Il museo come processo di partecipazione. Laboratori d’arte per una cultura diffusa e inclusiva | The Museum as a participatory process. Art workshops for a widespread and inclusive culture

DOI:10.5281/zenodo.10644419 | PDF

Educazione Aperta 15/2024

In the contemporary scenario, the museum institution has the possibility of becoming a strategic place of encounter, the protagonist of a cultural transformation capable of re-opening dialogue within communities, focusing attention on those territorial areas where the roads of cultural opportunities are often interrupted. The aim of this article is to highlight the discrepancies between the expectations and the concrete declinations of the museum institution, describing an experience conducted in the context of the Brescia suburbs. A participatory art process was activated by focusing on the peculiarities of specific community groups, and reconstructing with them the dimension of participation of a museum outside its walls, where interaction, education and promotion of the heritage took the form of the expression of the community involved. The chosen method was the art workshop, conceived as a process of creating a common narrative deriving from personal experience which – translated through the language of art – lost all singularity, becoming part of a collective narrative at the centre of which were the connecting nodes of the network existing between the participants and the place[1].

Keywords: participatory art, museums, art workshops, inclusion, Lifelong Learning. 

Introduzione

Nel Codice Etico dell’International Council of Museums (ICOM, 2017) – il documento adottato all’unanimità nel 1986 durante la 15° Assemblea Generale dell’Organizzazione internazionale dei musei e dei professionisti museali, a Buenos Aires, Argentina – si riporta come principio fondante dell’istituzione museo il suo ruolo educativo, di interazione con la comunità e con il territorio e di promozione del patrimonio culturale materiale e immateriale[2]. Tale visione del museo – che oggi passa attraverso gli standard minimi condivisi nel suddetto Codice Etico – secondo Panciroli (2020) attraversa diverse fasi evolutive che potremmo datare al Seicento, quando l’attenzione del museo era rivolta alle élite intellettuali che disponevano delle chiavi di lettura per usufruire delle collezioni presentate. In quell’epoca il fruitore dei musei poteva definirsi come ‘visitatore-ospite’. Nel Sette-Ottocento “il pubblico [assume una nuova connotazione] come popolo di massa da educare [...], al punto che si parla di visitatore-discepolo” (Panciroli, 2022, p. 103). Solo nel Novecento il pubblico – descritto come ‘visitatore-protagonista’ – entra nel processo di comunicazione del museo diventando interlocutore decisivo. Ad oggi, secondo Sanguanini (2006) stiamo assistendo alla definizione di un nuovo visitatore moderno, tipicamente appartenente alla classe media, “che aspira a raggiungere esperienze culturali elevate accumulando informazioni” (p. 145). In altre parole, ci troviamo di fronte ad una nuova élite che differentemente da quella seicentesca ‘consuma’ in modo acritico invece di ‘fruire’. Per rispettare quindi le linee ICOM è importante trovare strategie per riportare il pubblico ad essere protagonista critico dello spazio culturale, riflettendo sul binomio ‘consumo-partecipazione’. Tale polarizzazione si trova all’interno del sistema museale stesso in quanto, spesso, quando si riflette sul problema della mancata partecipazione all’offerta istituzionalizzata di cultura, si descrive come un problema di “non consumo culturale” (Comune di Bergamo, Comune di Brescia, 2023). Il focus dovrebbe essere sulla fruizione intesa come partecipazione attiva in modo inclusivo. Pertanto, finché il sistema museale non avvia un concreto processo di messa in discussione, sarà difficile trovare le risposte alla mancata partecipazione e colmare il divario che oggi separa i musei dai loro pubblici potenziali (Gibbs et al., 2007). In questo processo i musei sono specificamente chiamati a “rinnovare il rapporto con i propri visitatori e interlocutori, e a divenire centri di elaborazione culturale dei e nei territori, motore per lo sviluppo di una nuova cultura dell’inclusione sociale e della partecipazione alla vita culturale della società” (Salerno, 2013, p. 10). Solo così l’istituzione museo potrà effettivamente dare voce a tutte le forme di espressione in cui una comunità si produce (Panciroli, 2020) e quindi rispettare la definizione concordata dai 126 comitati che hanno partecipato all’Assemblea generale straordinaria dell’ICOM del 24 agosto del 2022:

un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano in modo etico e professionale e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze (ICOM, www.icom-italia.org).

Lo scopo del presente articolo è quello di analizzare il ruolo della mediazione – strategie e strumenti – per superare le discrepanze tra le attese e le concrete declinazioni dell’istituzione museo, descrivendo un intervento condotto nel contesto della periferia di Brescia, luogo nel quale è stato attivato un processo di arte partecipata che, partendo dai gap evidenziati, ha provato a mettersi in ascolto delle peculiarità di gruppi comunitari specifici, ricostruendo insieme a loro la dimensione della partecipazione di un museo fuori dalle sue mura, dove interazione, educazione e promozione del patrimonio hanno preso le forme di espressione della comunità coinvolta. Lo strumento scelto è stato il laboratorio d’arte, rivolto ad un pubblico che vive nella periferia di Brescia nella zona di via Milano, luogo a lungo escluso dalla vita culturale della città che nel tempo si è evoluto ospitando gran parte della popolazione straniera o che vive nelle condizioni più precarie.

Arte e mediazione per trasformare lo sguardo

Nella visione di un museo inclusivo la mediazione e, dunque, la Didattica Museale diventano fondamentali strumenti dell’istituzione per rendere accessibile il patrimonio culturale ad un pubblico ampio e diversificato. Ciò soprattutto in riferimento “a quel pubblico che ancora oggi ha difficoltà nell’accesso e nella fruizione del patrimonio culturale, e che pertanto necessita di approcci più mirati e inclusivi” (Salerno, 2013, p. 10).

Il mediatore o la mediatrice ha il compito di ritessere il dialogo tra museo e comunità, ascoltando i bisogni esterni e progettando nuove strade di partecipazione per una co-costruzione della cultura che va oltre i confini fisici del museo e riflette il contesto in cui si trova. “La mediazione è l’insieme di strategie e azioni per favorire l’incontro tra persone e contenuti culturali” (Peri, 2019, p. 15). Mediazione è una parola che esprime relazione, lo stare al centro tra due parti, in uno spazio di confine in cui creare opportunità per favorire l’incontro, costruendo ponti per connettere i mondi che ogni individuo porta con sé (ibidem). Se, come definito dall’ICOM l’obiettivo del museo è quello di coinvolgere la comunità, non si può progettare un’offerta esperienziale interna al museo senza tenere in considerazione il contesto socio-culturale, personale (motivazione, aspettative, preconoscenze, interesse, e fiducia) e fisico del pubblico a cui si fa riferimento. Una volta individuato il contesto, per arrivare ad una fruizione attiva del museo è fondamentale affrontare l’arte come processo trasformativo e non più come prodotto da consumare passivamente.

Trasformazione è una parola che descrive il tempo in cui viviamo, dove la complessità e la velocità del cambiamento culturale stanno lasciando indietro una grande fascia di popolazione che non partecipa più attivamente alla costruzione della cultura. Secondo i dati Istat (2022) si sta assistendo ad un trend in negativo sulla partecipazione culturale “con punte di flessione più elevate per la fruizione di [...] visite a musei e mostre” (p. 7). Nella società contemporanea che tende a frammentare gli spazi (ogni luogo è specializzato a un determinato compito) e la conoscenza (i settori del sapere frammentano la realtà e ne impediscono una vera ricomposizione) diventa sempre più necessario lavorare sugli strumenti interpretativi che permettono ai singoli individui di leggere i cambiamenti e, al contempo, costruire una propria dimensione di appartenenza; diventa necessario allenare il pensiero critico ad analizzare e comprendere la realtà, affinché i singoli riescano a costruire la propria identità, che – calata nel contesto socio-culturale e comunitario – diventa strumento per dar vita al patrimonio condiviso.

L’arte, in questo scenario contemporaneo, si pone come strumento trasversale, linguaggio universale ed inclusivo, capace di toccare ogni ambito della conoscenza, mezzo di comunicazione per riaprire il dialogo all’interno di una comunità oggi composta da micro-comunità disconnesse. Il museo, quale custode di tale linguaggio, ha la possibilità di diventare un luogo strategico per la narrazione culturale. Infatti, il museo non può più essere unico e uguale ovunque, secondo generali principi di standardizzazione, ma di volta in volta deve assumere il carattere che il suo patrimonio e la sua storia esigono (Russoli, 2017). Una mediazione rinnovata è quindi la chiave che può portare l’istituzione museo a superare il binomio ‘consumo-partecipazione’, iniziando dal superamento dei confini delle proprie mura per dialogare con il territorio. In questo senso, il museo diventa protagonista di una trasformazione culturale che rivolge l’attenzione anche verso quelle aree territoriali dove spesso si interrompono le strade delle opportunità culturali. La mediazione – non più legata ad un solo spazio – assume le caratteristiche di un processo attraverso il quale poter allenare la capacità interpretativa dello sguardo dei propri interlocutori. L’istituzione museo trova allora un nuovo ruolo nell’accompagnare la trasformazione dello sguardo dei suoi fruitori attraverso la partecipazione.

Secondo Cerri (2007), infatti, la mediazione è implicitamente e soprattutto un’opera di trasformazione che non coinvolge solamente gli oggetti cognitivi (il ‘sapere’); la trasformazione coinvolge anche la comunicazione, l’interazione e la relazione con spazi e oggetti in un processo complesso e non lineare. La trasformazione dello sguardo non è quindi da intendere come il predominio del senso della vista, ma come sintesi della dimensione cognitiva, sensoriale ed emotiva del singolo, in un contesto collettivo. Così intensa, la trasformazione richiede un tempo naturale che non è uguale per tutti e soprattutto non avviene attraverso le stesse dinamiche. Per trasformare lo sguardo è necessario far incontrare il corpo (porta sensoriale sul mondo esterno) con la mente (porta cognitiva sul mondo interiore) attraverso una chiave emotiva che, nel caso del museo, è la partecipazione all’esperienza dell’arte in tutte le sue declinazioni. Tale partecipazione è “difficile da ottenere senza spendere delle energie progettuali, di risorse umane, di motivazione, nel tentativo di aprire il museo e di renderlo, per così dire, un luogo d’ascolto” (Satta, 2005, p.2). Per questo a cambiare non è solo lo sguardo del pubblico ma anche e, prima di tutto, quello del museo che segue le linee di un dialogo bidirezionale con la comunità e si allontana da un’offerta culturale ‘preconfezionata’.

In definitiva, l’esperienza museale, intesa come atto di trasformazione dello sguardo, diventa pratica di benessere e partecipazione, legata alle persone e al luogo in cui si svolge, che ne vengono valorizzati. Essa si fonda sulla mediazione fuori dai canonici spazi museali, in connessione diretta con il contesto. Il patrimonio culturale diventa allora la realtà in ogni suo aspetto e l’esperienza artistica si focalizza sul processo e sulla riflessione per una costruzione condivisa di contenuti, progetti e inclusione sociale (Satta, 2005). Il concetto di esperienza, secondo Dewey (1934), è alla base della cultura, conoscenza ed evoluzione, attraverso l’attività intelligente che si fonda sulla pratica. In questo senso, l’esperienza è un processo di transazione che passa dal disequilibrio all’equilibrio in cui oggetto e soggetto si strutturano vicendevolmente. Il dualismo interno/esterno che vive nell’individuo e che si ritrova nell’istituzione museo, si può trasformare in interazione e in continuità tra il fuori e il dentro. Infatti, per raggiungere la co-partecipazione alla cultura non si può prescindere dalla pratica di esperienze condivise come, ad esempio, quelle dei laboratori artistici.

Il laboratorio d’arte come strumento di partecipazione

Il laboratorio d’arte e la didattica museale non sono novità per l’istituzione museo che svolge una continua ricerca per migliorare la propria offerta. Non tutte le esperienze però hanno il potenziale di operare la suddetta ‘trasformazione dello sguardo’. È necessario soddisfare caratteristiche di continuità, creare esperienze che siano forza propulsiva di un nuovo modo di osservare il mondo, capace di creare collegamenti, comprendere la propria emotività e guardare al presente per immaginare il futuro (Dewey, 1934).

Per progettare al meglio laboratori artistici, in collegamento tra il fuori e il dentro, è prima di tutto necessario tener conto dei partecipanti, di cui è importante conoscere il background culturale, e dell’ambiente, che deve essere percepito come luogo protetto.

Puntando sulle capacità personali dei partecipanti, dai loro interessi e dalle loro vite, si deve evitare di instaurare un rapporto verticale, garantendo ad ognuno la possibilità di partecipare con i propri strumenti (Gibbs et al., 2007). Importanti fattori sono quindi le caratteristiche personali e di dinamica del gruppo per poter far leva sui punti di forza e, al contempo, lavorare sulle fragilità, permettendo ad ognuno di sentirsi riconosciuto all’interno di un gruppo che ha bisogno di tutti i suoi componenti per poter esprimere il suo massimo potenziale. Il vero risultato del laboratorio non è l’oggetto realizzato ma il processo attraverso il quale esprimere e sviluppare la propria capacità espressiva e relazionale. Compito del mediatore è mantenere durante tutta l’esperienza una posizione di osservatore e guida, lavorando su una relazione alla pari che punti sulla collaborazione e l’ascolto tra i componenti del gruppo. Va inoltre considerato che l’arte – quale strumento attraverso il quale raggiungere questi obiettivi – è un fattore di benessere, anche legato alla bellezza del contesto informale in cui si può praticare; questo aspetto assume notevole rilevanza quando si lavora in comunità ubicate in parti della città in cui l’estetica dei quartieri non è curata. D’altronde, l’impatto benefico delle arti è dimostrato da un numero crescente di ricerche che indagano gli effetti sulla salute e sul benessere, anche in ottica di prevenzione lungo tutto l’arco della vita (Fancourt e Finn, 2019).

In definitiva, il laboratorio artistico – per favorire la trasformazione dello sguardo – deve essere progettato con cura e attenzione, focalizzarsi sul processo e sulla riflessione, partendo da un bisogno o una problematica realmente sentita dal gruppo. In questo senso, il Museo – attraverso i suoi mediatori – può essere pioniere di un nuovo tipo di spazio di aggregazione che allena la capacità interpretativa del soggetto. Lo sguardo critico diventa per il singolo lo strumento quotidiano per poter leggere il proprio quartiere, la propria città, le relazioni e i contesti, in un processo che diventa costruzione di conoscenza. Come afferma Hooper-Greenhill (2005, p. 253): “la conoscenza si struttura attraverso un’esperienza olistica tridimensionale definita attraverso il rapporto con gli altri. L’atto del conoscere prende forma nel momento in cui esperienza, attività e piacere si coniugano in un luogo in cui il soggetto che apprende e il soggetto che insegna hanno gli uguali poteri”. Qui l’apprendimento è definito come “un processo di coinvolgimento attivo nell’esperienza. È ciò che avviene nel momento in cui un individuo vuole attribuire un senso al mondo. Può comportare lo sviluppo di competenze, conoscenze, valori, sentimenti, attitudini e capacità di riflettere. Un apprendimento efficace promuove il cambiamento, lo sviluppo personale e il desiderio di continuare ad apprendere” (Gibbs et al., 2007, p. 9). Nell’era dell’apprendimento permanente “il British Museum è stato uno dei primi musei [...] a nominare un Responsabile del Lifelong Learning, la cui funzione non è solo di consolidare la già affermata tradizione del museo nell’ambito dell’educazione degli adulti, ma anche, come la nuova qualifica suggerisce, di sviluppare nuovi pubblici e nuove modalità per promuovere l’apprendimento in età adulta” (ivi, p. 89). Infatti, diversi studi mostrano che le arti contribuiscono a generare apprendimento trasformativo, sviluppare competenze cognitive, emotive e sociali, sostenere l’empatia e la fiducia, producendo così relazioni più cooperative (Bang, 2016). L’impegno nelle arti può anche portare a maggiori comportamenti prosociali all’interno delle comunità (Van de Vyver e Abrams, 2018). Inoltre, le arti possono costituire un ponte tra gruppi diversi. Tutto questo costruisce il capitale sociale e comunitario all’interno delle società (Bourdieu, 1968).

Periferia al centro: un progetto di arte relazionale

Il progetto “Periferia al centro” nasce dall’intenzione di far uscire l’arte dall’ordinario del museo per andare alla ricerca del coinvolgimento diretto delle persone sul territorio. Il percorso è stato progettato per la periferia di Brescia e, in particolare, per la zona di Via Milano, un luogo caratterizzato dalla composizione multietnica dei suoi abitanti, in cui l’arte fatica ad arrivare, non essendo presenti musei o spazi di mediazione culturale.

La scelta della periferia ha avuto lo scopo di valorizzare la pluralità di linguaggi, saperi e ‘sguardi’ presenti nel contesto, attraverso un avvicinamento al mondo dell’arte e della cultura come partecipazione attiva alla società. Nello specifico, il focus è stato posto sulla cura dello sguardo, inteso come capacità di riconoscere e valorizzare ciò che lo circonda e di prendersene cura, all’interno di un processo di interdipendenza che capovolge la frammentazione della comunità in ricchezza.

Il progetto si è quindi proposto di rendere l’arte partecipata oggetto della mediazione culturale, ovvero di lavorare sullo strumento del laboratorio basato su opere di diversi artisti – quali Bruno Munari e Ushio Shinohara – per far vivere l’esperienza dell’arte come spazio aperto in cui incontrarsi, riflettere, porre domande, intercettare bisogni, creare connessioni con la comunità e promuovere benessere sul territorio.

L’intervento ha avuto luogo tra marzo e ottobre 2022, periodo nel quale sono stati svolti due laboratori di arte partecipata che hanno coinvolto due diverse realtà della zona periferica di Brescia, già attive in ambito di integrazione e benessere: la Biblioteca Sociale “il Porto delle Culture” (www.portodelleculture.com) e la Palestra Popolare Antirazzista (www.antiracist.net).

Particolare importanza è stata data alla costruzione di una rete di persone interne ed esterne alle realtà ospitanti, che ha preceduto l’attività artistica, permettendo di comprendere i bisogni da cui partire per creare le proposte laboratoriali in modo che fossero concrete opportunità di crescita personale e comunitaria. Sono state quindi messe in atto attività di mediazione e outreach: quel processo fuori dallo spazio museale di coinvolgimento di comunità esterne e quindi nuovi pubblici, che passa attraverso la riduzione della distanza tra museo e comunità nel contesto sociale (Da Milano e Gariboldi, 2019). La progettazione dei laboratori è stata pensata per essere altamente flessibile e quindi replicabile in diversi contesti dove vengano riconosciuti gli stessi bisogni. Elemento chiave è stata l’individuazione di luoghi già frequentati dalle comunità intercettate, data l’importanza della relazione con il contesto. I laboratori sono stati strutturati per lavorare in piccoli gruppi, lasciando aperta la possibilità di partecipazione ad un numero illimitato di persone. La scelta dei luoghi, quali aree di comfort per i gruppi intercettati, ha permesso di lavorare su narrazioni più intime e personali perché protette da un ambiente conosciuto.

I due laboratori – “Storie non scritte” e “Incontro” – sono stati pensati come processi attivanti su due livelli: personale e collettivo. In entrambi i casi il risultato è stata una narrazione comune derivante dall’esperienza personale che, tradotta attraverso il linguaggio artistico, ha perso ogni singolarità diventando parte di un racconto collettivo al cui centro vi erano i nodi di connessione del tessuto esistente tra partecipanti e il luogo, generati dal processo collaborativo. Il raccordo tra le due esperienze ha trovato forma in un’esposizione finale che ha favorito la riconnessione tra centro e periferia suddivisa in un momento esplorativo di cammino da un luogo all’altro della città e in un momento di fruizione dell’installazione che hanno documentato il processo e permesso di coinvolgere nella narrazione voci provenienti da altre zone della città.

Laboratorio “Storie non scritte”

Obiettivi e partecipanti

Il laboratorio d’arte partecipata “Storie non scritte” è stato progettato per favorire l’acquisizione di capacità di interpretazione attraverso la pratica artistica, con l’obiettivo di favorire una trasformazione dello sguardo per poter leggere e quindi rafforzare le connessioni tra persone, tra persone e gruppo di appartenenza e tra persone e territorio. Il gruppo di interesse era composto da circa 20 persone, distinte per età e provenienza, che, settimanalmente, frequentava un corso di italiano gratuito gestito da volontarie e volontari della Biblioteca Sociale “il Porto delle Culture” di Brescia.

Temi, tecniche e strumenti del laboratorio

La progettazione si è basata sui bisogni del gruppo e i valori del luogo: il nome della Biblioteca “Porto delle culture” definisce questo spazio come luogo di accoglienza e di passaggio in un quartiere multietnico. Partendo da queste fondamenta e collegandosi al lavoro di Bruno Munari è stato costruito il laboratorio basato sul tema del viaggio come collante tra i partecipanti e tra essi e il luogo. In questo caso la parola viaggio non va identificata come un elemento prettamente positivo o di piacere, ma guidato dalla necessità di cambiare paese e il bisogno di comunicare in un paese straniero. La tecnica artistica scelta è quella della modellazione della carta, mezzo per dare voce al bisogno di esprimersi del gruppo, permettendo ai partecipanti di comunicare superando le barriere linguistiche. La carta non è stata quindi utilizzata come superficie di scrittura ma come mezzo espressivo per comunicare attraverso l’essenzialità della forma, ritrovando una tridimensionalità più profonda che ha dato vero corpo alle storie di ognuno.

Processo

L’attività laboratoriale ha avuto luogo nel cortile esterno alla Biblioteca per una durata di tre ore complessive, dal momento iniziale di presentazione, a quello finale di condivisione. La mediatrice culturale ha avuto il ruolo di favorire la narrazione della biografia di ogni partecipante prendendo spunto dall’artista e designer Bruno Munari e il suo utilizzo della carta. La prima parte dell’incontro è stata dedicata al conoscere attivamente il materiale carta sotto il punto di vista prima sensoriale (tatto, vista, olfatto, suono) e poi espressivo, ponendo molti interrogativi e riflessioni e iniziando così una trasformazione dello sguardo nei confronti di un materiale semplice come la carta. Dopo una prima fase di utilizzo del materiale – che possiamo definire ingenua – si è passati ad un processo di manipolazione consapevole che ha portato al raggiungimento di un certo livello di confidenza con la tecnica e una ricerca di direzione di senso. Discutendo sui primi risultati prodotti, i partecipanti hanno creato un decalogo di modalità espressive della carta, selezionando alcuni manufatti secondo il criterio forma-emozione a cui poter far riferimento nel momento successivo del laboratorio. Soltanto dopo la consapevolezza raggiunta è stato introdotto il cuore del laboratorio: ad ogni partecipante è stato consegnato un rotolo di carta che è stato poi modellato attraverso le tecniche precedentemente acquisite per narrare la propria storia senza l’utilizzo della scrittura. I partecipanti dopo pochi minuti sono entrati nella cosiddetta flow experience, ovvero quello stato di coscienza definibile come totale assorbimento nel compito che si sta eseguendo, che comporta sensazioni di piacere e soddisfazione derivanti dall’agire stesso e non dal risultato o da altri fattori estrinseci (Csikszentmihalyi, 1975). Una volta completata la propria storia, ogni partecipante ha tessuto la carta modellata con un filo che concettualmente ha connesso le narrazioni tra loro, e che nella pratica ha permesso ai partecipanti di allestire le opere e di vederle prendere forma in un insieme. Infatti, nel momento in cui sono state appese ripiegandosi su sé stesse, essendo rotoli di carta modellati, le opere hanno assunto forme ancora differenti, proprio come le vite dei partecipanti nell’incontro intrinseco al viaggio. La successiva condivisione finale in una esposizione collettiva ha permesso ai protagonisti di riconoscersi come singole identità in una comunità dove un nuovo linguaggio condiviso è diventato rinforzo del senso di appartenenza. L’installazione, allestita proprio negli stessi spazi in cui è avvenuto il corso di italiano, è diventata occasione di contatto con persone provenienti dal centro di Brescia o da altre città durante una visita guidata che ha accompagnato un gruppo di visitatori e visitatrici alla scoperta di quest’opera.

Risultati

Un risultato immediatamente visibile durante il laboratorio è stata la collaborazione tra i differenti sottogruppi linguistici (generalmente complessa), nata grazie al confronto basato su un unico linguaggio, quello dell’arte. La capacità interpretativa di forme astratte e monocromatiche appresa dai partecipanti è una competenza fondamentale per leggere l’arte contemporanea e superare un approccio superficiale in ogni ambito della vita, partendo da domande quali, ad esempio: “Perché ha quella forma? Perché la associo a quella sensazione?” A livello educativo l’accento è stato posto sull’acquisizione della competenza emotiva attraverso la capacità di dare una forma personale alle proprie emozioni per descrivere momenti del proprio vissuto. Questa esperienza ha voluto allenare lo sguardo a leggere lo straniero (ovvero ciò che non conosciamo), cercando di interpretare ciò che vediamo ed eliminare il pregiudizio. Il momento della condivisione finale è stato caratterizzato dallo stupore estetico che ha permesso di fissare l’esperienza nella memoria e di godere insieme del risultato di una collaborazione, percependo visivamente l’essere parte di qualcosa di più grande. La gradualità del laboratorio ha portato ogni partecipante a sentirsi a proprio agio nella pratica artistica, abbattendo sensazioni di disagio e pregiudizio che spesso caratterizzano le zone periferiche. L’arte è risultata quindi uno spazio aperto, condiviso e interpretabile. La mediazione come modalità di scambio si è allineata perfettamente al tema dell’integrazione sociale che prevede l’incontro di due diversità: chi arriva e chi accoglie, la ricchezza culturale si è mostrata nella capacità di saper cogliere la bellezza della diversità. Come affermano Dallari e Francucci (1998, p. 69): “il laboratorio è luogo di ricezione e produzione di saperi […]. È tuttavia anche luogo di elaborazione-costruzione delle identità personali dei protagonisti”.

Fig. 1. Foto di Giovanni Venturini.
Fig. 1. Laboratorio d’arte partecipata “Storie non scritte”. Foto di Giovanni Venturini.

 

Laboratorio “Incontro”           

Obiettivi e partecipanti

Il laboratorio d’arte “Incontro” è stato progettato per trasformare lo sguardo dei partecipanti ad interpretare e comprendere il nuovo e il diverso, favorendo l’acquisizione di capacità critica di interpretazione attraverso la pratica artistica. Il gruppo che ha preso parte al laboratorio, poco uniforme per età e provenienza, faceva parte del corso di Muay Thai 52 nella Palestra Popolare Antirazzista. Il nome della palestra, al centro dell’attività laboratoriale, denuncia un messaggio forte e chiaro in un quartiere multietnico come via Milano di Brescia: abbattere qualsiasi forma di discriminazione.

Temi, tecniche e strumenti del laboratorio

Il laboratorio si è ispirato al lavoro dell’artista Ushio Shinohara che utilizza la pratica della Boxe per realizzare grandi dipinti astratti. Da questa base il laboratorio ha lavorato su più dimensioni quali quella personale, quella gruppale, quella sociale e ambientale, e quella artistica. A livello della dimensione personale si è puntato a che ogni singolo partecipante potesse lavorare sulle proprie capacità espressive partendo dalla tecnica sportiva.  A livello della dimensione gruppale si è puntato a creare un’occasione per sviluppare coesione, condividere e lottare per gli stessi valori. A livello sociale e ambientale si è puntato sul superamento degli stereotipi, sottolineando come la valorizzazione di un territorio passi attraverso l’offerta di spazi condivisi che vengono curati e co-progettati, ponendo le basi per il senso di appartenenza alla società. Su questi livelli la dimensione artistica si è legata alla capacità di sviluppare una nuova immagine della realtà, rendere lo sguardo consapevole e di conseguenza anche i gesti. Si è puntato sulla specifica capacità del gruppo di interpretare opere d’arte astratte – come i segni lasciati dai gesti – partendo dalle proprie esperienze.

Processo

Il laboratorio è stato realizzato nello spazio esterno alla Palestra Popolare Antirazzista dove è stato allestito un grande telo di plastica trasparente utilizzato come tela dai pittori-lottatori. In un primo momento, ad ogni partecipante è stato chiesto di riflettere sulla domanda “Cos’è per te il Muay Thai? Cosa rappresenta per te questa Palestra?” e di rappresentare la risposta attraverso le mosse che più descrivevano lo sport. L’attività ha avuto all’incirca la durata di due ore e ha visto i partecipanti performare singolarmente, aggiungendo il proprio segno a quello degli altri, in un susseguirsi di colpi di Muay Thai. Dopo una settimana dall’incontro è avvenuta la performance: i componenti del gruppo che si sono resi disponibili sono stati chiamati di fronte al telo, singolarmente, alla fine della loro normale lezione di allenamento, hanno indossato i dispositivi per proteggersi dagli schizzi di vernice e sono diventati protagonisti di una performance personale, ripercorrendo la pratica di Shinohara utilizzando pugni e calci come pennelli attraverso i colpi del Muay Thai. I segni lasciati dai partecipanti sono andati via via sommandosi, andando infine a comporre un’opera collettiva in cui le opere sconfinavano le une nelle altre. Durante l’esposizione finale sono state inserite dietro al telo dipinto le risposte scritte dei partecipanti alle stesse domande postegli all’inizio. Le frasi sono risultate come didascalie dell’opera, nascoste dal colore dell’opera stessa. Per questo, nel momento dell’esposizione, l’educatrice museale ha accompagnato un gruppo di persone in visita di fronte all’opera raccontando il contesto e la realizzazione e invitando i visitatori a grattare via il colore per poter leggere le frasi nascoste. Il giudizio più superficiale legato solo al senso della vista è stato superato per approfondire la conoscenza degli autori e il vero significato dell’opera.

Risultati

Il risultato immediatamente tangibile è stato il benessere portato dal gesto pittorico. Inoltre, ogni partecipante, prima di iniziare la propria performance, ha analizzato spontaneamente la differenza delle ‘pennellate’ di chi lo aveva preceduto, dimostrando di possedere una capacità di lettura del segno artistico, fondamentale per poter leggere un’opera d’arte. La flessibilità del laboratorio è risultata vincente nel momento in cui alcune persone si sono volute aggiungere all’esperienza, dimostrando così come queste pratiche rafforzino la realtà di gruppo e di condivisione se progettate come strutture aperte. Il risultato non si è focalizzato sul prodotto ma sul processo, tanto che l’opera finale è stata addirittura cancellata dai visitatori. Con le parole di Guerra e Ottolini (2019, p. 13) ciò che è rimasto “è proprio l’aver condiviso un percorso e, da qui, gli esiti trasformativi che esso ha generato: esiti che riguardano innanzitutto altri modi di guardare ai luoghi abitati e ancora di più alle persone incontrate, ma anche a sé stessi dentro a quei luoghi e con quelle persone”.

Conclusioni

L’arte è una forza propulsiva per la giustizia sociale e la mediazione partecipata è un mezzo per coltivare il fiorire delle identità personali, contribuendo al contempo a rafforzare i legami e la resilienza di ecosistemi complessi di cui spesso è difficile sentirsi parte. L’arte è linguaggio e luogo di intervento collettivo per affinare il pensiero critico e la creatività, caratteristiche fondamentali per cittadini e cittadine consapevoli di essere protagoniste e decisori di questa epoca. L’istituzione museo, quale custode di tale linguaggio, è chiamata a superare l’idea di tempio chiuso e aprirsi alla partecipazione, attivando processi di contaminazione con il territorio e garantendo alla cultura una continuità tra il fuori e il dentro, tra il centro e la periferia. Una rinnovata modalità di fruizione museale prevede infatti che i visitatori siano inviati a vivere esperienze di mediazione culturale quali attività di riflessione e apprendimento, oltre che di stimolante gratificazione estetica (Salvato et al., 2020). In questo senso il museo ha la capacità di diventare ponte tra passato e futuro dando voce e spazio a coloro che contribuiscono a costruire quotidianamente la cultura: i cittadini e le cittadine.

L’obiettivo del presente studio è stato quello di analizzare il ruolo della mediazione culturale all’interno di un’esperienza in cui lo strumento del laboratorio d’arte ha funto da mezzo di mediazione tra museo e contesto locale, riaprendo il dialogo con le comunità. L’esperienza di mediazione calata in un contesto dove spesso le strade delle opportunità culturali si interrompono ha tentato di avviare un processo di creazione di una rete di connessioni per unire centro e periferia, valorizzare il territorio nella sua diversità e offrire la possibilità di conoscere luoghi che normalmente non sono promossi come siti di interesse della città. Nello specifico, il progetto “Periferia al centro” ha mostrato una possibile modalità di coinvolgimento e partecipazione culturale che rispetta i principi della mediazione secondo cui ogni partecipante dà e riceve all’interno di una relazione orizzontale e reciproca, tale per cui non si parla di differenze culturali ma di somme culturali. In entrambi i laboratori l’acquisizione dei processi di lettura dell’opera d’arte, che tradizionalmente si sviluppano entrando nel museo e incontrando le opere, sono avvenuti spontaneamente mediante l’esperienza laboratoriale partecipata. L’arte è stata esperita come linguaggio universale, superando barriere linguistiche e di pregiudizio. Con le parole di Lonergan (1999, p. 312):

arte è afferrare ciò che nell’esperienza è o sembra significativo, rilevante, interessante, importante per l’uomo. In un certo senso essa è più vera dell’esperienza più scarna, più efficace, più pertinente: essa coglie il momento centrale dell’esperienza e dispiega idealmente le sue giuste implicazioni, separate dalle distorsioni, dalle interferenze, dall’intrusione accidentale che sorgerebbero nella stessa esperienza concreta.

In “Periferia al Centro” le comunità intercettate hanno potuto sperimentare le proprie capacità creative contribuendo a creare un’opera d’arte che proprio perché nata attraverso un’esperienza condivisa ha permesso di prendere consapevolezza della forza propulsiva del ‘generare’ insieme (Guerra e Ottolini, 2019).

L’intervento illustrato presenta alcuni limiti: in particolare si sottolinea l’impatto su spazi contenuti a cui si aggiunge la brevità del percorso. Tuttavia, l’esperienza – progettata in un’ottica di Lifelong Learning – ha lavorato su un livello di intensità che ha permesso di tendere verso un effetto con una risonanza che potrà esprimere i suoi frutti nel tempo. Studi futuri dovrebbero valutare l’effetto di tali interventi in un’ottica empirica e non solamente di osservazione. Inoltre, sarebbe auspicabile l’implementazione di interventi che prevedano una durata più ampia che possano generare un impatto che non sia circoscritto ad un’azione temporanea. Infine, studi futuri potrebbero esplorare gli effetti della mediazione culturale partecipata coinvolgendo interi quartieri invece che specifici gruppi comunitari, come nel caso del progetto presentato.

Note

[1] Ad Alessia Iotti si attribuisce la progettazione e conduzione dell’intervento e il contributo nella scrittura della bozza dell’articolo. A Irene Culcasi la scrittura della bozza dell’articolo, la supervisione scientifica, la revisione e l’editing.

[2] Nella traduzione italiana del Codice etico dell’ICOM per i musei si legge: “Al museo spetta l’importante compito di sviluppare il proprio ruolo educativo e di richiamare un ampio pubblico proveniente dalla comunità, dal territorio o dal gruppo di riferimento. L’interazione con la comunità e la promozione del suo patrimonio sono parte integrante della funzione educativa del museo” (Baldin et al., 2009, p. 12).

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Le autrici

Alessia Iotti è educatrice museale presso il Chiostro del Bramante di Roma dove conduce visite e laboratori all’interno del team di didattica del Dipartimento educativo. È autrice per Mondadori Ragazzi e Edizioni Ambiente. Nel 2022 ha conseguito la laurea con lode in Didattica dell’arte per i musei presso l’Accademia Santa Giulia di Brescia. È illustratrice freelance per diverse realtà che operano nel campo della sostenibilità ambientale e sociale, attivista per il movimento Fridays For Future e cofondatrice del progetto United Mountains Of Europe.

Irene Culcasi è assegnista di ricerca e docente a contratto di Service-Learning presso il dipartimento di Scienze umane dell’università LUMSA di Roma dove coordina l’area dei progetti della Scuola di alta formazione EIS (Educare all’incontro e alla solidarietà). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Contemporary Humanism presso la LUMSA, con doppio titolo presso la Pontificia Universidad Católica de Chile. È membro fondatore dell’European Association of Service-Learning in Higher Education (EASLHE) e vicepresidente di Comparte Onlus.