Thomas Sankara: il coccodrillo e il capitano | Thomas Sankara: the crocodile and the captain

Thomas Sankara

Da poche settimane in Burkina Faso è entrato nel vivo il processo ai presunti responsabili dell’assassinio di Thomas Sankara, il presidente che governò il paese dal 1983 al 1987 (Radio France International 2021a e 2021b). Quando leggo questa notizia, la memoria mi riporta a oltre vent’anni fa, al 1998, quando misi piede in Burkina Faso per la prima volta. Prima di partire, lessi che negli anni ottanta il paese ebbe un giovane presidente che dimostrò nei fatti che molti cambiamenti sociali erano possibili, se c’era la ferma volontà dei governanti di metterli in pratica. Si chiamava Thomas Sankara, aveva trentatré anni quando prese il potere con un colpo di stato incruento. Nei quattro anni in cui governò il paese organizzò campagne di alfabetizzazione degli adulti, di vaccinazione dei bambini, di promozione dei diritti delle donne, di lotta alla desertificazione e alla corruzione. Nel giro di due anni, l’analfabetismo scese significativamente e la copertura vaccinale dei bambini raggiunse livelli così alti che, nel 1985, l’UNICEF salutò la campagna di vaccinazioni in Burkina Faso come “la miglior notizia che i bambini dell’Africa hanno ricevuto quest’anno”. Al di là dei risultati quantitativi, Sankara credeva fermamente che la decolonizzazione del suo paese partiva dalla formazione della coscienza, dall’imparare a “bastare a se stessi” materialmente e psicologicamente, e dall’abbandono delle logiche di dipendenza tecnologica e finanziaria che generavano fame e indebitamento. Per questo lanciò campagne per “consumare Burkinabé”, per piantare alberi e preservare l’acqua piovana nella zone a rischio di desertificazione. Per marcare una discontinuità col passato coloniale, Sankara decise anche di cambiare il nome del paese - che si chiamava Alto Volta - e di ribattezzarlo “Burkina Faso”: il “paese degli uomini integri”. Quattro anni dopo, Sankara fu ucciso da una congiura che portò al potere il capo dell’esercito di allora, Blaise Compaoré, sospettato da molti di essere il mandante dell’attentato. Quando fu ucciso, Sankara aveva trentasette anni e quella che un missionario europeo definì “una fretta dannata” di trascinare il suo paese fuori dalla sua endemica arretratezza, su cui congiuravano la disastrosa eredità coloniale e le avide chefferies locali, che inchiodavano da generazioni le popolazioni rurali in rapporti feudali di sfruttamento. Fu proprio la fretta uno dei limiti del suo lavoro e uno dei probabili motivi per cui la popolazione non insorse dopo il suo assassinio. Sankara voleva risultati tangibili in poco tempo, e li impose senza riuscire a creare intorno a sé un sistema che potesse rendere strutturali le politiche sociali che riuscì a realizzare grazie al suo carisma personale alla sua ferma volontà d’imporre il cambiamento, in fretta e radicalmente. Guardando la vicenda di Sankara dalla prospettiva della storia molti ritengono che Sankara non comprese fino in fondo la complessità e la lentezza dei processi di sviluppo e la necessità di creare consenso intorno al cambiamento, anche a costo di rallentarlo, e questa sua ombra finì per inghiottirlo.

Dopo quel mio primo viaggio, ho visitato il Burkina varie volte e ho letto vari libri su Sankara, sulle sue idee, sui risultati delle sue politiche sociali, sui suoi errori e sulle possibili cause del suo assassinio (Aruffo 2007, Chinappi 2021). Sei anni fa, il 7 aprile 2015, in seguito a un tentativo di colpo di stato della Guardia Presidenziale, il presidente Blaise Compaoré è stato costretto a lasciare il potere - dopo averlo mantenuto per ventisette anni - e a fuggire in esilio in Costa d’Avorio. Dal giorno in cui Compaoré ha lasciato il potere, la richiesta di chiarire le circostanze e i mandanti dell’assassinio di Sankara è divenuta sempre più pressante, fino alla ripresa del processo, in ottobre del 2021.

Thomas Sankara era un giovane capitano quando fu ucciso. Il suo corpo crivellato di proiettili è stato riesumato in dicembre del 2015 e studiato con cura. Il nuovo governo insediatosi dopo la caduta di Compaoré vuole innanzitutto sapere se quel corpo è davvero quello di Sankara. Lo hanno estratto dalla tomba in cui lo avevano sepolto in fretta, senza riti funebri, e il suo cadavere non cessa di reclamare i funerali che gli erano dovuti. Su quel corpo putrefatto da ventisette anni di silenzio e paura imposti dal regime del suo probabile assassino si affaticano i medici legali. La perizia sulle cause della sua morte ripete un responso tanto noto quanto generico: “morto per ferite d’arma da fuoco”, e non per “morte naturale” come scrissero i medici del regime, all’indomani del suo assassinio. La perizia balistica afferma che sono pallottole compatibili con quelle della Guardia Nazionale. Un’altra conferma di quanto già noto.

“Non è tanto importante quello che diranno i medici legali sull’appartenenza di quel corpo a Sankara e sulle cause della morte; quello che conta è che la riesumazione del corpo porti a riesumare i ricordi, che induca chi sa a parlare, prima che muoiano tutti i testimoni oculari”, mi diceva un collega che ha lavorato con la Cooperazione Italiana in Burkina Faso negli anni di Sankara. Curioso che dissotterrare un corpo serva a riesumare parole, a lacerare silenzi. Dopo oltre trent’anni cominciano a emergere memorie scomode come cadaveri mai onorati, sepolte sotto coltri di paura, condannate all’archiviazione e all’evitamento. Il corpo riesumato di Sankara è una scheggia conficcata nella carne di un continente ancora sottomesso, una scheggia rimossa dalla memoria dei grandi, un incubo per gli imperialismi locali ed esterni, dimenticato con sollievo al risveglio. Dopo trentaquattro anni, con la ripresa del processo, la speranza è che ora parlino loro: i testimoni oculari.

Con il corpo di Sankara, il nuovo governo del Burkina Faso ha riesumato la memoria di uno dei pochi leader africani del Novecento che si era ribellato, che aveva disobbedito alle imposizioni dei colonizzatori senza divenire lui stesso uno spietato oppressore del suo popolo. Per questo lo chiamarono “il presidente ribelle”. Si rifiutava di pagare il debito, perché il tuo paese aveva ereditato debiti contratti dai suoi colonizzatori e perché il debito dei paesi colonizzatori verso l’Africa era più che sufficiente. “Se noi non paghiamo, i nostri creditori non moriranno, possiamo esserne certi. Se paghiamo, i più deboli tra noi moriranno di fame. Cosa è più importante?”, aveva detto una volta Sankara in un incontro internazionale (Sankara, 1984). Era chiaro, e in larga misura condivisibile. Ma era un cattivo esempio.

Ripenso al processo in corso e penso all’oblio che oggi circonda la figura di Sankara, il suo volto non è stampato sulle bandiere, le sue frasi non sono scritte sui muri dei centri sociali, ma il tuo cadavere putrefatto dall’oblio di stato disturba ancora i sonni di molti. E con quel corpo riaffiora la sua voce, le parole e i gesti che lo hanno reso, almeno per alcuni, un’ispirazione e un esempio. Oltre vent’anni fa, mentre mi preparavo a partire, lessi per la prima volta di Sankara e fui colpito da un uomo che aveva il profilo di Che Guevara, Gandhi e Mandela, ma che era sconosciuto ai più. Forse perché veniva da un paese africano poverissimo e non era neppure un marxista ortodosso. Forse perché non era attraente come Che Guevara, ieratico come Gandhi o irenico e sorridente come Mandela. O forse perché non era al servizio delle ipocrisie delle cancellerie occidentali e della cooperazione di tutte le bandiere. Sankara mi ricorda Steve Biko, altro grande maestro dimenticato del Novecento, un altro giovane africano scomodo, ucciso anche lui a trent’anni e per ora consegnato all’oblio.

Ho avuto tre colleghi che hanno lavorato in Burkina durante il governo di Sankara: due burkinabé e un italiano, un economista e due medici. I loro pareri sono discordi, alcuni sostengono che la morte di Sankara sia stata una resa dei conti interna, che Blaise Compaoré lo abbia semplicemente tradito e ucciso per prendersi il potere e basta. Affermano che i soliti francesi, il colonialismo e il velleitario rifiuto di pagare il debito non c’entrano con la sua morte, che sono la solita vulgata della sinistra complottista, che vede gli interessi dei bianchi dietro a ogni nefandezza africana. Sostengono che sono la solita trita narrativa terzomondista, che annulla la libertà degli africani di avere almeno diritto e dovere di assumersi le responsabilità delle loro nefandezze, che li infantilizza al punto che, quando causano disastri, invece di assumersene la responsabilità corrono a vittimizzarsi, gettando la colpa sugli altri, i cattivi: i soliti bianchi. Altri invece, tra cui includo anche me stesso, pensano che, nonostante gli intrighi siano stati tessuti localmente e le responsabilità degli esecutori locali dell’assassinio vadano riconosciute, Sankara sia stato lasciato uccidere da Compaoré, con la quiescenza di chi, nelle diplomazie occidentali, non riteneva il Burkina abbastanza importante da scomodarsi a organizzare un vero colpo di stato, come avvenne con Allende in Cile (dopo la nazionalizzazione delle miniere di rame) o con la Turchia nel 1980 (quando minacciava di avvicinarsi pericolosamente all’Unione Sovietica). Il Burkina Faso non valeva nemmeno un colpo di stato ordito dall’esterno. Come paese, non era buono neppure per essere saccheggiato. Ma ai francesi, agli europei, e ai loro ascari ivoriani, conveniva che il capitano morisse. E che gli succedesse un loro docile satrapo, assetato di un potere che ha tenuto saldamente in pugno per ventisette anni, in cambio della sua genuflessione agli interessi occidentali nel paese, soprattutto legati al controllo delle fertili piantagioni di palma della confinante Costa d’Avorio e, in anni più recenti, al controllo dei migranti e alla lotta ai movimenti jihadisti nel Sahel.

Ed è proprio dalla Costa d’Avorio che venne il sostegno al suo probabile assassino. Sankara non era mai stato in buoni rapporti con Houphouët-Boigny, il presidente ivoriano che mantenne il potere per trentatré anni, dal 1960 al 1993. Un collega africano mi raccontava che, durante un incontro internazionale, Sankara disse scherzosamente a Houphouët: “hai la faccia come un vecchio coccodrillo» e Houphouët gli risposte: attento, perché al coccodrillo piace il capitano (le crocodile aime le capitaine)”. Il capitaine è un pesce: era un gioco di parole del vecchio presidente ivoriano per dire a Sankara che lo avrebbe presto divorato. Blaise Compaoré, da molti ritenuto l’assassino di Sankara era amico di Houphouët-Boigny, che molto probabilmente appoggiò il proposito di Compaoré di uccidere il capitano e di prendere il potere in Burkina. Oggi, sei anni dopo la sua fuga dal Burkina Faso, Compaoré si è rifugiato in Costa d’Avorio. Quando il nuovo governo del Burkina ha richiesto la sua estradizione (BBC 2014) per numerosi omicidi politici di cui Compaoré è accusato, il governo ivoriano ha risposto riconoscendo a Compaoré la cittadinanza ivoriana. Nessun processo sarà possibile per lui in Burkina Faso perché il governo ivoriano lo considera un suo cittadino sul quale non pende nessuna accusa in Costa d’Avorio.

Il 15 ottobre del 1987, il coccodrillo ha divorato il capitano e, con lui, le speranze di milioni di africani. Trent’anni dopo, il Burkina resta povero, arretrato e ancora non sappiamo la verità sulla morte del capitano e sull’identità dei coccodrilli che lo hanno divorato. Quel cadavere freddo, gettato su un tavolo di un medico legale che estrae campioni di carne putrefatta, accusa Compaoré e gli eredi del coccodrillo. Quel cadavere estratto dal suo sepolcro chiede di riesumare, insieme a quelle ossa, i fatti e le testimonianze, e di riportare all’attualità i sogni di milioni di Burkinabé, le loro speranze recise nell’ottobre del 1987.

Mentre ripenso a questi fatti, immagino Sankara prigioniero delle sue stanze, smarrito nei labirinti di un potere che non è mai stato in contatto coi poveri, lo vedo vagare nei gelidi corridoi di quel Sahel senza corrente, con la polvere del deserto che intasa i filtri dei condizionatori, immagino i muri scrostati dei ministeri e i rumorosi generatori di sottofondo. Sankara è morto così: prigioniero del suo labirinto. Anche Houphouët-Boigny è morto sei anni dopo aver divorato il capitano, nel 1993. Aveva più del doppio dei tuoi anni e un patrimonio smisurato, il coccodrillo. Di Houphouët resta un mausoleo di marmo nel suo villaggio natale, Yamoussoukro, dove fece costruire una cattedrale sul modello di quella di San Pietro a Roma. La costruzione costò trecento milioni di dollari dell’epoca, una somma sufficiente a dare al suo paese un sistema scolastico gratuito e universale e a sfamare tutti i denutriti, ma lui preferì la gloria eterna di quell’edificio che sfidava la Roma dei papi. Oggi, di Houphouët rimane un sarcofago di marmo a lato della sua cattedrale, assediato dai licheni di quel clima torrido. Di Sankara resta una fossa scavata in fretta e un cadavere crivellato di colpi, torturato dai medici legali perché confessi l’identità dei suoi assassini. Trentaquattro anni dopo, è ora che chi sa parli, e che sia fatta chiarezza sulla morte del presidente del Burkina Faso.

Ricordo che in Senegal, sulla spiaggia, si vendevano magliette col ritratto di Sankara e con la scritta: Sankara, il derange toujours (Sankara disturba ancora). Che questa frase sia un auspicio, dopo quasi trent’anni dalla morte del capitano. Che la sua memoria riesumata possa inspirare senza guidare, suscitare entusiasmi senza oscurarli con un’ombra troppo ingombrante. Trentaquattro anni fa, il coccodrillo divorò il capitano. Trentaquattro anni dopo, Thomas Sankara è tornato. E disturba ancora.

Riferimenti bibliografici

Aruffo A., Thomas Sankara un rivoluzionario africano, Massari, Bolsena, 2007.

BBC Afrique, Le Burkina va demander l'extradition de Blaise Compaoré, 28 novembre 2014. Url: https://www.bbc.com/afrique/region/2014/11/141127_bfdiendere

Chinappi G., Discorsi e interviste del rivoluzionario Burkinabé, Vol. 1, Anteo, Milano, 2021.

De Bernardis C. and Correggia, Thomas Sankara, i discorsi e le idee, Ed. Sankara, 2006.

Gentile A., Terra degli uomini integri. Vita di Thomas Sankara, La Corte, Torino, 2021.

Radio France International, Procès de l’assassinat de Thomas Sankara: des témoins seront auditionnés à distance, 26 Ottobre 2021a, url: https://www.rfi.fr/fr/afrique/20211025-proc%C3%A8s-de-l-assassinat-de-thomas-sankara-des-t%C3%A9moins-seront-auditionn%C3%A9s-%C3%A0-distance

Radio France International, Procès de l'assassinat de Sankara : un premier accusé fait le récit des événements, 26 Ottobre 2021b, https://www.rfi.fr/fr/afrique/20211026-proc%C3%A8s-de-l-assassinat-de-sankara-un-premier-accus%C3%A9-fait-le-r%C3%A9cit-des-%C3%A9v%C3%A9nements

Rossi D., Thomas Sankara. La rivoluzione in Burkina Faso (1983-1987), Pgreco, Milano, 2018.

Sankara T., Anthologie des discours de Thomas Sankara, Kontre Kulture, Paris, 2013.

Sankara T., Discours devant l'Assemblée G**énérale des Nations-Unies, (4 octobre 1984). https://www.youtube.com/watch?v=Dt7QqBJVQFo

Ziegler J., La fame nel mondo spiegata a mio figlio, Il Saggiatore, Milano, 2010.

L’autore

Angelo Miramonti, è professore di teatro comunitario presso l’Istituto di Belle Arti di Cali (Colombia). È dramma terapeuta e fondatore del progetto di ricerca “Arti per la Riconciliazione” che esplora l’uso delle arti per accompagnare il dialogo e la riconciliazione tra ex combattenti e vittime del conflitto armato colombiano. È autore di numerosi articoli sull’uso delle arti nella costruzione della pace. Ha conseguito un Dottorato di Ricerca in Economia e un Master in Antropologia Culturale.