Una prof un po'... fascista | A somewhat... fascist teacher

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È successa una cosa su cui sto riflettendo da stamattina. Riguarda i giovani, riguarda il destino di chi cioè prende in mano il mondo e di chi educherà le generazioni a venire. Sono le studentesse e gli studenti dei corsi dove anche io insegno.

Ma in realtà riguarda soprattutto noi adulti e gli errori – quali e quanti! – stiamo facendo nel tirarli su.

Ho fatto a dicembre una prova di valutazione intermedia, su richiesta della classe di Pedagogia interculturale, un esame del secondo anno. Io non amo questo genere di prassi, sminuzza i contenuti dell’insegnamento, li parcellizza, finisce per creare quello che chiamo il fast food della cultura: cibo ingurgitato in fretta e vomitato dopo poco, senza nessuno o scarso assorbimento. Ma siccome rispetto la popolazione studentesca e la ritengo responsabile della propria formazione (hanno 21-22 anni, basta chiamarli adolescenti!), sono andata incontro a questa richiesta, specificando dall’inizio che di una pratica autovalutativa si sarebbe trattato.

Per le pessime abitudini sedimentate anche nell’università (la logica fast food alletta anche i docenti, eh), i ragazzi e le ragazze pensano a queste prove come ad “esoneri”: mi tolgo dal groppone un libro, forse 2 e tanti saluti. Ignorando che gli esoneri non esistono da nessuna parte come fattispecie didattica (solo l’esame in data ufficiale dà luogo a valutazione conclusiva, se lo studente è d’accordo, altrimenti è libero di ripresentarsi): si tratta di forme di autovalutazione per monitorare l’andamento del proprio studio e non hanno alcun vincolo né per chi studia né per chi insegna. È un modo per dirsi: vediamo, a che punto sono? Cosa posso migliorare?

E in questo modo l’ho organizzato io, con il preciso proposito di mettere in capo a ciascuno studente la piena responsabilità della propria formazione, tanto più che con l’educazione interculturale non stiamo parlando di caramelline, e non conoscerne alcuni aspetti è semplicemente inammissibile. Sicché ho proposto una prova a risposte multiple, che abbiamo corretto insieme, coralmente, e che hanno tenuto con sé durante la correzione. Non è certo finita qui (avrebbero potuto manomettere le risposte, starete pensando): il foglio della prova è rimasto in mano di ciascuno/a, da portare all’esame finale, durante il quale lo avremmo esaminato insieme. Sulle risposte sbagliate, ho detto, mi aspettavo che ci si soffermasse nello studio perché avrei fatto domande. Lo stesso sarebbe stato con le risposte “pasticciate”, sulle quali c’erano stati ripensamenti nel corso della prova (o manomissioni). In questo modo cadeva ogni modalità “poliziesca” e l’esito del loro esame era tutto in capo alla qualità dello studio. La categoria di “onestà” nemmeno sarebbe stata citata.

L’obiettivo era (è) proprio l’autovalutazione e il miglioramento laddove le risposte errate avessero rivelato una falla nella preparazione. E a dirla tutta: se mi sbagli la domanda sulla scientificità o meno del concetto di razza, di certo hai da studiare, e pure tanto. Altro che esonero.

Questo è il senso di una prova intermedia. Ma – e qui la cosa proprio non è andata giù – il manuale non si poteva togliere dalla scrivania con quel sollievo di chi – che sia 30 o 18 – si è tolto il peso dallo stomaco.

Polverone. Mi sono giunte voci che le studentesse “si erano sentite prese in giro”. Come se svolgere la prova nel modo più autentico (ma non praticato diffusamente in università), cioè con valore responsabilizzante, equivalesse a non aver fatto nulla. Tanto sforzo (?!) per essere al punto di prima (cioè portare anche il manuale all’esame). Vabbè, ho chiarito come lavoro e pace, se ne faranno una ragione: con me o si studia o niente. 

Ma quello che mi ha davvero lasciata sconcertata è stato un altro racconto su questa epopea, che evidentemente sta spopolando sui social studenteschi e giunge a una giovane tra le tante che hanno optato per un corso alternativo al mio e commentando il mio operato nella prova dice a un collega: “Si è comportata un po’ da fascista”.

Ha detto proprio “fascista”.

Mi è venuto da ridere, pensando alla mia persona (una libertaria, antiautoritaria, iscritta all’anagrafe antifascista, schedata al ministero della difesa, amica della nonviolenza e pacifista, femminista e chi più ne ha più ne metta) (ma severa ed esigente nello studio).

Ma mi è venuto anche da piangere, pensando all’uso delle parole. Fascista sarebbe il comportamento del docente che dice al discente “la tua formazione è nelle tue mani, non nelle mie: assumiti la responsabilità di quello che leggi, di quello che scrivi, di quello che dici. Nelle tue mani è il tuo futuro di professionista dell’educazione (dell’educazione!), la cui capacità d’azione influirà sulla vita di centinaia di persone, costruendo o distruggendo esistenze già ferite. Il mio compito è garantire che tu lo faccia al meglio, senza sconti alla mediocrità”. Fascista è questo comportamento?!

Quando ce li siamo persi questi ragazzi? Come abbiamo potuto, noi adulti, consentire che parole pesantissime come “fascista” diventassero parole di lessico abituale, svuotato di storia, di significato, della violenza che percolava da ogni singolo atto come ingrediente e prodotto della peggiore immondizia umana? Come abbiamo potuto sorvolare sui capitoli dei libri di quella storia e lasciare che non si formasse una coscienza critica, acuta, aggrappata con i denti e con le unghie alla democrazia e alla libertà e alla responsabilità di tutti al destino proprio e della collettività?

Orrore.

Intanto chissà quanti giovani (votanti) passano gli esami universitari e noi gli diamo il pezzo di carta. Vai a lavorare con i bambini adesso…

Porto dentro di me lo sconcerto di chi teme i danni che studentesse e studenti come questa faranno quando lavoreranno. In certi momenti mi auguro che non lo facciano mai.

PS: sarei felice di incontrarla questa ragazza di 21 anni e farmi una chiacchierata con lei. Vorrei raccontarle cos’era la scuola e l’università nel Ventennio. Evidentemente nessuno l’ha fatto prima d’ora.

 

Gabriella Falcicchio Ricercatrice in Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Studiosa del pensiero di Aldo Capitini, si occupa di educazione alla nonviolenza con particolare riferimento al periodo primale, perinatale e alla prima infanzia e di educazione al rispetto dei viventi e alla sostenibilità.