo irreversibile.
Anche nella breve ma importante sequenza nella quale si immagina l’incontro di Montessori con la teosofia, che ispirerà non poco il suo pensiero e le sue azioni, sono le donne ad avere la parte preminente, mentre ai maschi è riservato solo un ruolo di accompagnamento ritmico.
La potente riflessione sull’importanza fondamentale della maternità – apparentemente contraddetta nella decisione di Montessori di lasciare il figlio al padre che ha deciso di sposarsi con un’altra donna: non lo vedrà per 12 anni, dopo i quali Mario tornerà a vivere con lei, ne assumerà il cognome e non la lascerà più – inizia durante l’ultimo confronto tra Montessori e Montesano con un quadro di maternità mariana ben visibile in secondo piano.
Così come è da notare che spesso le voci di chi detiene il potere (il rettore, il primario, la ricca signora) si sentono mentre non vengono inquadrati i soggetti che stanno parlando: il potere parla senza volto.
E c’è dentro questo film un compito predominante assegnato alla musica: Tina e la madre che cercano con un esito che sarà catastrofico di suonare insieme un pianoforte molto scordato; la stessa Lili che fa scoprire agli ospiti dell’istituto per ritardati la bellezza della musica; una magnifica sequenza centrale nella quale musica, corpi e pedagogia danzano insieme con una espressività artistica e una significanza pedagogica più forti di mille e mille parole.
Molto correttamente ricorrono in un paio di momenti i riferimenti a pionieri della presa in cura di “deficienti” come Jean Itard e Eduard Séguin. Riferimenti che non possono che rimandare a un capolavoro del cinema e del cinema pedagogico come Il ragazzo selvaggio di Francois Truffaut, che interpreta lo stesso Itard.
Ed è nella grande tradizione del cinema francese di ispirazione pedagogica che possiamo a pieno diritto inserire quest’opera prima di Léa Todorov, che fra i molti meriti ha anche quello di riportare Maria Montessori ad un’origine di rigore scientifico, metodologico ed etico che talvolta pare perdersi nell’eco del passato remoto, in un’epoca in cui il suo metodo e le sue riflessioni rischiano in continuazione di esser ridotte a marchio commerciale per la conquista di spazi di mercato della didattica molto più interessati al risultato economico che alla fedeltà, pur nel necessario adattamento alle trasformazioni della storia e della tecnologia, ai principi originari.
L'autore
Carlo Ridolfi è nato a Verona nel 1957 e lì ha vissuto e lavorato per cinquant'anni, prima di trasferirsi a Padova. È giornalista pubblicista, iscritto all'Ordine del Veneto, dal 1981. Come padre di quattro figli, si occupa del mondo dell'educazione, con particolare attenzione ai racconti per immagini in movimento e suoni, alla pedagogia democratica, alla didattica attiva e ai processi di cooperazione generativa tra scuola, famiglia, territorio ed istituzioni. Ha collaborato con il maestro Mario Lodi dal 1994 al 2014 e ha progettato e realizzato convegni e attività di formazione in Italia e in Spagna. Ha pubblicato quattro libri, ne ha curati tre, scrive su quotidiani, riviste, siti per chi ha a cuore l'educazione.