Camuffare le navi. Libri, bambini e spazi galleggianti | Camouflaging ships. Books, children and floating spaces
DOI: 10.5281/zenodo.8225619 | PDF | Educazione Aperta 14/2023
Letteratura per l’infanzia è letteratura/4. A cura di Cristina Bellemo
Nel 1913, in un articolo dal titolo L'interesse per la psicoanalisi, Freud (riprendendo un verso di Wordsworth) definì provocatoriamente il bambino "padre dell'uomo". "Perché quest’asserzione enuncia una verità che ci sorprende?" si domanda Paul Laurent Assoun:
Perché, anche se riconosciamo in questa formula proverbiale qualcosa che abbiamo sempre saputo, è necessario ricordarcela? La ragione clinica ne è suggerita nel seguito: “La maggior parte di noi ha un vuoto di memoria riguardo ai primi anni della propria infanzia, nel quale spiccano soltanto alcuni frammenti di ricordi”. In breve, la cosa dipende dall’“amnesia” detta “infantile”. L’“infantile” è l’oggetto di un vuoto di memoria, o ancora l’uomo (l’adulto) è soggetto al vuoto di memoria relativamente al suo infantile. Il che permette di prolungare così la scrittura: il bambino è il padre dell’uomo, ma l’uomo ha, a causa di un’amnesia, dimenticato chi era suo padre. Pertanto fondamentalmente lo misconosce [...] (Assoun, 2004, p.5).
Il bambino è dunque un estraneo, un essere a noi non familiare e sconosciuto, come l'Io, che è un altro da quando Rimbaud scrisse la Lettera del Veggente, consegnando il soggetto a un territorio estraneo alla coscienza. Una premessa straniante per provare ad annodare qualche filo tra alterità che lanciano corde, nella speranza che da qualche parte, fortuitamente, si intreccino tra loro per creare ponti (traballanti, come in Indiana Jones e il tempio maledetto: attraversabili da chi non soffre di vertigini). A lanciare le corde sono, da una parte, persone che si occupano di scrivere, illustrare, pubblicare e recensire libri per bambini e, dall'altra, persone che si occupano di educare i bambini, compito impossibile per definizione, se è vero che educare è, insieme a governare e curare, uno dei tre mestieri "il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo" (Freud, 1977, p. 64).
Ci sono dunque, per tornare alla parola che continua a rimbalzare, mondi estranei che provano a interrogarsi insieme su due cose: i libri e i bambini (estranei, questi, al mondo adulto e quindi sia a chi i libri li scrive, li illustra e li recensisce, sia a chi li usa per educarli). Come insegnante quello che mi riguarda è il modo in cui i libri e i bambini si incontrano (o non si incontrano) nello spazio variegato della scuola, fatto di zone luminose e di altre buie. Qui i bambini portano tutti i giorni i loro corpi, i desideri, le paure, i pensieri, le giacchette, i cerchietti con le orecchie, gli zaini, i quaderni, i colori, le matite, e i libri: belli e più spesso, è vero, brutti.
I bambini amano le zone luminose della scuola come il cortile, o il giardino, quando c'è: vogliono tutti correre e giocare e se ci sono gli alberi si vogliono arrampicare, se c'è un'aiuola la vogliono esplorare perché il corpo dei bambini ha bisogno di movimento e libertà. Luminosa è la biblioteca piena di parole e di immagini che raccontano storie, l'aula d'arte con le tempere, gli acquerelli, la carta colorata da tagliare e incollare, luminoso è chiacchierare con i compagni mentre la maestra dice di stare zitti, cantare, ballare, giocare. Poi c'è la fatica della scuola: stare fermi, ascoltare, concentrarsi, impugnare bene la matita, imparare a percepire e distinguere gli spazi sul foglio e che un quaderno, come un libro, si sfoglia girando la copertina dal lato giusto e che leggiamo e scriviamo, nel mondo occidentale, da sinistra a destra, entro i margini. Non è detto che questo spazio disciplinato, l'aula con i banchi e la lavagna e la maestra che dice cosa fare, debba essere buio: si può scrivere e però poi disegnare, si possono colorare i righi e i quadretti per imparare a orientarsi sul foglio e sul rigo colorato si possono disegnare la terra e il prato e i fiori che sono nel giardino, reale e immaginario, fuori dalla classe. Si può imparare a leggere con entusiasmo perché la maestra legge le storie e le storie sono belle, ed è per poterle poi leggere, da soli o in compagnia, comprendendo cosa c'è scritto sulle righe e tra le righe, che vale la pena di fare lo sforzo di imparare, lieve per alcuni, difficilissimo, a volte impossibile, per altri. Leggere non è un atto naturale, come mangiare, dormire, correre, saltare, scavare la terra, giocare, cose che fanno anche tutti gli altri cuccioli animali che però non leggono e neanche scrivono. I bambini solitamente amano gli animali e trovano interessante riflettere sul fatto che fanno parte essi stessi del mondo animale e ragionare su cosa significhi essere umani: cos'è che facciamo (per quanto ci è dato di osservare) solo noi? E cosa, invece, facciamo sia noi sia i cani, i gatti, i topi, i pesci e le zanzare?
Per capire cosa significhi per un bambino imparare a leggere e scrivere dovremmo provare qualche volta a imparare qualcosa che è per noi del tutto nuovo, come per esempio, se siamo asciutti di musica, a suonare uno strumento musicale, o a sciare se non abbiamo mai calzato gli sci e neppure i pattini a rotelle in vita nostra. Cose del genere, purché risultino completamente nuove al nostro corpo e al nostro cervello, perché è così per il bambino che si trova per la prima volta a cercare di tracciare e decifrare dei segni neri (dotati di suono e forma e che aggregati tra loro significano qualcosa di concreto o di astratto) su un foglio di carta. Dovremmo farlo per sentirci a disagio, goffi, ridicoli e forse anche stupidi. Come succede che si sentano a scuola, a volte, i bambini. È importante provare a sottrarre all'oblio pezzetti di ciò che siamo stati, del "padre che ci ha generato" e che abbiamo rimosso, in modo più o meno traumatico, a seconda delle nostre biografie. Ed è necessario farlo se vogliamo incontrare, da qualche parte, i bambini, per aiutarli a imparare e a crescere, con le mani, con il gioco, con le parole e con i libri. Serve che proviamo a ricordarci da dove veniamo e quanto è stato difficile imparare ad allacciarci le scarpe e a fare in modo che la maglietta non si arrotolasse lungo il braccio quando ci infilavamo la giacchetta e quanto eravamo felici quando qualcuno ci leggeva una storia. Cose del genere, delle quali non sempre a scuola ci ricordiamo anche (non solo) perché la scuola ha le sue zone buie, tante.
Non si vive in uno spazio neutro e bianco, non si vive, non si muore, non si ama nel rettangolo di un foglio di carta. Si vive, si muore, si ama in uno spazio quadrettato, ritagliato, variegato, con zone luminose e zone buie, dislivelli, scalini, avvallamenti e gibbosità, con alcune zone dure e altre friabili, penetrabili, porose. Ci sono le regioni di passaggio, le strade, i treni, le metropolitane, ci sono le regioni aperte della sosta transitoria, i caffè, i cinema, le spiagge, gli alberghi, e poi ci sono le zone chiuse del riposo e della casa. Ora, fra tutti questi luoghi che si distinguono gli uni dagli altri ce ne sono alcuni che sono in qualche modo assolutamente differenti. Luoghi che si oppongono a tutti gli altri e sono destinati a cancellarli, a compensarli, a neutralizzarli o a purificarli (Foucault 2006, p. 12).
Le scuole sono luoghi eterotopi, altri, per definizione, "spazialità reali o simboliche che strutturano i modi di pensare e – soprattutto – di immaginare il nostro mondo" (Lucci e Tirino, 2019), frammenti di spazio isolati e penetrabili al tempo stesso intorno ai quali si incontrano e si scontrano visioni, aspettative, percezioni, ricordi e luoghi comuni e la cui realtà è scandita da tempi, regole, relazioni, che è difficile comprendere per chi guarda da fuori o attraversa la scuola come ospite.
Una giovane maestra in formazione mi racconta che una collega della scuola nella quale sta svolgendo il suo tirocinio, avendola presa a cuore, le ha detto: "sei sicura di voler fare la maestra? Guarda che tutte le belle cose che hai in mente non le potrai fare: la scuola è finita. Tutta burocrazia". La giovane maestra mi chiede se è vero. Non so esattamente a quali belle cose si riferisca la sua collega ma posso immaginarlo: mi interrogo spesso su quali siano i margini di manovra che si possono effettivamente trovare per fare a scuola le cose belle, come leggere i libri con i bambini per farne dei lettori per tutta la vita. Credo che per riuscirci dobbiamo, come insegnanti, innanzi tutto trovare a scuola il nostro spazio, avere chiaro quale sia il senso di ciò che facciamo, di cosa abbiano effettivamente bisogno i bambini. Tutte cose che è diventato difficilissimo fare e spiegare il perché non è semplice. La scuola è un luogo familiare (ognuno ne ha fatto esperienza personale come studente e continua a farne attraverso i racconti dei figli, dei nipoti, dei figli degli amici che vanno a scuola) eppure al tempo stesso, se non ne facciamo parte come ingranaggio della sua struttura, ci è aliena. Abbiamo in mente un modello di scuola che nasce dal ricordo che ne abbiamo conservato o che ci è stato tramandato e che fa sì che ce la rappresentiamo in un certo modo, a volte la idealizziamo oppure ci appare inquietante, una prigione, come un mio alunno che, un giorno, in cortile, mi afferra la mano e davanti al cancello (aperto sulla piazza con il prato, il sole e i giochi), sguardo serissimo e determinato, mi dice "maestra, scappiamo". Mi viene in mente la scena di Un angelo alla mia tavola in cui Janet Paterson Frame, giovane maestra, terrorizzata dall'arrivo dell'ispettore nella sua classe, fugge da scuola per poi precipitare nella disperazione e in una diagnosi (sbagliata) di follia (Frame, 1999, p. 246).
Un’altra giovane maestra, già laureata in psicologia, alle prese con il suo primo incarico a scuola mi racconta: "da quando insegno ho perso tutte le coordinate, prima mi capitava di entrare a scuola come psicologa e di giudicare le insegnanti, adesso che sono io al loro posto ho cambiato completamente prospettiva". Mentre lo dice, fermandosi a lungo sulle parole, sento nitidamente la confusione intorno a lei, la miriade di cose che la chiamano in causa, contemporaneamente: bambini che piangono, ridono, scalpitano, sorridono, vogliono la palla, chiamano la mamma, mangiano la colla, si dipingono la faccia, tagliano i capelli del bambino seduto al banco davanti, fanno domande, hanno sguardi curiosi, attenti, distratti, allegri, sofferenti, sentono freddo, caldo, hanno fame, vomitano la merenda, corrono, cadono, si accapigliano per raccontare i sogni che fanno la notte, le cose che hanno capito o che non capiscono, litigano, pensano che lei, la maestra, cioè un adulto, sappia tutto e possa tutto, trovare le risposte, punire le ingiustizie, andare nello spazio, incantare i serpenti, e invece lei è lì che fa quello che può mentre gira vorticosamente in una centrifuga: il POF, il PEI, le OSA, i BES, la DAD, la DDI, le piste, i percorsi, le mappe concettuali, il coding, il cooperative learning, il peer tutoring, l'inclusione, le UDA, le INVALSI, gli organi collegiali, i consigli di classe, i registri, le prove di evacuazione, i verbali, la sicurezza, la privacy, le relazioni, il curricolo, i progetti, le sperimentazioni, le competenze, i compiti di realtà, l'ossessione valutativa, i decreti ministeriali e le circolari che arrivano a fiumi contraddicendosi continuamente tra loro in un modo che se sei di buon umore è anche comico. Ascolto la giovane maestra psicologa e vedo nei suoi occhi i fotogrammi che scorrono rapidamente, uno dopo l'altro, fino al momento epifanico in cui realizza di non essere più l'esperta esterna accolta in una classe piena di adorabili bambini e di maestre che urlano con i capelli dritti in testa come se avessero appena preso la scossa: è lei la maestra.
Ma torniamo alle cose belle da fare a scuola e, tra queste, ai libri. Sui banchi, in classe, ci sono, di norma, i libri di testo: i libri per studiare, cioè costruire i saperi. Propongono i contenuti, le schede, le attività, gli esercizi e i compiti di realtà per sviluppare le conoscenze, le abilità e le competenze: personali, sociali, metodologiche e trasversali e per monitorarne lo sviluppo perché possano infine essere tutte valutate (sulla base di apposite griglie nelle quali sono tracciati gli obiettivi, gli indicatori e i descrittori e che tocca agli insegnanti, riuniti in commissione, costruire sulla base di criteri generali). Ci sono poi, o dovrebbero esserci, i libri da leggere e basta. Già nell'85 i Programmi ministeriali consigliavano "il ricorso, oltre che ai testi scolastici e ai libri della biblioteca di classe, a una varietà di materiali idonei a incentivare il bisogno di leggere." La scuola doveva avvicinare i bambini e i ragazzi ai libri consentendo loro l'accesso diretto alla biblioteca, sollecitandoli a segnalare l'acquisto di libri o pubblicazioni periodiche cui fossero particolarmente interessati, e riservare alla lettura personale tempi adeguati nell'arco della settimana. "L'insegnante, anche testimoniando la sua consuetudine alla lettura, stimola e accresce la motivazione del fanciullo a leggere e dedica particolare attenzione alla scelta di testi validi per le loro qualità intrinseche. Per adempiere efficacemente a tale compito, l'insegnante dovrà possedere aggiornata e non superficiale conoscenza delle pubblicazioni e dei libri più adatti per i fanciulli, dai testi di narrativa e di divulgazione, alle collane monografiche, alle enciclopedie, ecc.". I vecchi Programmi forniscono dunque indicazioni precise su come sviluppare nei bambini l'attitudine a leggere, non a caso: sono figli dei maestri innovatori, don Milani, Ciari e Lodi e delle "indicazioni culturali e didattiche formulate nel 1975 dalle Dieci tesi per un'educazione linguistica democratica" (Boero e De Luca, 2023).
E oggi? I Programmi, verticistici e prescrittivi, non esistono più, il quadro entro il quale si operano le scelte delle singole scuole è fornito dalle Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione. Le Indicazioni, assumendo come orizzonte di riferimento le Raccomandazioni del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’UE del 2006, mettono al primo posto, tra le competenze chiave, l'educazione linguistica: trasversale a "tutte le discipline che operano insieme per dare a tutti gli allievi l’opportunità di inserirsi adeguatamente nell’ambiente scolastico e nei percorsi di apprendimento, avendo come primo obiettivo il possesso della lingua di scolarizzazione", termine, quest'ultimo, comunemente usato per descrivere la lingua prevalente nell'insegnamento. Da notare è quindi l'idea che gli insegnanti debbano lavorare insieme. Sul punto torneremo poi.
L'insegnamento della lingua è declinato nelle tre sue forme: oralità, scrittura e lettura. Con riferimento allo "sviluppo di una sicura competenza di lettura" le Indicazioni sottolineano che "è necessaria l’acquisizione di opportune strategie e tecniche, compresa la lettura a voce alta, la cura dell’espressione e la costante messa in atto di operazioni cognitive per la comprensione del testo". Le Indicazioni evidenziano che "la nascita del gusto per la lettura produce aumento di attenzione e curiosità, sviluppa la fantasia e il piacere della ricerca in proprio, fa incontrare i racconti e le storie di ogni civiltà e tempo, avvicina all’altro e al diverso da sé". Ribadiscono, infine, l'importanza della "consuetudine con i libri" e come essa ponga "le basi per una pratica di lettura come attività autonoma e personale che duri per tutta la vita. Per questo occorre assicurare le condizioni (biblioteche scolastiche, accesso ai libri, itinerari di ricerca, uso costante sia dei libri che dei nuovi media, ecc.) da cui sorgono bisogni e gusto di esplorazione dei testi scritti".
Diversamente dai Programmi dell’85 le Indicazioni non prendono neppure in considerazione l'ipotesi che i bambini possano, su sollecitazione degli insegnanti, segnalare l'acquisto di libri o pubblicazioni periodiche cui fossero particolarmente interessati: i tagli continui dei fondi hanno dissanguato le scuole per cui le biblioteche per rinnovare gli scaffali possono contare solo su qualche progetto (a termine). Ma al di là dei fondi il problema è un altro: le Indicazioni delineano, nelle intenzioni, una scuola che pone al suo centro la persona e i suoi bisogni individuali, "cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi. In questa prospettiva, i docenti dovranno pensare e realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato".
Ora, rileggete tutti questi compiti (sono solo una porzione dei compiti delle maestre e dei maestri, una sola voce: "Italiano", alla quale bisogna sommare tutte le altre discipline - dieci in totale, undici con l'educazione civica che è trasversale a tutte le altre ma va comunque co-progettata, osservata, valutata e documentata - e collocarle nel tempo, finito, della scuola), metteteli insieme ai fotogrammi che scorrevano, più sopra, negli occhi della giovane maestra già psicologa e vedrete emergere a poco a poco il problema. Le Indicazioni, belle e ambiziose, figlie della scuola dell'autonomia, hanno definito, scrive Carlo Fiorentini, "una nuova configurazione della professione insegnante" caricando i docenti "rispetto agli impegni tradizionali" di "un notevole carico aggiuntivo impegnativo sia sul piano orario che sul piano intellettuale e psicorelazionale". La trasformazione non è stata però accompagnata da un adeguato riconoscimento economico e sociale né, d'altra parte, da uno sviluppo delle capacità professionali presenti nelle scuole. Potremmo dire ancora una volta, con Antonio Gramsci, che "la lotta contro la vecchia scuola era giusta, ma la riforma non era così semplice come pareva, non si trattava di schemi programmatici" (o, in questo caso, di magnifiche indicazioni) "ma di uomini" (termine con il quale egli intendeva, usando un termine storicamente, si spera, superato, gli esseri umani).
"In astratto, l’autonomia prospettava un’idea di scuola coerente coi valori costituzionali, predisposta inoltre a un elemento aggiuntivo di creatività" (Turi e Scognamiglio, 2021). Era, come racconta Nicola D'Amico, il risultato di una lunga battaglia della scuola, "maturato in un terreno reso giuridicamente fertile in proposito". Il potere centrale avrebbe dovuto (qui D'Amico cita l'amministrativista Sabino Cassese) "non gestire, ma fissare gli obiettivi, valutare i processi, correggere gli errori del sistema". La scuola, a sua volta, "in quanto garante del diritto allo studio tutelato dalla Costituzione" (e quindi in quanto Stato essa stessa), si sarebbe dovuta riappropriare di funzioni gestite dallo Stato, diventando in questo modo, a tutti gli effetti, un soggetto attivo e capace di liberare le proprie energie creative. Ma "ogni rosa ha le sue spine", nota D’Amico, e nel caso specifico queste consistono nel fatto che (in assenza di una riforma complessiva della Pubblica amministrazione) l'autonomia si è tradotta in un mero decentramento di funzioni alla periferia da un centro "che tutto dirige, ma nulla vede e nulla controlla realmente" (Campione e Poggi 2009, p. 41), una sorta di Panopticon accecato che punta a mantenere il massimo controllo con la minore spesa possibile. E che, in sostanza, riversando sulle scuole diluvi di incombenze burocratiche, norme continuamente riviste, compiti e progetti non necessari, ha finito col soffocarle: le insegnanti (ossia la quasi totalità del corpo docente almeno fino alla scuola secondaria di primo grado) e gli insegnanti (pochissimi), che dovrebbero alimentare in se stessi quello sguardo e quella sensibilità culturale ed estetica così importanti per educare i bambini come meritano, hanno, di fatto, in molti casi, smarrito se stessi:
Negli ultimi cinquant'anni lo spazio di autodeterminazione dei docenti si è sempre più ristretto, sono diminuite le occasioni gratificanti, al contrario è cresciuto il carico di lavoro e di stress, si è allontanato, psicologicamente e simbolicamente, dalle finalità del sistema scolastico, si è trasformato in una «variabile dipendente», un effetto sistemico, non già il risultato di un’arte e di una creatività individuale al servizio delle persone (Colombo, 2014).
L’insegnante è diventato sempre più una figura opaca, a se stesso e agli altri: si è perso tra i discorsi, i progetti, i compiti che si accavallano tra loro in una gerarchia capovolta di cose da fare e che non lasciano il tempo per confrontarsi sulle questioni pedagogiche, figuriamoci sulle domande esistenziali e gli orizzonti di significato. Confusione, stanchezza, disillusione, indifferenza, cinismo, competizione: nelle scuole si respira molto spesso un malessere silenzioso, perché per gli insegnanti è difficile comunicare persino a se stessi che non ce la fanno a stare al passo con il proprio lavoro: si sentono inadeguati, hanno paura di essere (e spesso effettivamente sono) fraintesi, giudicati e isolati. Si vergognano di non essere all'altezza delle aspettative che la società ripone nei loro confronti. Forse è per questo che molti a scuola ignorano le Indicazioni nazionali: le rimuovono come un corpo estraneo alla scuola reale che cade, spesso anche fisicamente, a pezzi. Si sentono soli. La fantasia del legislatore in materia di reclutamento del corpo docente, unitamente alla crisi del mercato del lavoro e delle professioni, ha messo in classe, forzatamente, le creature più disparate che spesso sbarcano lì come per caso, senza la preparazione e la motivazione adeguate. Sono meteore che arrivano attraverso percorsi imperscrutabili e durano il tempo di una supplenza: una settimana, quindici giorni, mesi, contano i giorni e i punti per conquistare un posto migliore in graduatoria. Anche quando provano a fare del proprio meglio si trovano ad annaspare per stare a galla in un mondo che non capiscono. E non è colpa loro ma di un meccanismo di reclutamento che, come scrive Saverio Santamaita, "si è svolto, e si svolge tuttora, secondo norme bizantine, prive di trasparenza e al di fuori di un'idea di sviluppo del sistema scolastico. In particolare, è mancata e manca la volontà di mettere in sequenza la formazione e il reclutamento" (Santamaita, 2021, p. 202). Il risultato è che in classe si lavora spesso, quando non in conflitto, in solitudine, con buona pace del team che dovrebbe costituirsi come gruppo pensante e della trasversalità delle competenze chiave. E i bambini? Sono tanti, molti hanno difficoltà a mantenere la concentrazione, spesso crescono senza una bussola con la quale orientarsi perché gli adulti si sentono incerti rispetto al loro ruolo, o perché non hanno il tempo per ascoltarli e quindi loro, i bambini, non sanno ascoltare. Bisogna costruire piano piano uno spazio per ogni bambino, perché ognuno è diverso dagli altri bambini, ha un suo mondo da raccontare e se prende la parola a volte è un fiume che straripa, la sofferenza del mondo di fuori allaga la scuola, insieme alla retorica: sulla scuola e sui bambini. Elena Besozzi parla di
disagio di una posizione focale, di essere bersaglio interno ed esterno, con il rischio di andare in frantumi. Da qui la paura di non reggere e di non farcela, la paura ad affrontare qualcosa che è diventato ostile, che non è più un terreno noto in cui gioco le mie carte e so giocare bene, ma un terreno in cui vi sono i trabocchetti, l’ignoto è troppo ampio e insidioso (Besozzi, 2014).
Molti insegnanti si adattano, sopravvivono, recitano. Ci sono naturalmente anche insegnanti che ce la fanno davvero: alcuni perché lavorano in isole felici (poche e concentrate in poche regioni), supportati da una rete di colleghi (con i quali condividono gli obiettivi e i valori della scuola e possono quindi pianificare bene l'attività didattica), famiglie, biblioteche, associazioni, in un ambiente che consenta loro un costante sviluppo professionale. Altri, anche in assenza di condizioni favorevoli, continuano negli anni ad amare il proprio lavoro. Trovano il tempo, la curiosità, la motivazione: leggono, studiano, pensano, cercano soluzioni, sono consapevoli del proprio ruolo, cercano di capire i bambini e di distinguere ciò che per loro è essenziale da ciò che è superfluo, aggiornano e approfondiscono la propria conoscenza sulle metodologie e sui libri. Sono pochissimi e andrebbero studiati come si fa con gli ultracentenari per scoprire la formula della loro longevità straordinaria.
A proteggere questi insegnanti può darsi che sia un'oblatività coatta, spirito di servizio, l'amore profondo per i bambini. In un certo numero di casi sono convinta che a salvarli siano lo spirito critico, la libertà di pensiero e l'amore per i libri. Tre cose che non andrebbero lasciate al caso e che tutti i bambini avrebbero il diritto di trovare a scuola, soprattutto quelli che queste tre cose non hanno modo di incontrarle se non grazie al sistema nazionale dell'istruzione.
Ho divagato, mettendo a fuoco più la scuola che i libri, ma forse è utile ragionare sulle difficoltà della scuola per capire come costruire concretamente al suo interno spazi di libertà: per leggere insieme come per correre, saltare e osservare le gemme che spuntano sugli alberi. A questo possono servire i ponti che cerchiamo di costruire tra la scuola e il fuori scuola, per ragionare su cose grandi e anche piccole, come ad esempio il fatto che sarebbe opportuno proporre agli insegnanti i momenti di formazione all'interno del loro orario di servizio, tra il lunedì e il venerdì, e farne spazi di rigenerazione e di cura, l'unica cosa che davvero la scuola merita. L'arte e la bellezza andrebbero proposte in continuazione agli insegnanti come antidoto al buio in cui affoga il senso della scuola e che rischia continuamente di trasformarli in creature grigie e stanche, simili a quelle che la protagonista senza nome di Memorie di una sopravvissuta scorge dalla finestra dell'appartamento in cui vive barricata:
Avevano rinunciato alla loro individualità, ecco cosa, alla capacità di giudizio e alla responsabilità individuale, i segni rivelatori erano tanti, non ultimo la reazione istintiva di chiunque ne incontrasse uno, l’immancabile fitta di apprensione, perché era risaputo che in caso di scontro – se ci si arrivava – a giudicare sarebbe stato il branco. Non riuscivano a stare soli a lungo; si trovavano a proprio agio nella massa, con cui si identificavano. Somigliavano ai cani che si radunano in un parco o in uno spazio brullo (Lessing, 2003).
Non a caso Doris Lessing ha immaginato la protagonista del suo romanzo distopico alle prese con un’adolescente scontrosa e il suo strano animale: entrambi le vengono misteriosamente affidati da sconosciuti, in un mondo attraversato da orde barbariche.
Per far crescere i bambini e i ragazzi occorre che ci si prenda cura delle insegnanti e degli insegnanti, come sa bene chi si prende cura delle madri in difficoltà, sostenendole perché siano in grado di occuparsi dei loro figli. Curare gli insegnanti è fondamentale per curare la società, nel senso non tanto di avere a cuore, ma di prestare attenzione e riconoscimento. Curare, per esempio, attraverso i libri perché i libri a scuola sono innanzi tutto quelli che gli insegnanti leggono, in solitudine, e quelli che portano in classe, per condividerli con i bambini e i ragazzi e che sono indispensabili agli adulti come ai bambini, perché, primo punto, i libri scacciano la paura e, secondo punto, instillano il seme della trasgressione:
"Transgredire" implica andare (fare un passo, ascendere un gradino) oltre, aldilà, oltrepassare delle delimitazioni di tempo, di spazio, in particolare delle regolamentazioni dietro cui spesso ci rifugiamo, per assumere quel tanto di rischio che mette a nudo le nostre stesse paure. Si tratta, in sostanza di vivere consapevolmente una esperienza «liminale», sul confine tra prevedibilità e sorpresa, tra quotidianità ed eccezionalità, fra spiegazione e utopia, ecc. Esperienza che porta a un salto di qualità nel nostro sguardo e ci restituisce l’opportunità di prendere delle decisioni, ossia di ritornare alla cosiddetta normalità con qualcosa di nuovo (Colombo, 2014).
È fondamentale, per la società nel suo insieme, che chi ha il compito di consegnare il patrimonio culturale alle nuove generazioni, connettendo il passato al presente in uno scenario complesso come quello in cui viviamo, sia concretamente attrezzato per farlo, ossia capace di scegliere, assumersi responsabilità, produrre cambiamento e cultura, trasmettere passione e insegnare a vivere, come dice Edgar Morin nel suo Manifesto per cambiare l'educazione.
I libri hanno il potere di insegnare tutto questo e di aprire vie di fuga da una realtà che spesso ci soverchia, bisogna conoscere il loro potere immaginifico per rispondere a un bambino che vorrebbe scappare dalla scuola: "adesso ci imbarchiamo". Chiudiamo fuori dall'aula tutta la scuola e apriamo un libro da leggere e basta: senza schede, senza esercizi, senza note. Che ci faccia viaggiare come una nave, la più bella delle eterotopie, ci ha detto Foucault: "un frammento di spazio galleggiante, un luogo senza luogo, che vive per se stesso, che si autodelinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all'infinità del mare e che, di porto in porto, di costa in costa, da una casa chiusa all'altra, si spinge fino alle colonie per cercare ciò che esse nascondono di più prezioso nei loro giardini" (Lago, 2016, p. 15).
I libri a scuola ci servono, se non a curare la nostra amnesia sul bambino che ci ha generati, a ritrovare ciò che sopravvive dentro di noi alle trasformazioni e agli sconvolgimenti della vita. Ed è questo che ci aiuta ad aiutare i bambini: trovare un modo per continuare a viaggiare, anche quando la nave si è arenata, per osservare come il mondo (gli altri) si mescola al riflesso della nostra immagine, sul vetro dell'oblò. E se la nave è sotto attacco la possiamo camuffare, come fece Norman Wilkinson, tenente della Royal Navy, illustratore e pittore marino, che durante la prima guerra mondiale inventò il Dazzle Camouflage, verniciando le navi a strisce bianche e nere a zig zag per proteggerle dall'affondamento. La trama zebrata, non consentendo di individuare la prua della nave e di capire dove fosse diretta, accecava il nemico impedendogli di calcolare la rotta per prendere la mira. Un'idea fantasiosa che può aiutarci, a scuola, a inventarci un modo per non sacrificare la creatività alle regole: giocando, insieme ai bambini, a cavalcare le onde, sfruttando le correnti favorevoli per rimanere in equilibrio, mantenendo ben presente la rotta. Che non va puntata sulle chimere dell'efficienza, della standardizzazione e della misurazione del rendimento, ma su loro: i bambini. E cioè, per tornare al punto da cui eravamo partiti, su noi stessi, come individui e come collettività. "Mentre il bambino invecchia, diventando un adulto e poi un vecchio, l’infantile non mette una ruga, non tanto perché eterno, quanto piuttosto perché esso è, dice Freud, «senza età»" (Assoun, 2004, p. 9).
Riferimenti bibliografici
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Gaia Colombo, laureata in Lingue e letterature straniere moderne presso l’Università degli studi di Palermo, si è occupata di formazione degli adulti presso enti pubblici e privati e di management didattico per l’Università degli studi di Palermo e per la Crui (Conferenza dei Rettori Italiani). Dal 2007 insegna nella scuola primaria. Attualmente coordina le attività di tirocinio e conduce i laboratori di didattica della scrittura e della letteratura presso il corso di laurea in Scienze della formazione primaria della LUMSA, sede di Palermo.