Aprire le gabbie: i libri a scuola | Opening the cages: books at school
DOI: 10.5281/zenodo.8225528 | PDF | Educazione Aperta 14/2023
Letteratura per l’infanzia è letteratura/2. A cura di Cristina Bellemo
Da qualche anno mi interrogo sulle modalità con cui i bambini e bambine incontrano i libri e la letteratura a loro destinata. Viaggiando per l’Italia, visitando scuole, biblioteche e librerie, confrontandomi con docenti e operatori del settore ma soprattutto conversando con lettrici e lettori, ho accumulato molti dubbi e qualche certezza. Qui vorrei soffermarmi sulla lettura a scuola partendo da lontano, dall’altro versante, quello di chi scrive questi libri o si accinge a farlo.
Raccontando la genesi de La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Dino Buzzati ricorda il suo entusiasmo e anche la sua preoccupazione perché “scrivere per bambini è molto più̀ difficile che scrivere per i grandi, i quali più̀ o meno si sa come la pensano” (Ferrari, 2006, p. 53). Questa citazione si trova spesso in rete, leggermente rimaneggiata, e suona così: “scrivere per bambini è come scrivere per adulti, solo molto più difficile.” Sicuramente più di effetto, anche se si perde la questione implicita nella versione originale: se i grandi sono più o meno prevedibili, come la pensano invece i piccoli?
Chi scrive per un pubblico che includa bambine e bambini conosce la difficoltà di cui parla Buzzati. Sa di doversi immergere in un’attività piena di sfide e responsabilità. Sfide comunicative, innanzi tutto: ogni parola, ogni frase sono sottoposte al vaglio della comprensibilità, della capacità di lettori e lettrici di inserire termini nuovi in un contesto noto o, viceversa, di cogliere concetti complessi grazie alla presenza in un testo di parole o espressioni familiari. La scrittura (che include, naturalmente, la traduzione) per l’infanzia è una palestra di lavoro sulla lingua perché obbliga a porsi costantemente in relazione con le facoltà cognitive dei suoi ipotetici lettori e lettrici. È un terreno di ricerca stilistica e formale ma anche, in senso ampio, filosofica quando si sceglie di parlare di tutto, senza censure, in un modo che risulti compatibile con delle menti che si stanno formando. A questo si aggiunge la consapevolezza dell’eterogeneità del proprio pubblico, dell’impossibilità di stabilire un campione valido al quale idealmente riferirsi. Ci si trova perciò a lavorare entro una fascia dai confini sfuggenti, che non include solo margini anagrafici ma anche tutti i possibili retroscena, gli ambienti in cui l’infanzia si trova a vivere la sua condizione. Chissà come la pensano, tutte queste persone nuove e aliene, laddove il termine pensare non ha esattamente lo stesso significato che attribuiamo al ragionamento adulto. Una letteratura che si definisce a partire dal suo destinatario non può eludere la questione. Spesso nella pratica quotidiana si ricorre a varie strategie: si procede tenendo in mente un pubblico più ristretto, reale e conosciuto, magari un bambino o una bambina in particolare, oppure ci si rivolge a quella persona piccola che si è stata, recuperandone le sensazioni. O ancora, ci si affida a un ritmo che arriva da un indefinibile altrove. Sono sistemi che servono a tenere una rotta, un riferimento che permetta di avvicinarsi al territorio polimorfo dell’infanzia avendo stabilito con esso un qualche patto. Perché certamente si tratta di un incontro: quando l’attenzione al destinatario non si trasforma in relazione si corre il rischio di risultare inaccessibili o, al contrario, di banalizzare i contenuti rinunciando alla densità propria di un prodotto letterario. Questo incontro costituisce il nucleo della specificità che contraddistingue la letteratura per l’infanzia, territorio che confina con tante aree di conoscenza e quindi potenzialmente ricchissimo di stratificazioni di significato. Se ci si trova in un universo comunicativo altamente articolato al confine con la pedagogia, la filosofia, l’arte, è proprio perché quella per l’infanzia è una letteratura che per definizione si confronta con l’alterità.
Non c’è dubbio che di fronte a un materiale così complesso siano necessari strumenti critici adeguati: valutare e interpretare la vasta produzione culturale dedicata al mondo bambino, che può essere terreno di grande sperimentazione ma anche di brutale sfruttamento commerciale, non è impresa banale.
Nel nostro paese la critica specializzata, le riviste di settore, le biblioteche per ragazzi e ragazze, le librerie indipendenti, tutte le agenzie che si incaricano di promuovere la migliore letteratura accessibile all’infanzia hanno una risonanza relativamente ristretta. Dico relativamente riferendomi al dibattito pubblico, entro il quale difficilmente si discute di criteri qualitativi, di stile, di innovazioni formali nei libri per bambine e bambini. Si parla semmai di prestazioni commerciali, oppure si appiattisce la letteratura per l’infanzia sul suo contenuto, inteso come messaggio - di volta in volta auspicato o paventato – di cui si farebbe portavoce. Per quanto ci si illuda, al di fuori dell’ambito di chi se ne occupa professionalmente l’idea che la letteratura per l’infanzia abbia in definitiva una funzione didascalica è lontana dall’essere superata. La scuola, ovvero l’istituzione che per prima dovrebbe garantire l’accesso ai libri e l’incontro con la lettura, è nel nostro paese un paesaggio variegato dove si può incontrare ogni tipo di approccio: da quello che intende la narrazione solo come palestra didattica a quello più avvertito che accoglie le storie nella quotidianità del fare scuola e considera la lettura un aspetto irrinunciabile della formazione dell’insegnante in primo luogo. Tra questi due poli si incontrano, com’è intuibile, innumerevoli situazioni intermedie. Si può accedere in classi dove viene dedicato tempo alla lettura libera ma nelle quali l’attività è intesa come un momento ludico e separato dal progetto formativo vero e proprio; in alcuni casi i libri entrano in classe in modo episodico, senza una pianificazione. C’è da aggiungere che frequentemente la lettura è legata solo all’insegnamento dell’italiano con il risultato che l’area scientifica viene percepita come un ambito lontano dalle storie e dalla narrazione. Entrando nelle scuole dei vari cicli si possono intercettare dei filoni culturali che corrispondono a diversi modi di considerare i libri e l’educazione alla lettura. A volte si tratta di echi lontani che risuonano nelle aule e soprattutto nelle domande che bambine e bambini pongono durante gli incontri: insieme alle molte curiosità legate al processo dell’invenzione (“dove hai trovato l’ispirazione?”), alle domande più o meno specifiche e più o meno personali, alla fine di ogni conversazione si sono raccolti sempre un numero variabile di indizi che raccontano un certo modo di stare nei libri.
Qualche riga sopra ho descritto il processo con il quale si tenta di costruire la delicata relazione tra chi scrive e i suoi destinatari impliciti. In questa relazione certamente pesa l’intervento di mediazione del mondo adulto che porge le storie ai lettori reali e sappiamo quanto questo passaggio possa essere determinante. Quando a far da tramite è un’istituzione come la scuola il rischio di rovinare l’incontro prima ancora che si verifichi è molto alto. Come ha scritto Giuseppe Pontremoli (1997), “Un libro impregnato di scuola è un libro ammansito, è meno dell'ombra del suono del tacco, e infatti cammina con gambe non sue”. Tra i tanti dubbi che la mia attività mi suscita, vorrei tuttavia esprimere una certezza: ci sono modi, anche a scuola, per offrire i libri salvaguardando quella relazione e mostrando così la specificità della pratica della lettura rispetto ad altre attività intellettuali. Sono certa che Pontremoli sarebbe d’accordo, se non altro perché lui questi modi li ha trovati nella pratica quotidiana. Poiché si sta parlando di scambi tra esseri umani, evidentemente non si tratta di fornire una sequenza di operazioni valida e replicabile in ogni occasione. Senza pretendere di dare soluzioni, credo di poter offrire un punto di vista, quello di chi osserva tutto questo dall’esterno avendo a cuore le peculiarità del proprio lavoro e il valore dell’incontro con la parola scritta in una fase così cruciale della vita.
Vista da questa soglia, l’educazione alla lettura appare efficace quando trasmette un atteggiamento che tenga conto delle caratteristiche proprie di un testo letterario, ovvero un testo nel quale la forma riesce a condensare senso, portando in superficie istanze anche contraddittorie, ambiguità talvolta persino svincolate dalle intenzioni di chi scrive. Hannah Arendt (1968, p. 169) ha detto che la narrazione rivela il significato senza commettere l’errore di definirlo. Questo vale ancora di più per la letteratura che si affaccia al mondo dell’infanzia, per sua natura ricca di diramazioni e contaminazioni di codici e linguaggi. Viene perciò naturale esortare a non commettere l’errore di estrarre con la forza un significato da mettere in cornice, concentrandosi invece sulla funzione poetica del testo, su ciò che lo identifica davvero.
Eppure quando si parla di stile e di forma vengono in mente rituali scolastici in cui i testi sono sottoposti a operazioni più vicine all’autopsia che alla lettura.
È possibile invece proporre un approccio alle storie che faccia vivere la forma? Sono convinta di sì. Si può leggere e far leggere un testo osservando le soluzioni formali che lo compongono, mettendole anche in questione, facendole diventare oggetto di discussione spontanea. Non credo sia possibile entrare da questa porta senza la dovuta cautela, senza aver predisposto l’ambiente scolastico ad accogliere questo tratto distintivo delle storie. Domandarsi perché è stato usato un certo verbo o perché è stato messo in atto un certo rovesciamento del punto di vista può permettere di vedere come la forma costruisce il senso (o il nonsense) di quello che viene raccontato, ma resta un’operazione sterile senza un tempo preparatorio dedicato alla lettura libera di testi integrali. Lettura libera, forse va sottolineato, soprattutto da parte di chi insegna. Certamente non è qualcosa che si possa fare a partire da un libro di testo che proponga brandelli di storie estratti a freddo dal loro corpo originario: finché la narrazione verrà offerta in questa forma frammentaria a fini regolativi, difficilmente essa sarà percepita come una possibilità diversa dell’intelligenza.
Un discorso analogo si può fare per la letteratura divulgativa: anche questa ha una forma, uno stile, anche questa deve essere sottoposta a criteri qualitativi e anche questa, nei casi migliori, non riduce il suo contenuto a risposte preconfezionate da mandare a memoria. Nell’universo della divulgazione si incontrano opere ibride, incollocabili, dove parole e immagini dialogano allo scopo di generare domande sempre nuove, interrogativi da custodire. Opere che meritano di essere esplorate nella loro integrità, che hanno bisogno di trovare nella scuola uno spazio stabile e la possibilità di dialogare con tutti gli altri libri. Le barriere non lasciano circolare i pensieri, lo si sente dire anche a scuola. Eppure sono così difficili da abbattere, alla prova dei fatti.
A proposito di barriere, Mario Lodi si rammaricava per il destino inflitto a molte poesie di Rodari, finite “come canarini in gabbia in alcuni libri” (Lodi, 1982), e il già citato Pontremoli, riprendendo Lodi, rincarava la dose: “La canarinità è prima di tutto gabbia, e quindi niente voli, e voce senza vita. E, spesso, copertura e belletto per l’insulso ed il putrido. Chi non ci crede, butti un occhio in un libro di lettura” (Pontremoli, 1988).
Citare due figure come Lodi e Pontremoli può essere utile a ricordare che questa riflessione sui libri di testo non è affatto nuova, così come non è nuova la battaglia per fare scuola in modo alternativo alla logica dell’antologia e dell’eserciziario: come sa chiunque si occupi di scuola, si tratta di una spinta che nel nostro paese viene da lontano e nasce dalla lunga attività del Movimento di Cooperazione Educativa. Ad esso altre correnti culturali si sono affiancate, altri modelli che condividono però un’idea di fondo: a un certo modo di far entrare i libri in classe corrisponde un certo modo di concepire la scuola e di dare dignità a quel pensiero di bambine e bambini a cui mi riferivo all’inizio. È un’idea che ha conosciuto ondate e risacche e che negli ultimi anni ricomincia a manifestarsi in forme diverse. C’è chi si avvale dell’adozione alternativa come previsto dal Decreto Legislativo 16 aprile 1994, n. 297 - Testo Unico delle disposizioni vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado che permette di destinare i fondi per il libro di testo alla costruzione di una biblioteca di classe; c’è chi fa scuola con ogni genere di narrazione pur mantenendo il libro di testo; ci sono altre situazioni intermedie e spurie, legate anche alle diverse circostanze che accompagnano i vari cicli scolastici.
Si può affermare che negli ultimi anni l’urgenza da parte dei docenti di aggiornarsi sulla produzione editoriale per l’infanzia e di ricevere validi strumenti interpretativi continua a crescere anche se non sempre si trasforma in un progetto educativo coerente. Certamente, di fronte alle pressioni del mercato editoriale per la scuola e all’impegno richiesto da questa modalità, le iniziative isolate incontrano molte difficoltà. Per questo motivo, oltre all’MCE, le reti di sostegno informali tra insegnati e le comunità di pratiche come il Writing and Reading Workshop risultano alleate decisive per una scelta di questo tipo.
Da qualche tempo mi domando quante siano effettivamente queste esperienze nel nostro paese, se sia possibile stabilire un numero, sia pure approssimativo e non definitivo, che racconti la diffusione della pratica della lettura a scuola. Dalle informazioni che sono finora riuscita a ricavare, si può immaginare un territorio sfaccettato e ancora non del tutto mappato, le cui dimensioni non sono note di preciso nemmeno a chi lo abita. Sarebbe estremamente utile invece avere dei dati che permettano di conoscere meglio la distribuzione nel paese di questi modi alternativi alla logica del libro di testo come guida unica e irrinunciabile: aiuterebbe chi non sospetta che esiste la possibilità di fare scuola in modo diverso e sarebbe interessante per l’intero settore. Resta da capire come andare oltre i resoconti parziali e arrivare a conoscere questo mondo in modo più completo.
Io non l’ho visitato per intero ma quando ne ho varcato i confini me ne sono accorta, perciò sono certa che non si tratta di un luogo immaginario e sospetto che sia più grande di quanto esso stesso non si percepisca.
Riferimenti bibliografici
Arendt H., Isak Dinesen 1885-1963, in Men in Dark Times, Harcourt, Brace &World, New York 1968, trad. it. in “Aut-Aut”, nn. 239-40, 1990.
Ferrari M.T. (a cura di), Buzzati racconta. Storie disegnate e dipinte, Electa, Milano 2006.
Lodi M., Una favola, un metodo, in F. Ghilardi (a cura di), Il favoloso Gianni. Rodari nella scuola e nella cultura italiana, Nuova Guaraldi, Firenze 1982, pp. 59-64.
Pontremoli G., Il prezzemolo Rodari, in “Linea d'ombra”, n. 28, 1988, pp. 22-23.
Pontremoli G., Gli orizzonti inaspettati di Silvio D'Arzo, in “Linea d'ombra”, n. 128, 1997, pp. 108-119.
Susanna Mattiangeli, nata a Roma nel 1971, organizza laboratori nelle scuole, nelle biblioteche e nelle librerie oltre a scrivere storie lunghe e brevi per varie case editrici come Lapis, Il Castoro, Topipittori, Vànvere, Mondadori. Ha tradotto diversi libri dell’autrice americana Beverly Cleary per la casa editrice Il Barbagianni. Dal 2019 collabora con la rivista internazionale Kids. Durante la sua carriera ha vinto numerosi premi tra cui il Premio Gigante delle Langhe, il Premio Orbil, il premio Bitritto per I Numeri Felici (Vànvere Edizioni 2017); Il Premio Rodari 2019 per Il Posto Segreto (Lupoguido 2019). Nel 2018 ha vinto il Premio Andersen 2018 come miglior scrittrice. È stata nominata Italian Children’s Laureate per il biennio 2023/2024.