L’Ecomuseo tra sviluppo locale, cultura viva e coscientizzazione. Una sperimentazione del metodo maieutico in Agro Pontino | The Ecomuseum between local development, living culture and awareness. An experimentation of the maieutic method in Agro Pontino

DOI: 10.5281/zenodo.10645989 | PDF

Educazione Aperta, 15/2024

The mission of an Ecomuseum is to promote local development through the enhancement of the environmental and cultural heritage of a given territory. Development must obviously be sustainable, or rather self-sustainable. The relationship established between territorial heritage, local development and educational models is decisive for the success of the ecomuseum process. If we want to have a good awareness of our heritage, it is essential to question the traditional educational system and embrace a pedagogical approach that is able to lead to “conscientization”. With this in mind, the Ecomuseum of the Agro Pontino, in agreement with the Libera Università della Terra e dei Popoli, conducted a reflection on the ideas and practices developed by Paulo Freire and Danilo Dolci. The first attempts to carry out maieutic seminars in the Agro Pontino show various potentials but not a few critical points.

Keywords: ecomuseums, conscientization, living culture, maieutic seminars.

Ecomusei, sviluppo locale e partecipazione comunitaria

Nel 1976 Hugues de Varine, padre fondatore degli ecomusei, elaborò una definizione dell’ecomuseo che, allontanandosi da una concezione ambientale o etnologica, dava grande rilievo allo sviluppo locale: “l’ecomuseo è uno strumento di partecipazione popolare alla pianificazione territoriale e allo sviluppo comunitario” (de Varine, 2021, p. 53). Nel 1978 lo stesso museologo francese ribadì che l’ecomuseo aveva un obiettivo chiaro: lo sviluppo della comunità (de Varine, 2005). In ambito museologico l’attenzione alla comunità (e al suo sviluppo) era nata a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, come reazione al senso di chiusura, immobilità e inaccessibilità che caratterizzava il museo tradizionale. A partire da quel decennio la Nouvelle Muséologie iniziò a proporre la sostituzione della triade “edificio-collezione-pubblico” su cui si fondava la museologia classica con la nuova triade “territorio-patrimonio-popolazione” (Riva, 2008), sostituzione che ancora oggi determina la distinzione tra musei tradizionali ed ecomusei (altrove chiamati “musei comunitari”)[1]. Per de Varine lo sviluppo della comunità, o meglio lo “sviluppo locale”, è “un processo volontario di governo del cambiamento culturale, sociale ed economico, radicato in un patrimonio culturale vissuto, suscettibile di nutrirsene e di produrre a sua volta patrimonio culturale” (de Varine, 2005, p. 8)[2]. Tale processo non è possibile “senza la partecipazione effettiva, attiva e consapevole della comunità detentrice del proprio patrimonio” (ivi, p. 9). Lo sviluppo, inoltre, deve essere sostenibile, anzi autosostenibile. L’urbanista Alberto Magnaghi, fondatore della scuola territorialista, ha precisato cosa si debba intendere per autosostenibilità: “Il concetto di autosostenibilità si fonda sull’assunto che solo una nuova relazione co-evolutiva fra abitanti-produttori e territorio è in grado, attraverso la sua ‘cura’, di determinare equilibri durevoli fra insediamento umano e ambiente, riconnettendo nuovi usi, nuovi saperi, nuove tecnologie alla sapienza ambientale storica” (Magnaghi, 2000, p. 105). Lo sviluppo locale, quindi, presuppone tre condizioni fondamentali: un forte radicamento nel patrimonio culturale, la partecipazione della comunità che vive quel patrimonio, la possibilità di modificare quel patrimonio (Saccoccio, 2018). La partecipazione deve essere attiva e consapevole. I cittadini che contribuiscono al processo di governo del territorio devono essere, quindi, capaci di attivarsi per azioni specifiche sul territorio, ma devono possedere un’adeguata consapevolezza culturale che possa guidarne l’operato. Questa consapevolezza – sostiene de Varine – scarseggia a causa di tre fattori: “l’educazione che riceviamo secondo criteri accademici ed estetici, la nostra società dei consumi che ci inculca idee di valore commerciale e ci propone modelli estranei alla nostra cultura viva (che viene così a perdere di valore); l’esistenza di amministrazioni pubbliche di tutti i livelli e di istituzioni culturali molto potenti che ci convincono che la cultura è qualcosa cui occorra ‘accedere’ e non qualcosa che è già dentro di noi, ci appartiene e ci circonda” (de Varine, 2005, p. 28). Come si può vedere, le responsabilità non possono essere attribuite solo al modello consumistico o alla miopia delle politiche culturali; una grande responsabilità è oggettivamente rintracciabile nel nostro sistema educativo.

Cultura viva e trasformazione: Hugues de Varine e Paulo Freire

Per mettere a fuoco il rapporto tra educazione, patrimonio culturale e sviluppo, occorre comprendere innanzitutto cosa intende de Varine per “cultura viva”. La “cultura viva” equivale a “tener conto del patrimonio culturale contestualmente alla vita e al contesto dello sviluppo” (ivi, p. 92). L’educazione impartita nelle nostre scuole, essendo distante dalla “cultura viva”, è quindi responsabile della mancanza di consapevolezza del patrimonio culturale. De Varine ha scritto di aver elaborato questa idea di “cultura viva” grazie all’insegnamento di Paulo Freire (ibidem). È curioso il fatto che negli articoli e nei saggi che de Varine ha pubblicato in circa mezzo secolo di attività siano scarsissime le citazioni di altri studiosi. C’è un’unica eccezione, Paulo Freire, che viene citato diverse volte. Ho subito pensato che questa eccezione fosse molto significativa e non potesse né dovesse essere sottovalutata, ed è per questo motivo che nell’estate del 2019 ho intervistato de Varine per sottoporgli alcune domande relative al suo rapporto con Freire. Ecco come il museologo francese ha ricordato l’occasione in cui nacque la collaborazione con il pedagogista brasiliano: “nel 1972, quando preparavo la Tavola Rotonda di Santiago, ho domandato a Paulo Freire se avrebbe accettato di essere il principale relatore dell’incontro e lui ha accettato. La mia idea era che riflettesse sul museo come aveva riflettuto sulla scuola. […] E poi, avendo lavorato molto in Brasile su progetti comunitari e patrimoniali, ho ritrovato le sue idee che sono laggiù molto spesso messe in pratica in numerosi ambiti” (Saccoccio, 2019). Quindi a de Varine interessava portare nel campo della museologia le idee che Freire aveva elaborato per la scuola. Queste idee le ha potute sviluppare collaborando, negli anni Settanta e Ottanta, con Arlindo Stefani, un allievo brasiliano di Freire con cui aveva creato una grandiosa utopia intitolata “cultura viva e sviluppo” (de Varine, 2005, p. 92). Anche su questo aspetto de Varine mi ha dato spiegazioni: “si trattava di partire dall’osservazione partecipata della vita quotidiana, dalle persone stesse, per portarle a presentare proposte concrete e applicarle nella loro vita quotidiana e nei territori. Ciò che noi chiameremmo in portoghese capacitação o in inglese empowerment. Si trattava di far prendere coscienza del sapere di ciascuno in un approccio collettivo o condiviso, per prendere quindi fiducia nella loro capacità di risolvere problemi reali ma semplici, poi spostarsi progressivamente verso la soluzione di problemi sempre più complessi” (Saccoccio, 2019). Nel suo recente L’ecomuseo singolare e plurale sempre de Varine ha precisato che il portoghese capacitação significa “rendere le persone capaci di comportarsi in modo autonomo e di acquisire dei ‘saper fare’, discende un po’ dal processo di ‘coscientizzazione’ proposto da Paulo Freire. Come nell’educazione liberatrice esiste una forma di cooperazione e interazione tra l’educatore e l’educato, nella ‘capacitazione’ il formatore lavora a partire da ciò che già sanno e posseggono i membri della comunità” (de Varine, 2021, p. 142)[3].

Paulo Freire, distinguendo un’educazione “liberatrice” da un’educazione “bancaria” o “depositaria”, ha affermato che quest’ultima parla della realtà “come di qualcosa di fermo, statico, suddiviso e disciplinato [… e disserta] su argomenti completamente estranei all’esperienza esistenziale degli educandi” (Freire, 2011, p. 57). In quest’ottica i contenuti dell’educazione sono dei “veri e propri ritagli della realtà, sconnessi rispetto all’insieme da cui hanno origine, e in cui troverebbero significato” (ibidem). Al contrario, la cultura e l’educazione dovrebbero sempre essere connesse al cambiamento, all’evoluzione, alla trasformazione. Per Freire e de Varine, quindi, non può esserci possibilità di un’autentica conoscenza e consapevolezza all’interno di un sistema educativo in cui gli educandi sono oggetti passivi e abituati a pensare alla realtà come qualcosa di statico, da subire e non ri-creare. Al contrario “il sapere esiste solo nell’invenzione, nella re-invenzione, nella ricerca inquieta, impaziente, permanente che gli uomini fanno nel mondo e con gli altri” (ivi, p. 58). Occorre un’educazione problematizzante, basata sulla ‘dialogicità’, in cui “gli ‘argomenti di autorità’ non hanno più valore” (ivi, p. 69)[4].

Il metodo maieutico e il contributo teorico-pratico di Danilo Dolci

De Varine ha parlato espressamente di maieutica, affermando che l’agente di sviluppo locale “è anche un maieuta, che non crea nulla per proprio conto, ma aiuta a creare i veri agenti, gli attori sul campo” (de Varine, 2005, p. 4). L’approccio maieutico, applicato al mondo dell’educazione, non può non condurre alle riflessioni di Danilo Dolci, un’altra figura che, proprio come Freire e de Varine, ha sempre cercato di dare concretezza alle proprie idee attraverso significative esperienze. Come ha scritto Daniele Novara, “Dolci non era un pensatore puro alla Ivan Illich o alla Michel Foucault, che pure si sono battuti contro un certo modello di società proponendone un’altra, ma era uno sperimentatore, un uomo legato alla realtà e all’operatività, come per esempio in America Latina Paulo Freire. Sarebbe impensabile capire Dolci senza analizzare concretamente quello che cercò di fare. Il suo pensiero si nutriva d’azione e non poteva prescinderne” (Novara, 1988, p. 12). Ed è proprio analizzando le attività portate avanti da Dolci che è possibile trarne un grande insegnamento per le azioni educative sviluppate dagli ecomusei. Nel suo volume Dal trasmettere al comunicare, Dolci mostra come le modalità di comunicazione che impieghiamo abitualmente non abbiano in realtà nulla a che vedere con la “comunicazione”, ma siano modalità utili solo alla “trasmissione” di un’informazione: “affinché avvenga una comunicazione, occorre vi siano impegnate almeno due creature. Usualmente le lezioni nelle scuole trasmettono. Le prediche trasmettono. I comizi trasmettono. Le radio trasmettono. Le televisioni trasmettono (il televisore è il moderno seduttore, di serie). Le fabbriche trasmettono disposizioni, progetti e ordini. Ma solo comunicando ogni uno diviene creativo. E solo comunicando (creativi) si riesce a conoscere” (Dolci, 1988, p. 193). Per Dolci “solo apprendendo veramente a comunicare, una massa può trasformarsi in organismo sociale” (ivi, p. 209). Questo passaggio dal trasmettere al comunicare è fondamentale per il processo di sviluppo locale portato avanti dagli ecomusei. Lo stesso de Varine ha più volte precisato che in ambito ecomuseale l’educazione non ha nulla di trasmissivo: “Gli operatori permanenti dell’ecomuseo non possono essere educatori, poiché trasformerebbero gli utenti in pubblico. L’ecomuseo non è visitato, bensì vissuto. Non è organizzato per la visita, bensì creato costantemente dalle persone che ci vivono” (de Varine, 2005, p. 257). Questa impostazione non è distante da quella che ha portato Danilo Dolci a elaborare il metodo della maieutica reciproca. Antonio Vigilante ha ben delineato il rapporto tra sviluppo e maieutica nel suo Ecologia del potere. Studi su Danilo Dolci: “il suo problema è quello dello sviluppo del microcosmo della Sicilia nord-occidentale. Ma è il metodo stesso impiegato per affrontare il problema dello sviluppo ad indurlo a viaggiare, cercando soluzioni in luoghi molto lontani dal suo microcosmo d’elezione. Il metodo, come sappiamo, è la maieutica: è la via del cercare insieme, del ragionare comune che valorizza il contributo di ognuno. Lo sviluppo ha bisogno dei tecnici, ma non bastano; occorre soprattutto che la gente si incontri e si interroghi insieme su cosa fare, su come farlo; occorre che ognuno impari dagli altri” (Vigilante, 2012, p. 128). Da questa esigenza nasceranno esperienze fondamentali come quella dei dialoghi con i contadini di Partinico, in Sicilia, dialoghi che oggi possiamo leggere nel volume Conversazioni contadine (Dolci, 2014). Contadini e artigiani, uomini e donne, dialogano liberamente con Dolci, il quale cerca di guidare la discussione senza imporre il proprio punto di vista[5].

Prove di coscientizzazione in Agro Pontino: l’Ecomuseo e la Libera Università della Terra e dei Popoli

Nel 2018 l’Ecomuseo dell’Agro Pontino ha stabilito un rapporto solido di collaborazione con la Libera Università della Terra e dei Popoli (LUNITEPO), un’associazione che è nata prendendo spunto dalla Universidad de la Tierra (UNITIERRA) fondata a Oaxaca, in Messico, da Gustavo Esteva (Esteva, 2013), sostenitore del pensiero di Ivan Illich. Da quel momento l’Ecomuseo e la LUNITEPO hanno cercato di integrare la prospettiva pedagogica di Freire e Dolci nelle proprie azioni sul territorio. Ogni iniziativa ha avuto come primo obiettivo quello di favorire la comunicazione (nel senso che a questo termine ha dato Dolci) e la coscientizzazione attraverso il metodo maieutico. Sono state innanzitutto ridotte tutte le attività che presentano un contesto puramente trasmissivo (lezioni, presentazioni, conferenze, convegni), in cui la maggioranza dei partecipanti si sente pubblico, spettatore escluso dalla costruzione della conoscenza. Si è tentato, nello stesso tempo, di creare occasioni in cui i membri della comunità possano sentirsi parte attiva di un processo di sviluppo non subito. Nelle pagine che seguono non saranno prese in considerazione le attività educative che l’Ecomuseo svolge con le scuole, poiché in quel tipo di contesto non è stata ancora avviata la sperimentazione del metodo maieutico.

Le attività che prendiamo in esame sono di due tipologie differenti, una informale, l’altra più formalizzata. Per quanto riguarda la prima, l’Ecomuseo ha dato largo spazio alle cosiddette “passeggiate di scoperta”. Si tratta di sopralluoghi condotti in particolari località con la partecipazione di alcuni membri della comunità locale. Durante questi sopralluoghi alcune “persone risorsa”[6] accompagnano un gruppo alla scoperta del loro territorio, evidenziando prioritariamente elementi di pregio del patrimonio ambientale e culturale. Solitamente si unisce al gruppo il coordinatore dell’Ecomuseo, alcuni operatori ecomuseali e studiosi del territorio, rappresentanti dell’amministrazione locale (sindaco, assessori, consiglieri comunali) e altri cittadini incuriositi dall’iniziativa. Di questi incontri molto spesso non viene data pubblicamente notizia, perché devono restare nell’informalità e perché il numero dei partecipanti non può essere elevato per non inficiare la qualità del dialogo. Date queste premesse, capita spesso che la passeggiata prenda una piega diversa da quella preventivata. Può capitare, ad esempio, che si smetta ben presto di illustrare il patrimonio territoriale perché un abitante incontrato casualmente lungo la strada incomincia a denunciare un preciso problema che affligge il suo quartiere. Può capitare che durante il sopralluogo si incontri un assessore comunale, felice di illustrare gli ultimi provvedimenti presi per la valorizzazione del patrimonio ambientale, ma disponibile anche ad ascoltare nuove idee per lo sviluppo locale di quel territorio. Può capitare di incontrare l’amico del nostro informatore, un contadino, un pescatore o un imprenditore che hanno idee originali per la valorizzazione dei prodotti locali ma non sanno come proporle ai politici (e qui può entrare in gioco direttamente il ruolo di mediazione svolto dall’Ecomuseo). Non c’è una passeggiata di scoperta uguale a un’altra. Durante questi incontri è fondamentale che nessuno si metta o venga messo in cattedra e che tutti possano apprendere da tutti. Negli ultimi anni sono state effettuate passeggiate di scoperta nei Comuni di Sonnino, Norma, Sezze, Roccagorga, San Felice Circeo, Vallecorsa, Prossedi, Amaseno, Cori.

La seconda via, più formale, per favorire la coscientizzazione è quella particolare forma di dialogo collettivo che può essere chiamato “seminario maieutico”. Il modello è simile a quello adottato da Dolci nelle conversazioni a Partinico. Due di queste conversazioni, trascritte nel volume Conversazioni contadine, assomigliano molto al modello dei “seminari maieutici” recentemente sperimentati dall’Ecomuseo dell’Agro Pontino: si tratta delle conversazioni intitolate “Cosa vorremmo tenere e sviluppare, e cosa cambiare nella vita di questa zona?” e “… E come cambiare?” (Dolci, 2014). L’attenzione viene posta prima sul “cosa” cambiare e poi sul “come” cambiare. Nei seminari maieutici un gruppo viene convocato per discutere su uno o più argomenti/problemi legati al territorio e alla comunità, chiarendo che ciascuno dei partecipanti, rigorosamente seduti in circolo, avrà la possibilità di esprimersi su quegli argomenti/problemi con pari dignità. Il tentativo è quello di recuperare la parte migliore (spontaneità, convivialità) dei dialoghi quotidiani tra amici, ma all’interno di una situazione costruita in modo tale da affrontare alcuni temi importanti per la comunità che partecipa ai seminari[7]. Nei primi seminari che l’Ecomuseo dell’Agro Pontino e la Libera Università della Terra e dei Popoli hanno organizzato nel 2022 è emerso a tratti tutto il potenziale della maieutica reciproca: in primo luogo la messa in discussione del carattere statico e trasmissivo dei consueti incontri divulgativi che si svolgono sul territorio; secondariamente, la dimostrazione concreta che da un dialogo poco orientato sia possibile veder nascere proposte inedite e dense di significato; infine, il piacere derivante da un confronto disteso, non affrettato e non competitivo (la tensione per il risultato da conseguire cede il passo al piacere per il percorso condiviso).

Tuttavia, in questi seminari sono emersi diversi problemi di gestione su cui conviene soffermarsi. Il primo riguarda la difficoltà per alcuni di comprendere il senso di un’attività che, proprio per la sua natura libera, dialogica e, almeno apparentemente, poco strutturata, viene percepita come “poco importante”. Coloro che partecipano ai seminari sono molto spesso gli stessi che abitualmente partecipano a eventi istituzionali con relatori seduti in cattedra e presentati pomposamente o prendono parte a tavoli di lavoro condotti da tecnici che seguono rigorose tabelle di marcia[8]. Per chi è abituato a simili contesti, conversare liberamente seduti in circolo senza avere ben chiaro quale obiettivo raggiungere concretamente al termine della discussione può essere percepito come un’attività poco significativa e forse anche inutile. L’elemento più difficile da accettare resta quello di una discussione non orientata a raggiungere obiettivi precisi e concreti. Molti partecipanti tendono a trascurare le potenzialità di un dialogo maieutico, ma la grande potenzialità di questo tipo di seminari risiede proprio in un confronto che possa portare a porre nuove domande e quindi aprire nuovi scenari per la vita della comunità.

L’altro grande problema è quello della conflittualità. I conflitti, quando ci si confronta su temi legati al territorio dell’Agro Pontino, possono essere determinati principalmente da due fattori: la contrapposizione tra rappresentanti della cultura accademica e della cultura popolare; la contrapposizione ideologica tra i cantori della bonifica integrale fascista e della redenzione dell’Agro Pontino e coloro che imputano al fascismo la distruzione della più grande foresta planiziale in Europa. In entrambi i casi durante un seminario maieutico queste contrapposizioni possono far arenare il dialogo e creare un clima di tensione che, se non viene prontamente arginato, diviene insostenibile. A questo punto diventa fondamentale la capacità del coordinatore/conduttore di intervenire nella discussione, invitando tutti a evitare le contrapposizioni personali e tenere a mente lo scopo finale del seminario, che non è certamente stabilire chi tra due contendenti abbia ragione e chi torto[9]. L’Ecomuseo ha sempre ritenuto fondamentale intavolare discussioni pubbliche in cui – andando a semplificare – rappresentanti della cultura accademica potessero confrontarsi con esponenti della cultura popolare. Tuttavia, in un contesto come quello del seminario maieutico, l’approccio e il linguaggio impiegati da un ricercatore universitario possono risultare poco stimolanti per il contadino o il pescatore e lo stesso discorso vale a parti invertite; da questa distanza può emergere talora frustrazione e risentimento reciproco[10]. Nel caso poi delle discussioni tra i sostenitori e i detrattori della bonifica fascista l’invito è quello a non trasformare il seminario in un tribunale della storia e a riportare il confronto sulle proposte per il presente e il futuro del territorio. Questo non significa nascondere sotto il tappeto i conflitti e i contrasti ideologici (anche perché essere pro o contro la bonifica integrale comporta molto spesso anche una diversa visione del futuro del territorio), ma provare a comprendere che il bene di una comunità è superiore a qualsiasi contrapposizione personale e che nei seminari dal confronto sincero tra posizioni differenti può nascere una sintesi in grado di migliorare tutti i partecipanti.

Un ultimo problema, indubbiamente minore rispetto agli altri ma non per questo trascurabile, è costituito dal ruolo del coordinatore dei seminari, che deve evitare di indirizzare il dialogo verso esiti che coincidano con la propria visione. Il coordinatore interviene spesso per stimolare la partecipazione di chi tende a stare in silenzio, per tentare di arginare chi interviene troppo frequentemente e con toni inadeguati al contesto, ma deve evitare di portare il gruppo verso le proprie idee. D’altra parte per Vigilante è proprio questa la differenza tra la maieutica di Socrate e la maieutica reciproca elaborata da Dolci: “Chi viene preso nella rete della maieutica socratica è nella posizione di colui che risponde, non di chi fa domande. Nei seminari maieutici invece il conduttore, che dà avvio alla discussione, intende suscitare tanto risposte quanto nuove domande. Se ognuno nel gruppo si limitasse a rispondere, allora sarebbe un rapporto maieutico classico, con la semplice differenza che si tratterebbe di un rapporto da uno a molti. Nei gruppi maieutici tutti cercano la risposta ed al tempo stesso tutti fanno le domande. È questo che fa della nuova maieutica una maieutica complessa” (Vigilante, 2012, pp. 350-351). Per avvicinarci a questi obiettivi è importante che il conduttore chiarisca inizialmente il metodo maieutico e durante il seminario intervenga solo sulla messa in pratica del metodo, evitando accortamente di mettere in evidenza le proprie opinioni nel merito dei problemi affrontati dal gruppo.

Note

[1] Tra i primissimi articoli che criticavano l’impostazione dei musei tradizionali e proponevano nuove strade per la museologia contemporanea occorre ricordarne uno scritto da de Varine nel 1969, rimasto a lungo inedito e pubblicato solo nel 1992: Le musée au service de l’homme et du développement. Nello sviluppo dell’argomentazione il museologo francese individuava già relazioni tra il modello museale e il sistema di istruzione: “Il museo di oggi è il perfetto equivalente di quello che all’università si definisce ‘corso magistrale’, ‘ex cathedra’, che verte su temi isolati dal loro contesto umano” (de Varine, 2005, p. 227). 

[2] “Il patrimonio (naturale e culturale, vivo o sacralizzato) è una risorsa locale che trova ragion d’essere solo nell’integrazione all’interno delle dinamiche di sviluppo” (de Varine, 2005, p. 8).

[3] La cultura viva non può essere codificata, perché è in costante evoluzione: “Una delle principali caratteristiche della cultura viva, in materia di sviluppo locale o comunitario, è di non essere codificata e, essendo viva, di evolvere costantemente in funzione delle situazioni, ma soprattutto di ciò che le si prospetta di nuovo. La cultura viva è quindi essenzialmente creatrice: ogni nuova impressione, situazione, aggressione, provocazione proveniente dall’esterno è un fattore di produzione culturale sotto forma di risposta adeguata, tecnica o filosofica” (de Varine, 2005, pp. 92-93).

[4] Partendo da queste considerazioni Freire giunge a una delle sue definizioni più fortunate: “Nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano in comunione, attraverso la mediazione del mondo” (ibidem). Quanto questa visione pedagogica sia indispensabile al processo comunitario ecomuseale dovrebbe apparire con chiarezza a ogni operatore del settore.

[5] A volte è lo stesso Dolci a uscire allo scoperto, chiarendo la sua posizione nella discussione: “Nel caso mio però io la cerco la strada con gli altri; non è che io ce l’abbia la verità impacchettata in tasca da insegnarla agli altri” (Dolci, 2014, p. 175).

[6] Per “persone risorsa” (termine ripreso da Hugues de Varine) intendiamo i membri della comunità che hanno una maggiore conoscenza del patrimonio territoriale e che si impegnano per valorizzarlo. Possono coincidere con quelli che gli antropologi chiamano “informatori”, ma rispetto a questi devono avere necessariamente un ruolo attivo all’interno della comunità: proprio per questo sono da considerarsi una risorsa per il territorio. La ricerca e l’individuazione di questo tipo di persone è un passo imprescindibile per poter avviare un processo ecomuseale.

[7] Antonio Vigilante ha chiarito la natura formale e al tempo stesso naturale di questo tipo di seminari: “Se un gruppo maieutico è realmente tale – se, cioè, ad ognuno è data la possibilità di parlare ed essere ascoltato –, in breve tempo si crea in esso un clima di condivisione che si può caratterizzare come la sensazione, più o meno approfondita razionalmente, di non essere in una situazione di serialità, ma di far parte di un sistema, di un organismo che si alimenta delle proprie parole e del proprio ascolto. Ciò che sorprende nel gruppo maieutico è il suo carattere al tempo stesso artificiale (poiché si tratta di una situazione comunicativa non quotidiana) e spontaneo. Chi partecipa ad un gruppo maieutico ha l’impressione di fare qualcosa di naturale; solo in seguito rifletterà sul fatto che di rado, e forse mai, gli era capitata una situazione comunicativa così libera ed intensa al tempo stesso. È probabilmente anche per sottolinearne questo carattere di naturalezza, che Dolci non ha mai voluto formalizzare il suo metodo, scriverne il manuale o creare percorsi di training per i conduttori, come è accaduto per altri metodi. Ha preferito piuttosto riportare nei suoi libri i seminari maieutici stessi, affinché le caratteristiche del metodo emergessero dal vivo del suo utilizzo” (Vigilante, 2012, p. 342).

[8] Questi tavoli di lavoro (frequentemente portati avanti dalle amministrazioni locali, dalla Regione o nell’ambito di progetti europei) vengono molto spesso pubblicizzati come “processi partecipativi”, ma quasi sempre la partecipazione, seppure costantemente evocata, non è realmente praticata.

[9] Ha scritto in proposito ancora Vigilante: “Anche in questo si rivela decisivo il ruolo del conduttore, che dovrà tessere costantemente la rete della ricerca comune, indicando i punti di accordo della discussione e invitando a soffermarsi su quelli piuttosto che su quelli di disaccordo e di conflitto e chiarendo costantemente il senso di un seminario maieutico, che non è quello di stabilire quale, tra le diverse opinioni dei partecipanti, debba essere considerata come verità e prevalere sugli altri, ma di cercare attraverso il confronto una verità che sia più della somma delle singole opinioni” (Vigilante, 2012, p. 346).

[10] Solitamente i ricercatori, accademici e non, imputano ai contadini dell’Agro Pontino di ignorare le conseguenze delle loro azioni a livello generale. Per i contadini, invece, i ricercatori parlano di cose che non possono conoscere perché vivono chiusi nei loro studi e nelle loro aule.

Riferimenti bibliografici

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De Varine H., L’ecomuseo singolare e plurale, Utopie concrete, Gemona del Friuli 2021.

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Esteva G., Senza insegnanti. Descolarizzare il mondo, Asterios, Trieste 2013.

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Riva R., Il metaprogetto dell’ecomuseo, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna (RN) 2008.

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Saccoccio A., Qualche domanda a Hugues de Varine su ecomusei, educazione e Paulo Freire, in “Ecomuseo dell’Agro Pontino”, 1 dicembre 2019, url: https://ecomuseoagropontino.org/2019/12/01/qualche-domanda-a-hugues-de-varine-su-ecomusei-educazione-e-paulo-freire-a-cura-di-a-saccoccio/

Vigilante A., Ecologia del potere. Studi su Danilo Dolci, Edizioni del Rosone, Foggia 2012.

L'autore

Antonio Saccoccio è dottore di ricerca in Studi umanistici presso l’Università Tor Vergata di Roma. La sua vita si divide tra l’insegnamento e la ricerca (letteratura, arti visive e sonore, pedagogia, ecomusei). Ha pubblicato articoli e saggi critici in volumi di editori nazionali e internazionali (Rodopi, Peter Lang, Universitalia, Pendragon, De Gruyter, Armando, Amsterdam University Press, Franco Cesati, Lothringer etc.). È coordinatore tecnico-scientifico dell’Ecomuseo dell’Agro Pontino.