Valditara e l'autorità
DOI: 10.5281/zenodo.12787473 | PDF
C’era una volta una scuola seria, rigorosa, in grado di favorire anche l’ascesa sociale dei poveri, perché offriva loro una reale preparazione. Poi è arrivato il Sessantotto, con il suo “vietato vietare”, e la scuola è stata travolta da un “facilismo amorale” che l’ha resa sostanzialmente inutile. È una sintesi de La scuola dei talenti di Giuseppe Valditara (Piemme, Milano 2024), attualmente a capo di quello che ha voluto chiamare Ministero dell’Istruzione e del Merito; ed il suo libro è, a sua volta una sintesi degli argomenti e dei luoghi comuni del discorso di destra sulla scuola. La formula del “facilismo amorale”, versione riveduta e corretta del “familismo amorale” di Banfied, piace molto a Valditara. La riprende da tale Mario Caligiuri, che sembra essere il suo pedagogista di riferimento, benché sia più noto per i suoi studi sui servizi segreti che per il suo contributo alla pedagogia.
La scuola è diventata facile. Lo dimostra, per Valditara, il fatto che agli esami di Stato “la percentuale di promossi è stata nel 2023 pari al 99,8%”. Ed è certo singolare che un ministro se ne rammarichi: è un po’ come se un ministro della Sanità si lamentasse di una simile percentuale di guarigioni negli ospedali pubblici. Sarebbe bello, peraltro, se quel dato indicasse un successo sistematico del sistema di istruzione pubblica. Così non è, e Valditara lo sa bene. Senza accorgersi della contraddizione evidente, nota anche che la dispersione scolastica esplicita (percentuale di studenti che non raggiungono un diploma di scuola secondaria) è all’11,5% come media nazionale, ma con dati molto più gravi nelle regioni del Sud e nelle periferie delle grandi città. Non è vero dunque che la scuola è troppo facile. Per più di un studente su dieci, invece, è troppo difficile. Talmente difficile da non riuscire a terminarla. Il tasso di bocciature al diploma è così basso perché la selezione è avvenuta al primo biennio della secondaria.
Valditara ha una grande stima dei docenti italiani. A suo dire, la catastrofe è dovuta ad Adorno e Marcuse, al primo Horkheimer (il secondo evidentemente si salva), a Foucault, a Deleuze e Guattari, che hanno maltrattato l’idea di autorità. “Nell’opera Mille piani di Deleuze e Guattari, che tanta influenza ebbero nel formare un certo ceto intellettuale negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, il concetto di autorità viene letteralmente disintegrato”, scrive. E si immagina migliaia di docenti che entrano in classe con sotto il braccio il volumone di Deleuze e Guattari, non senza averlo adeguatamente letto, chiosato, commentato. Un esercito di raffinatissimi intellettuali antiautoritari, intenti a formare piccoli adepti del culto del dio Foucault. E non solo, si badi, i docenti di Filosofia. Tutti. Devono esserci stati corsi speciali, oltre i vari e bizzarri percorsi abilitanti, per far digerire Foucault e Adorno, Deleuze e Guattari (ma manca Althusser!) ai docenti di Matematica o di Scienze.
Sarebbe bello, se fosse vero. Ma non è vero. E uno dei problemi della scuola italiana – o meglio: una delle cose che rendono irrisolvibili i problemi della scuola italiana – è che piace farsene immagini di comodo, prive di qualsiasi fondamento nella realtà.
Se questa è la diagnosi, la cura è semplice. Autorità. E gerarchia, naturalmente: perché le due cose vanno sempre insieme. Un insegnante, racconta il ministro, gli ha raccontato di una studentessa che, dopo essere stata invitata a spegnere il cellulare, ha replicato: “Io non riconosco la tua autorità”. Scandalo. Come può essere che una studentessa non riconosca l’autorità di un docente?
L’autorità, spiega Valditara, è cosa diversa dal potere. Chi ha autorità l’esercita per il bene di chi vi è sottoposto, non per sé. “Questa concezione dell’autorità è pienamente coerente con l’originario senso latino e romano del termine, ove auctoritas, da augere, accrescere, aveva in sé l’idea dell’augmentum, ovvero proprio dell’accrescimento, del rafforzamento dell’oggetto della autorità”. Senza autorità non c’è Stato, continua. E: “L’autorità si fonda in questo contesto sulla gerarchia che viene riconosciuta come giusta e legittima da entrambe le parti del rapporto”. Ora, verrebbe da osservare che allora ha ragione la studentessa: se l’autorità è tale quando viene riconosciuta come legittima da entrambe le parti, allora l’autorità dell’insegnante non è legittima, se la studentessa non la riconosce. Ma probabilmente Valditara intende che in un sistema democratico lo Stato ha una legittimazione popolare, e dunque chiunque rappresenti lo Stato – e il docente in classe è un pubblico ufficiale – ha una autorità pubblicamente riconosciuta.
È appena il caso di osservare che la gerarchia era uno dei valori fondamentali del fascismo. Gerarchia si chiamava la più importante rivista fascista; e gerarchi erano gli uomini (rigorosamente solo uomini) di potere. È un valore incompatibile con la democrazia, che afferma il valore dell’uguaglianza e della pratica del dialogo, che è possibile solo se gli interlocutori sono sullo stesso piano. Questo può capirlo anche il ministro di un governo di destra. Soprattutto se afferma, come Valditara fa più volte nel corso del libro, che compito della scuola è non solo quello di istruire, ma anche quello di educare. È una affermazione importante e tutt’altro che scontata; molti dei raffinatissimi intellettuali che hanno letto Deleuze ritengono che l’educazione spetti alla famiglia, e la scuola debba solo istruire.
L’affermazione però non vuol dire molto, se non si specifica cosa è educare. Una cosa che non richiede troppa riflessione è la constatazione che rispettare le regole, essere garbati e gentili con gli altri, avere cioè tutte le qualità che il senso comune associa al concetto di persona educata non vuol dire affatto essere essere educati. E questo per la semplice ragione che una simile persona può non essere in grado, ad esempio, di far valere uno solo dei suoi diritti, o di diventare agente del cambiamento sociale. Al contrario: tutta la sua “educazione” può inserirsi alla perfezione in un sistema di violenza collettiva, come quella nazista.
Possiamo chiamare socializzazione il rispetto delle regole – in tutto il suo spettro: leggi dello Stato, norme sociali condivise, costumi – e considerarlo un aspetto preliminare dell’educazione, che va oltre. E si interroga, ad esempio, sulla effettiva giustizia delle leggi, alle quali può opporre il proprio rifiuto consapevole e responsabile. Antigone che si oppone a Creonte è più educata della sorella Ismene.
L’educazione è caratterizzata da un di più, che è sia individuale che sociale. È il movimento che porta una persona a togliersi da dov’è e ad andare verso altre possibilità; ed è il movimento che porta una società intera, attraverso il movimento dei singoli, a cercarsi a un diverso livello.
Tutto ciò, è chiaro, si accorda poco con la gerarchia, che è invece propria di una società rigida e statica. Ma c’è un’altra ragione per la quale un rapporto gerarchico e autoritario è incompatibile con l’educazione. La più grande forza educante è la relazione umana. Una relazione autentica, profonda, seria, ci conduce al di là di quello che siamo, ci apre nuovi orizzonti, se occorre ci manda anche in crisi, ma per poggiare su fondamenta più solide. Tutto ciò è possibile solo attraverso un uso franco, vivo, aperto della parola. E un uso simile della parola è possibile solo in una relazione orizzontale. In un rapporto verticale la parola va dall’alto al basso. L’autorità parla, il sottoposto ascolta. L’autorità indirizza, il sottoposto esegue. Una relazione simile è, per sua natura, esposta a tutte le degenerazioni possibili: l’offesa, la minaccia, il ricatto, la manipolazione. Un uso della parola che non fa crescere, ma sminuisce.
Uno dei problemi della scuola italiana è che gli studenti cercano educatori ma trovano professori. Cercano persone con cui confrontarsi in modo aperto su tutto, potendo dialogare senza alcuna paura di essere giudicati, mettendo alla prova le loro idee e i loro valori e esercitandosi anche nella critica, e trovano invece persone che fanno loro la lezione, sepolte dietro la maschera del ruolo. Persone che, di fatto, si sottraggono al loro dovere di educare, che richiede in primo luogo che ci si presenti esponendo la propria umanità.
Sì, autorità viene da auctoritas e da augeo: cresco. Ma autorità non è, come intende Valditara, colui che favorisce la crescita. Per comune ammissione, autorità è colui che è cresciuto. Chi ha una importanza maggiore di altri. L’ipotesi degli autoritari come Valditara è che questo essere di più serva a far diventare di più gli studenti. Serve invece solo a formare all’obbedienza e al conformarsi irresponsabile.
C’è un’altra parola che viene da augeo: autore. Che non è colui che è cresciuto fino a diventare di più. È invece colui che fa crescere. Con ogni evidenza è questa la parola adatta per un educatore. Non autorità, ma autore. Non colui che è cresciuto-su, ma colui che fa crescere.
Non è un caso, del resto, che Dante saluti Virgilio dicendogli: “Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore” (Inferno, canto I, 85). È autore, Virgilio, non solo per aver scritto l’Eneide. È autore come guida e compagno di strada di Dante. Come autore, lo accompagna in un viaggio che sarà Dante, e non lui, a concludere. Dante diventerà di più man mano che procederà, e giungerà il momento in cui dovrà lasciarsi alle spalle il suo autore. Perché è così che funziona un autentico rapporto educativo: l’educatore è un ponte, anzi una zattera. Serve ad andare oltre, da soli e insieme agli altri.
Immagine: Joseph Anton Koch, Inferno, 1825-28. 23: Dante e Virgilio. Wikimedia Commons. Licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported.