Accordo Italia-Albania: la gestione dei migranti offende il diritto internazionale. Dialogo con Giuseppe Cataldi | Italy-Albania agreement: migration management offends international law. Dialogue with Giuseppe Cataldi
DOI: 10.5281/zenodo.10647057 | PDF
L'accordo tra il primo ministro italiano e quello albanese prevede la creazione di due centri di rimpatrio per migranti definiti “irregolari” che dovrebbero “ospitare” fino a 3000 persone al mese, sotto giurisdizione italiana, ma sorveglianza esterna da parte delle autorità albanesi. Sebbene c’è chi in ambito governativo difenda questo accordo con toni di propaganda trionfalista, si teme che si possa trattare di nuovi centri di detenzione e che non rispettino l’obbligo di portare in luogo sicuro le persone soccorse in mare. Non è stato comunicato ancora nulla per quanto riguarda le eventuali modalità di rimpatrio, chi sarebbe responsabile di effettuare le scorte forzate o il trasferimento dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione sotto giurisdizione italiana. Ma non sono solo queste le ombre principali: ciò che preoccupa di più è che, dal momento in cui sbarcheranno in Albania, i migranti, già considerati “illegali”, sarebbero privati della libertà personale: diritti umani espropriati in nome dell’esternalizzazione della gestione dei migranti e della criminalizzazione delle Organizzazioni Non Governative. Ma l’Italia non è né nuova in questa politica di esternalizzazione – basti pensare allo scempio del memorandum Italia-Libia – e non è neanche sola nell’ostinato protezionismo nazionale, considerando le posizioni difensive degli altri paesi dell’Unione Europea.
Chi si impegna nell’educazione per i diritti umani, non può quindi prescindere da uno sguardo politico-giuridico. Da qui il dialogo con Giuseppe Cataldi, professore di diritto internazionale all’università l’Orientale di Napoli, coordinatore della rete europea Jean Monnet “MAPS” (Migration and Asylum Policy Systems. Weaknessess, Shortcomings and Reform Proposals) e presidente dell'Associazione Internazionale per il Diritto del Mare.
“Ancora non abbiamo un testo sul quale ragionare, ma solo notizie - afferma il giurista - sebbene la cooperazione nel campo della gestione delle migrazioni sia sempre benvenuta e il diritto internazionale se la augura - pensiamo alle convenzioni internazionali come il trattato di Amburgo del ‘79 sul soccorso in mare - quello che desta preoccupazione è sempre il tentativo di esternalizzare, delegare la gestione dei migranti. Se pensiamo all’accordo fatto da Boris Johnson per il Regno Unito con il Ruanda, è stato un esempio di fallimento totale nella gestione dei migranti, considerando che è stato bloccato dai giudici. L’idea che uno Stato più attrezzato e ricco cerchi collaborazione di paesi economicamente più deboli per fare il lavoro “sporco” desta perplessità così come l’eventualità che il provvedimento sia escluso per soggetti fragili: minori e donne incinte. Poi bisognerà capire quale sarebbe la contropartita reale per l’Albania. Certamente non lo fa per spirito umanitario…
L’esclusione di soggetti fragili fa pensare che questi centri non darebbero garanzie di diritti umani?
Certo, e in questo caso già partiamo male, perché non ci sarebbero le minime condizioni per il rispetto dei diritti fondamentali. Oltretutto lo sbarco deve avvenire nel cosiddetto posto sicuro – ovvero in una situazione nella quale la persona non solo non sia a rischio di vita, ma possa essere assistita, curata, rifocillata ed abbia la piena possibilità di vedere garantiti i propri diritti fondamentali. Quindi uno Stato che gestisce i migranti in un altro meno attrezzato confonde la cooperazione con la mancanza di assunzione di responsabilità. Se ci sono delle persone in pericolo non è detto che l’Albania sia il porto più sicuro. Poi bisognerebbe capire dove verrebbero salvate. Se sono salvate nel canale di Sicilia, ad esempio, non va bene perché l’Albania non è certamente il porto più vicino e quindi non è “posto sicuro”.
L’esclusione dei più fragili, oltre a lanciare ombre sui diritti umani, potrebbe essere divisiva per le famiglie? Se un padre di famiglia, ad esempio, viene portato in Albania in uno di questi centri chi garantisce che poi si ricongiunga agli altri membri?
Se la separazione è funzionale a una migliore trattamento della vicenda nell’immediato, dal punto di vista del diritto, potrebbe anche essere ammissibile, ma deve essere temporanea. Il principio è il “Best interest of the child” – cioè l’interesse del minore deve essere il faro a cui ci si deve conformare così come, secondo la Convenzione diritti dell’uomo, vale il principio dell’unità familiare: questi devono essere i due punti di riferimento solidi. Quindi se va nell’interesse del minore, lo si può fare temporaneamente, ma la famiglia va poi immediatamente ricomposta. Se c’è, invece, un’azione rivolta a mantenere separati diversi membri di uno stesso nucleo familiare per tempi più lunghi, siamo in una situazione di illegittimità in via politica o giudiziaria.
Chi garantisce che questi diritti siano rispettati e le famiglie si ricongiungano?
Ovviamente gli immigrati hanno difficile accesso a una tutela legale, se ragioniamo dal punto di vista dell’assistenza privata, ma ci sono associazioni come la Comunità di Santo Egidio, Amnesty International o Avvocati senza frontiere che si adoperano per aiutarli e sostenerli legalmente. La sentenza più clamorosa, in questo senso, è stata nel 2012 quando l’Italia è stata condannata perché ricondusse in Libia persone che fuggivano proprio da quel Paese. L’azione legale provenne da un gruppo di avvocati che avevano contatti con un parroco vicino ai diritti degli immigrati e così vinsero la causa. È stato sconfessato dai giudici costringere una nave a portare le persone nel Paese o porto da cui provengono, ma nonostante questo ci hanno riprovato, soprattutto durante l’epoca in cui il ministro degli interni era Salvini, e continuano a riprovarci.
Gli accordi internazionali dei precedenti governi non sono certo modelli di umanità. Pensiamo al Memorandum Italia-Libia del 2017 e appena rinnovato. Negli ultimi cinque anni, più di 85000 persone sono state intercettate in mare e riportate in Libia
Uomini, donne e bambini sottoposti a detenzione arbitraria, tortura, trattamenti crudeli, inumani e degradanti, stupri e violenze sessuali, lavori forzati e omicidi illegali in un Paese che non ha ratificato la convenzione sul rifugiato e dove è provato che i migranti sono trattati in modo disumano: sembra abbastanza evidente che la Libia non è un porto sicuro. Nonostante questo, il Memorandum nel 2022 è stato rinnovato par altri tre anni e temo lo sarà ad oltranza. Sono politiche disumane in continuità tra governi di segno diverso. Anche il decreto Piantedosi è molto discutibile, scritto bene per cui non si avvertono le trappole: ma in sostanza sul piano operativo impedisce salvataggi considerati “inutili” e questo – oltre ad essere poco chiaro – è contro la legge del mare più antica. Oltretutto, nega di poter fare un secondo salvataggio. Prevede inoltre ammenda e fermo amministrativo dell’imbarcazione intensificando i controlli tecnici sulle navi (cosa che riguardava in realtà anche la gestione del ministro Lamorgese). Vanno bene i controlli, ma perché non li fate su tutti? Ovviamente sono pretestuosi per inibire le azioni di salvataggio.
Delegittimare le ong colpisce i salvataggi dei migranti ma anche la salvaguarda del diritto internazionale
In fase di salvataggio si agisce su persone in difficoltà. Qualificarle, darle loro uno status è un’attività successiva al salvataggio. Noi prima salviamo le persone e poi si vede se è un richiedente asilo, un migrante economico o altro. Dico questo perché l’etichetta “migrante” la si vuole appiccicare subito per già dare una certa impostazione all’attività di salvataggio e criminalizzarla. Certamente la strategia, in coerenza tra i vari governi, è di esternalizzare da una parte e delegittimare dall’altra anche perché l’attività di tutela giuridica da parte delle Ong risulta essere un ostacolo alla politica di chiusura verso le migrazioni. In sostanza, sottrarsi dall’applicare norme di diritto a cui il nostro Paese è vincolato. Va detto che questo discorso non riguarda solo l’Italia ma l’Unione Europea in generale che si è smarcata dalle responsabilità e si preoccupa solo dei trasferimenti secondari in coerenza con l’applicazione della legge di Dublino, per cui il solo paese dove sbarcano è responsabile della prima accoglienza, cosa che si ritorce contro Italia, Spagna e Grecia. È evidente che manca la solidarietà europea. La gestione è complessa, ma non può gravare solo su un paese di primo ingresso. Basti pensare che in una memoria difensiva del governo polacco sul respingimento di migranti c’è scritto che sono “un paese monoetnico”. La mancanza di collaborazione internazionale viene quindi usata dai diversi governi come pretesto per esternalizzare, ma è concreta.
Gli Stati si stanno difendendo dagli obblighi che essi stessi hanno assunto a livello internazionale chiudendosi come nazioni
Questa condizione è generale, a livello globale. Si stipulano trattati per poi evadere dalle stesse regole che si assumono e questo ci dà il segnale dei tempi che viviamo.
Cambiando scenario, e andando sul fronte di guerra in Medio Oriente, lo IUS IN BELLO non solo è violato, ma del tutto ignorato. Si tratterebbe di un ambito del diritto internazionale che serve in certe situazioni a “umanizzare” la guerra. Ovviamente “umanizzare la guerra” è un ossimoro – ma fa riflettere il fatto che risale alla fine dell’Ottocento e prevedeva due interventi: da una parte pensare ai civili e ai feriti, dall’altra mettere al bando le armi più pericolose. Dopo la Seconda guerra mondiale la guerra è stata messa giustamente fuori legge. La guerra è una condizione metagiuridica. Vediamo cosa sta accadendo a Gaza. Una regressione terribile bombardare gli ospedali. Esiste la Corte penale internazionale ma finora è stata totalmente ignorata.
Eppure, la Corte penale internazionale è stata chiamata in causa quando giustamente bisognava fermare Putin per i suoi crimini. Entra anch’essa in guerra?
Preoccupa che la corte penale venga usata anch’essa come strategia di guerra e non come istituto o ente “super partes”. Dovrebbero intervenire le Nazioni Unite, ma esse sono tali se sono unite, e non mi sembra che lo siano. Il Diritto internazionale è stato violentemente espropriato, ma questo non vuol dire che non vale nulla, anzi. Penso anche che debba essere rafforzato da un discorso culturale, anche educativo: lavorare insieme per ricostruire la pace. Portiamo la pietruzza all’edifico della pace cercando di evitare un pensiero polarizzato (gli uni contro gli altri, come tifoserie calcistiche) ma comprendendo, insegnando e apprendendo insieme agli studenti che c’è una complessità: poi le norme, le leggi che tutelano i più deboli ci sono ma ci vorrebbe la volontà politica di farle rispettare.
Giuseppe Cataldi è Professore ordinario di Diritto Internazionale dell'Università degli Studi di Napoli “L'Orientale”. Coordinatore della rete europea Jean Monnet “MAPS” (Migration and Asylum Policy Systems. Weaknessess, Shortcomings and Reform Proposals). È Presidente dell'Associazione Internazionale per il Diritto del Mare (AssIDMer), autore di numerosi articoli e libri su questioni di diritto internazionale, diritto dell'Unione Europea, in particolare sul diritto del mare, diritti umani, migrazioni.
Paolo Vittoria insegna Pedagogia generale e sociale all’Università di Napoli. Dal 2010 al 2019 è stato docente di Filosofia dell’Educazione all’Università Federale di Rio de Janeiro. È autore di libri sull’educazione critica, i movimenti sociali e Paolo Freire, alcuni dei quali pubblicati in diverse lingue. Collabora con “il Manifesto”.
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