Tecnologia e cooperazione a scuola. Cinque interviste | Technology and cooperation at school. Five interviews
Margherita Dolce1. Scrivere insieme per costruire il noi e partecipare con gli altri. A colloquio con Sonia Sorgato
Sonia Sorgato è un’insegnante di scuola primaria di Milano, lavora da vent’anni ed è di ruolo da sedici. Si laurea in Scienze della formazione primaria nel 2002 – tra le prime laureate, ricorda, di un corso iniziato nel 1998 con un grande investimento e coinvolgimento da parte dei docenti della Bicocca di Milano. Tutto inizia lì, in quelle aule. Poi si occupa di lingua dei segni, di sordità, facendo l’insegnante di sostegno per sette anni. Passa all’insegnamento su posto comune rimanendo in contatto con l’Università, come conduttrice di laboratori per didattica della matematica. Negli ultimi anni si iscrive al MCE, quando viene ricostituito il gruppo territoriale di Milano, diventandone un’attivista. Fa parte del gruppo di creazioni matematiche del MCE e del gruppo che si occupa di valutazione.
Cosa vuol dire oggi insegnare con le tecniche Freinet?
Mi sono avvicinata alle tecniche Freinet a partire dalla didattica della letto-scrittura; ho seguito il corso della professoressa Lilia Andrea Teruggi, che porta avanti il lavoro sulla scrittura spontanea facendo diretto riferimento al testo libero. I tentativi di portare a scuola concretamente questo lavoro sono legati anche a un secondo incontro, quello con MCE e con Enrico Bottero, perché con lui ho incontrato la bibliografia scientifica che mi ha permesso di conoscere e sperimentare i brevetti e il piano di lavoro. Da qui parte la collaborazione per introdurre queste tecniche nella mia scuola con il gruppo di insegnanti.
Per me, oggi, lavorare con le tecniche significa innanzitutto orientare tutta la progettazione con un forte riferimento alle Indicazioni nazionali, riempiendo di senso tutte le pratiche che vengono proposte a scuola. La cosa fondamentale è che tutte le pratiche, anche quelle esecutive che possono essere vissute come qualcosa di più fittizio da proporre ai bambini, in realtà assumono un senso all’interno della pedagogia popolare, considerandola come un sistema. La mia esperienza, insieme alla collega, è stata quella di assumere di anno in anno tutto l’impianto della pedagogia freinetiana, anche raccogliendo delle osservazioni molto diverse rispetto a quelle che raccoglievamo nei cicli precedenti che non avevano un orientamento di questo tipo.
C’è dietro molto lavoro di documentazione.
Il ruolo della documentazione è importante per due motivi fondamentali: da una parte questa è la testimonianza di un processo, dall’altra senza la documentazione non si può progettare. Tenere traccia della documentazione dei bambini, significa progettare revisionando in base alle necessità di quel gruppo.
Questo serve molto a dare senso alle pratiche di scrittura dentro le nostre scuole. Penso al dettato: nella vita adulta noi non lo pratichiamo più, allora quale valenza può avere il dettato dentro la scuola? A mio avviso nessuna, se non quella di individuare e sanzionare gli errori. Le pratiche Freinet assegnano una motivazione e senso reale alla prestazione degli alunni. E questo è più coerente anche con i traguardi di competenza e con il processo di autovalutazione: tutto il sistema delle tecniche Freinet è rivolto alla possibilità del bambino di autoregolarsi, di autovalutare i propri apprendimenti.
Quanto tempo dedicate alla scrittura?
Noi dedichiamo molto tempo alla scrittura, in genere ogni giorno: c’è sempre qualcosa su cui scrivere. I complessi d’interesse che emergono da ogni corrispondenza attivata sono tanti, i bambini sono passati in questo ciclo da una scrittura collettiva, ad una scrittura individuale questo perché anche in loro è cresciuto l’interesse di scrivere più cose da sé, di attivare delle relazioni “intime” con altri bambini, in un rapporto uno a uno.
Con il testo libero noi iniziamo in prima. Dopo aver lavorato sulla scrittura spontanea, e a partire dalle loro scritture spontanee, iniziamo un lavoro di sistematizzazione e decodifica dei loro interessi. Dalla seconda iniziamo a scrivere per e con gli altri, introducendo la corrispondenza con la classe della Scuola dell’infanzia. Ogni mese ci inviamo delle corrispondenze sulle attività che riguardano le creazioni matematiche realizzate in settimana. I miei alunni imparano a scrivere sulle loro impressioni e emozioni, delle creazioni realizzate. Pian piano, il testo libero, assume una configurazione sociale, il cui tentativo è quello di costruire relazioni con l’esterno che si traducono in una costruzione di significati condivisi.
I bambini, in questo modo, sono innanzitutto più motivati ad acquisire competenze sintattiche, ortografiche e grammaticali sempre più corrette. Questo perché lo scrivono per gli altri e vogliono che gli altri siano in grado di leggerli, senza fraintendimenti: non vuol dire non fare errori, gli errori servono per mettersi in gioco e correggere via via il tiro attraverso le revisioni collettive. Dal punto di vista comunicativo, mi sembra che siano bambini molto competenti rispetto alla struttura formale dei testi. Un esempio che posso raccontare è di quando i bambini hanno scritto al presidente Mattarella; lì hanno sperimentato e compreso un registro di scrittura molto formale rispetto alle lettere scritte con lo stesso contenuto al sindaco di Milano, alla nostra preside, ad altre classi, ad altri insegnanti e perfino al nostro edicolante di quartiere. I bambini compartecipano a un pensiero, sperimentano momenti di libertà espressiva ma anche di costruzione democratica del sé e del noi. Questo crea identità di gruppo e partecipazione all’esterno.
2. Dai testi liberi al giornale. In classe con Elisa Amato
Elisa Amato nasce a Roma nel 1983, si laurea a Roma Tre come Educatrice professionale di comunità e poi in Scienze della formazione primaria. Lavora prima come educatrice dell’infanzia, soprattutto in ambito ludico-ricreativo e di educazione interculturale e ambientale; dal 2011 è insegnante di scuola primaria. Insegna all’Istituto comprensivo Simonetta Salacone di Roma, quest’anno ha avuto una quarta. Deve al MCE molto della sua formazione professionale in ambito scolastico.
Cosa vuol dire insegnare oggi con le pratiche Freinet?
Lo studio della pedagogia e delle tecniche Freinet è stato, per me, veramente un’illuminazione perché mi ha permesso di sistematizzare delle intuizioni e delle sperimentazioni che avevano caratterizzato il mio lavoro negli anni passati: come far lavorare insieme bambini e bambine all’interno di un contesto classe, come farli cooperare, come dare loro gli strumenti per poter lavorare in autonomia, senza che il mio ruolo fosse costantemente di autorità. L’aspetto importante che mi ha permesso di accogliere la proposta di Freinet è stato la possibilità di adattare un’impostazione pedagogica rispetto al contesto che avrei incontrato. Sento questo come necessità: perché le classi sono tutte diverse, e perché parliamo di una proposta che risale a un secolo fa. Riproporle oggi in classe significa leggere, in quell’ottica, le situazioni in cui andiamo a lavorare, nella prospettiva della configurazione di un ambiente che faciliti l’autonomia e l’autoregolazione dei bambini e delle bambine, significa costruire un senso di responsabilità rispetto ai propri apprendimenti, ma anche responsabilità verso gli altri, verso la comunità classe e la comunità scolastica. Negli scritti di Freinet, per forza di cose, non viene dato spazio alle tecnologie digitali ma è assolutamente possibile inserire il loro uso all’interno di queste pratiche.
Come organizzare materiali, strumenti di lavoro, fonti documentarie per una classe cooperativa?
Negli aspetti organizzativi rientra la predisposizione dell’ambiente. La nostra classe è allestita il più possibile come un ambiente non rigido, nonostante ci siano state delle imposizioni rispetto a questo, dovute ai protocolli introdotti a causa dell’emergenza sanitaria, ad esempio sulla disposizione dei banchi e sul dover rispettare le distanze. Per realizzare una classe cooperativa è importante che l’aula sia un ambiente flessibile: avere la possibilità di spostare i banchi, di poter lavorare individualmente, in coppia, in gruppo, di poter utilizzare anche gli spazi fuori dall’aula. Occorre poter immaginare come spazio di lavoro non solo l’aula ma anche i laboratori, il giardino, i corridoi stessi e, se possibile, anche l’ambiente fuori dalla scuola.
Un altro aspetto organizzativo che caratterizza la nostra classe è la scansione temporale.
Cerchiamo di regolarci secondo un calendario che consenta delle ciclicità, cioè degli appuntamenti che si ripetono settimanalmente; delle ritualità giornaliere, di modo che i bambini e le bambine si riconoscano in questo ritmo e riescano ad essere autonomi. Un’organizzazione di questo tipo, condivisa con loro, garantisce dei punti di riferimento e dunque, favorisce la capacità di muoversi all’interno dell’agenda settimanale in autonomia, organizzando il proprio lavoro. Un ulteriore dispositivo che aiuta l’organizzazione della classe è il sistema degli incarichi: quei compiti che si assumono le bambine e i bambini rispetto a delle attività da portare avanti. Noi siamo partiti in prima con pochi incarichi piuttosto semplici, ad esempio la sistemazione dell’aula o la distribuzione dei materiali; man mano che aggiungevamo attività o quelle che poi avremmo riconosciuto come “tecniche”, gli incarichi sono aumentati di complessità. Oggi, abbiamo il/la bibliotecario/a che gestisce la biblioteca in classe, il/la postino/a che distribuisce la posta, ci sono gli incarichi relativi all’assemblea di classe ovvero presidente/essa e segretario/a, ci sono i tutor e, ora che abbiamo costituito la nostra cooperativa scolastica, abbiamo istituito anche la figura del tesoriere. Gli incarichi sono dei compiti che a turno i bambini e le bambine assumono volontariamente e attraverso un sistema di prenotazione per gestire una data attività. In questa direzione, nuovamente, si facilita l’autonomia e l’insegnante ha il solo compito di organizzare e monitorare.
Infine una grande importanza nella nostra organizzazione di classe è rivestita dai materiali. Anche questi sono organizzati e costruiti secondo i principi sopra descritti: devono cioè consentire ai bambini e alle bambine di potersi muovere in autonomia, permettendo l’autoregolazione nei processi di apprendimento. Alcuni sono individuali, come le schede autocorrettive che utilizziamo per il piano di lavoro; altri sono materiali di classe, oppure sono collegati agli incarichi. Nella nostra biblioteca, ad esempio, c’è il libro dei prestiti, su cui vengono registrati i libri che escono o rientrano: questo è un materiale della classe che tutti e tutte hanno imparato gestire, è uno strumento collettivo di cui ognuno deve prendersi cura.
Uno degli aspetti che più preoccupa gli insegnanti e gli educatori, nel proporre attività del genere, è la sicurezza.
Le attività che svolgiamo in classe anche con questo tipo di impostazione ed organizzazione rientrano nei limiti della sicurezza imposti dalla normativa scolastica. Come insegnante di volta in volta devo valutare il grado di pericolosità di ogni situazione: alcune volte c’è un indice maggiore, altre meno. Se penso a uno degli aspetti più rischiosi del nostro modo di lavorare, credo sia forse quello di consentire che i bambini e le bambine si dividano in gruppi disposti in più ambienti contemporaneamente. La pericolosità sta nel fatto che in questo modo non sono costantemente sotto il mio sguardo vigile. Però è anche vero che lavorando per un tempo lungo, quindi nell’arco di più anni, è possibile stimolare in ognuno di loro un forte senso di responsabilità verso il proprio lavoro e verso gli ambienti di cui ci si prende quotidianamente cura, al punto che non occorre un adulto “controllore”.
Va detto però che queste scelte implicano una forte assunzione di responsabilità anche da parte dell’insegnante e la costruzione di patti di alleanza con le famiglie ed il resto della scuola. Servono poi spazi adatti anche fuori dall’aula.
Nella mia esperienza è stato importante preparare il terreno: lavorare sulle relazioni con i colleghi, con le famiglie e con l’istituzione scolastica; bisogna assumersi il rischio per certi versi di andare controcorrente. Lo stesso Freinet ammette che non è necessario costruire una classe cooperativa completamente ex novo, con tutte le tecniche: si può iniziare prima con una, poi gradualmente inserire le altre, quando il contesto lo consenta.
L’importante è avere ben chiari i principi che orientano il nostro fare scuola. E poi studiare, lavorare con spirito di ricerca, documentare e confrontarsi con gli altri.
E gli obiettivi, la valutazione, le Indicazioni nazionali? Come riuscite a fare tutto?
Io credo che in questo ci sia un fraintendimento, perché le attività che noi svolgiamo quotidianamente in classe sono orientate dalle Indicazioni nazionali. Il lavoro che facciamo, ad esempio con il giornale di classe, coinvolge attività di diverso tipo dell’ambito linguistico: la scrittura di testi corretti dal punto di vista ortografico e sintattico, ricchi nel lessico e nel contenuto; la lettura e la comprensione di testi; lo studio e la ricerca, per creare contenuti propri; il riconoscimento dei tipi di testo, che noi classifichiamo nelle rubriche. Oltre a contribuire al raggiungimento dei traguardi e degli obbiettivi previsti, però la tecnica del giornale di classe implica e implementa ulteriori competenze: quella dello scrivere per uno scopo comunicativo reale, perché i destinatari dei testi non sono solo i propri insegnanti; del costruire testi collettivi; del prendere decisioni relativamente alla costruzione del giornale stesso; del realizzare un progetto comune in tutti i sui aspetti organizzativi.
La valutazione non è un momento estraneo al processo. Le tecniche che più supportano l’autovalutazione dei bambini e delle bambine sono il piano di lavoro e i brevetti. Nella nostra classe gli alunni e le alunne scelgono all’inizio della settimana su cosa dovranno lavorare (attività di rinforzo di italiano, lettura, scrittura, lessico, ortografia o realizzazione di attività o progetti personali) e già questo è un elemento di autovalutazione, perché in quel momento sono loro stessi che scelgono quali aspetti hanno bisogno di potenziare o a quali attività vogliono dedicarsi. Poi, una volta realizzate le attività del piano di lavoro, dovranno nuovamente autovalutarsi attraverso una procedura formalizzata, ovvero un consiglio che danno a loro stessi e un breve colloquio con l’insegnante. Ciò costituisce un altro momento che permette loro di osservare e riconoscere le capacità acquisite, ma anche di riflettere sul proprio stile di lavoro. Alcuni, ad esempio, si accorgono che hanno bisogno di organizzare meglio le condizioni in cui lavorare (luogo, materiali, compagnia), che avevano predisposto troppe attività o troppo poche. In questo modo l’autovalutazione è rivolta non soltanto all’acquisizione di competenze ma anche allo stile di apprendimento. A questo tipo di valutazione formativa si aggiunge un momento di valutazione sommativa, rappresentato dai brevetti. Da noi i brevetti obbligatori sono quelli di esperto/a di lettura, di scrittura, di discorsi ed il brevetto di storico/a. A questi si affiancano dei brevetti facoltativi: esperto di lingue, giornalista, fumettista, pittore e disegnatore, sportivo. Chi si prenota per passare un brevetto, in una determinata data prefissata, dovrà dimostrare alla classe di aver acquisito le capacità che corrispondono al profilo di quel dato brevetto. Esiste poi un dispositivo in cui la valutazione deriva dalla restituzione offerta dai compagni e dalle compagne e dall’insegnante, ovvero le conferenze. I bambini e le bambine si propongono per esporre alla classe un argomento: sono loro che si preparano, sono loro che decidono quando esporre, sono loro stessi che devono valutare quando si sentono pronti per farlo o, se non l’hanno ancora fatto, di impegnarsi di più per farlo. Dopo l’esposizione di una conferenza c’è un momento di discussione, durante il quale i compagni e le compagne possono fare domande, esprimere pareri, dare consigli.
Nel corso dei mesi ho potuto notare come in questo momento di co-valutazione i bambini e le bambine siano diventati sempre più attenti, specifici, chiari e articolati. Questo tipo di valutazione non solo restituisce al singolo impressioni su come ha lavorato, ma consente anche alla classe di cogliere degli elementi rispetto a come lavorare per le conferenze future. Quindi i contenuti di quella valutazione diventano patrimonio dell’intera classe, a disposizione di tutte e tutti. Invece di promuovere una classe in cui gli alunni devono accumulare competenze per competere con gli altri, si prova a rendere effettiva l’idea che se migliora uno, i suoi elementi di miglioramento sono un bene per tutti.
Come si arriva al giornale?
Per lavorare al giornale partiamo dai testi liberi, testi che i bambini e le bambine producono autonomamente e hanno la possibilità di sottoporre a una correzione da parte dell’insegnante oppure collettiva. La revisione collettiva del testo è un momento di lavoro comune sugli aspetti sintattici, ortografici, morfologici e di contenuto. Dalla sistemazione dei testi che vengono raccolti deriva la catalogazione in rubriche, affinché possano essere pubblicati sul giornale. Questo delle rubriche è un lavoro di riconoscimento dei tipi di testo: se un articolo viene riconosciuto come narrativo andrà inserito nella rubrica storie; un testo argomentativo lo inseriamo nella rubrica notizie dal mondo, abbiamo alcuni testi che sono lettere, altri interviste. Il giornale ci permette di lavorare su vari stili contemporaneamente, mentre seguendo il libro di testo dovremmo affrontare uno stile per volta, ma in modo sincrono per tutti.
Il risvolto positivo è che nei bambini viene sollecitata la motivazione a lavorare autonomamente sul testo, perché sentono il desiderio di rendere il proprio testo un oggetto sociale. I bambini e le bambine non scrivono per avere una restituzione positiva dalla maestra, ma hanno uno scopo comunicativo reale, perché il loro testo diverrà pubblico: lo potranno leggere i compagni, i genitori o chiunque sfogli il giornale.
Con questa modalità di produzione testuale non solo i bambini scrivono ciò che loro ritengono importante ma lavorano allo stesso tempo su ciò che noi insegnanti abbiamo chiaro che è importante che loro apprendano o, come suggerisce Philippe Meirieu, ciò che a loro interessa coincide con ciò che è nel loro interesse. Per fare un esempio: alcuni bambini hanno lavorato per settimane scrivendo lettere, perché in quella fase interesse e curiosità erano amplificati rispetto a quello strumento linguistico; stavano lavorando su un testo previsto dalla nostra programmazione annuale comune di quarta ma lo stavano facendo con una forte motivazione, un forte interesse e una forte autonomia di lavoro. Poi accade anche che i bambini e le bambine si confrontano tra di loro, osservano come lavorano gli altri e il giornale, nel momento in cui viene pubblicato, diventa un ulteriore oggetto di osservazione. Nel primo numero avevano scritto soltanto alcuni bambini, quelli un po’ più sicuri; nel secondo numero hanno scritto tutti, perché deve essere avvenuto questo processo di imitazione, di desiderio di occupare uno spazio aperto da altri. Successivamente in loro è nata l’esigenza di perfezionare i propri lavori e siamo dunque passati allo studio di articoli scritti da giornalisti, perché c’era il bisogno di avere degli esempi più strutturati. Da qui anche la creazione di una piccola biblioteca di lavoro, costituita da riviste e libri divulgativi.
Naturalmente dietro a questo lavoro ci sono anche tanta fatica e impegno, sia da parte dei bambini che mio. La pubblicazione di un nuovo numero del giornale inizialmente riscuote grande entusiasmo, ma poi portarlo a termine implica responsabilità, costanza e un gran lavoro di cooperazione.
Il giornale viene stampato?
Il nostro giornale viene pubblicato in forma cartacea per un’esigenza precisa: il bisogno di materialità, di avere un oggetto che sia presente in classe con noi, che ha un suo spazio nella biblioteca, che i bambini possono sfogliare quando vogliono, che possono mostrare o consegnare ad altre persone. Il giornale però viene costruito mediante strumenti digitali: i bambini e le bambine scrivono prima a mano, poi, dopo le correzioni, trascrivono i testi su dei computer che abbiamo in classe, infine il materiale viene impaginato. Di questa ultima parte me ne occupo soprattutto io, perché si tratta di un lavoro di grafica un po’ complesso. Quindi il giornale viene stampato. La parte della stampa per noi è molto importante perché è quello che ci consente di entrare dentro alcune dinamiche decisionali: quante copie stampare? A colori, in bianco e nero? I costi? Dove si stampa? Chiamiamo la tipografia e facciamoci fare un preventivo! Dove prendiamo i soldi per stampare? Quanto dobbiamo mettere a testa? Queste questioni ci hanno portato alla decisione condivisa di creare una cooperativa scolastica, sullo stile di quella di Mario Lodi. Abbiamo deciso insieme che dovevamo avere una cassa con cui raccogliere e gestire i soldi, non solo autotassandoci ma anche proponendo a dei soci sostenitori di parteciparvi e organizzando delle vendite del giornale. Da qui la conseguente decisione di scrivere anche uno statuto che i bambini hanno contribuito a redigere e poi hanno firmato.
Quali sono i tempi?
Per il nostro giornale, che abbiamo iniziato quest’anno in quarta, ho preferito non definire prima i tempi, perché avevo bisogno di vedere come loro sarebbero riusciti a rispondere, diciamo che ho assecondato i loro ritmi. La pubblicazione del primo numero è avvenuta ad ottobre, ma ho spinto un po’ per accelerare il processo, perché avevo bisogno che si facessero un’idea di che cosa fosse un giornale. Il secondo numero è stato pubblicato a Natale, con dei tempi più distesi. Adesso siamo alla produzione del terzo numero e stiamo selezionando i testi.
In generale immagino che i tempi per costruire un giornale di classe si possano decidono in autonomia, si può lavorare ad un unico numero annuale o anche a più numeri, questo dipende un po’ dal tipo di classe.
Perché un giornale, oggi, e non un altro strumento?
Per noi il giornale è stato uno strumento che ha consentito di mettere in gioco l’autonomia, il senso di responsabilità verso il proprio lavoro e quello degli altri, la capacitò di assumere un compito e portarlo a termine, di realizzare un progetto collettivo. Essenzialmente il giornale è questo: lettura, scrittura e lavoro sul testo, però è anche possibilità di dare dignità ai pensieri dei bambini e delle bambine, alle loro idee, perché i loro testi non rimangono nella dimensione chiusa dello scambio alunno-maestra ma diventano cosa viva, un qualcosa che dialoga con il mondo. E dunque loro sentono che quello che scrivono ha dignità, ha un valore e ciò li porta a prendere parola. Credo che nella nostra società questo sia un aspetto che andrebbe maggiormente approfondito: la maggior parte dei bambini è continuamente al centro delle attenzioni degli adulti ma da un lato come consumatori, come oggetto d’interesse del mercato, dall’altro come oggetto di preoccupazione, qualcosa da proteggere e stimolare affinché la loro crescita li renda soggetti competitivi sul mercato. Difficilmente li si incontra o li si interpella come soggetti attivi. Invece io credo che sin da piccoli bambini e bambine possano iniziare a fare scelte ed assumersi responsabilità, in una dimensione protetta e regolata come è quella della scuola, dove possono essere accompagnati in questo processo, trovando spazi di parola e di confronto. Il giornale in questo senso è uno strumento molto potente.
3. Radio-scuola. In classe con Gabriele Recchia
Maestro di scuola elementare, quest’anno ha avuto una prima a tempo pieno all’IC Pisano di Marina di Pisa. Si laurea in Lettere prima, consegue una seconda laurea in Scienze della formazione primaria. Da sempre appassionato di tecnologie, con uno sguardo ravvicinato alla web radio e al podcast, ha tradotto questo interesse nell’esperienza concreta nelle sue classi. Nel numero 11 di “Educazione aperta” ha raccontato la sua esperienza con un contributo dal titolo Un’esperienza di web radio nella scuola primaria. I podcast realizzati con la scuola Collodi di Pisa si possono ascoltare all’indirizzo www.spreaker.com/show/radio-collodi_1.
Come hai scoperto alla pedagogia popolare?
Già negli anni di formazione universitaria mi interesso alla pedagogia popolare di Freinet e alle sue tecniche ma sarà l’incontro con il gruppo MCE operativo a Pisa dal 2015 a darmi gli strumenti per orientare il mio lavoro. Da lì comincio, insieme a loro, a sperimentare e a sperimentarmi nelle tecniche. Un doppio canale mi ha condotto in questa direzione: da un lato la mia visione del mondo che sostiene un’idea di scuola non competitiva, dove la cooperazione allontana l’idea di un’autorità nello stile di insegnamento apprendimento; dall’altro, più sul piano didattico, l’idea di superare il modello della lezione frontale e di concepire l’apprendimento come un fenomeno sociale e di gruppo.
La pedagogia Freinet, sin da piccoli, aiuta i bambini a fare delle scelte. Mentre la scuola tradizionale tenta di inquadrare le loro vite per poi, senza allenamento, spingerli ad esempio a diciotto anni al voto senza che questi ragazzi abbiano idea di che cosa comporta veramente questa “scelta”. Invece con la pedagogia Freinet i bambini fanno esercizio delle loro scelte, della loro autonomia, del loro io all’interno del gruppo. Oggi questo vuol dire rispondere alle emergenze della scuola: l’interculturalità e l’inclusione sono possibili direzioni attraverso cui la pedagogia popolare risponde in modo costruttivo. Il tentativo di creare dei contesti in cui questi bambini riescono ad entrare con il loro vissuto, per raggiungere nel pieno benessere gli obiettivi di apprendimento e i traguardi di competenza richiesti. Il punto di forza consiste proprio nella differenziazione attraverso la quale noi riusciamo a creare percorsi in cui tutti e ciascuno riescono a ritrovarsi.
E un punto debole?
Il punto di debolezza su cui si può riflettere riguarda le tecniche in quanto sistema: scegliere questa direzione significa costruire un orientamento di questo tipo, l’ambiente di apprendimento deve rispondere a questa chiamata, gli spazi e i luoghi facilitano questi contenitori didattici e le tecniche non sono unità chiuse o frazionarie. O hai la fortuna di incontrare un team che è orientato su questa direzione, che condivide questo percorso, oppure diventa un po’ complicato ma è sempre possibile farlo: anche se non sempre hai la compresenza, anche se hai delle classi numerose. Il registro che ti muove è comunque e sempre il tuo orientamento, la tua idea di fare scuola.
E alla radio, come sei arrivato?
Io inizio a fare radio dopo avere letto di un’esperienza di un maestro di Genova su “Cooperazione educativa”, la rivista del Movimento. Fu lì che domandai ai miei alunni: “si fa una radio?” E fu proprio il loro entusiasmo a guidare le mie scelte. Abbiamo iniziato in terza primaria con delle idee che avevo io ma pian piano siamo riusciti ad arrivare alla co-progettazione dello strumento. Il punto di partenza è stato utilizzare uno strumento che gli permettesse di uscire fuori dalla classe, di farsi sentire: di farsi sentire dalle famiglie, di farsi sentire dal mondo. Questo ha creato una forte motivazione. Noi organizziamo la classe come se fosse una redazione radiofonica: io, che faccio italiano, organizzo il nostro tempo e la programmazione di italiano sempre facendo la radio. I nostri obiettivi di apprendimento li raggiungiamo ugualmente: ad esempio sul testo informativo ci sarà un gruppo di lettori di giornale, sull’arricchimento del lessico ci sarà il gruppo che si occupa delle rubriche con le parole della settimana e quindi con approfondimento dell’etimologia della parola e il suo sviluppo.
Al di là degli obiettivi di apprendimento di italiano che noi raggiungiamo insieme, l’idea di lavorare in modo cooperativo sui testi, di fare revisione collettiva sui testi consegna una forte competenza socio-comunicativa. Noi usiamo un’applicazione che si chiama Spreaker che ti consente di registrare, però se sbagli devi ripartire daccapo, e quindi per i bambini diventa importante il silenzio che a scuola non è così scontato. In questa direzione, l’ascolto e il parlato traducono l’esperienza concreta di questo strumento così potente. Si impara il rispetto del lavoro degli altri: la puntata è un’esperienza di lavoro collettiva, se esce fuori una buona puntata è grazie al lavoro cooperativo di tutti. Un altro aspetto importante è il suo valore di documentazione, non soltanto per il lavoro degli insegnanti ma anche per la famiglia che, in questo modo, entra dentro le nostre classi e ascolta il nostro lavoro, in un clima che si instaura di completa fiducia.
La radio consente ai bambini di avere una visibilità qualitativamente efficace. È uno strumento molto versatile, un contenitore dentro il quale puoi discutere su tutto. Serve ancor di più, oggi, a tutti questi aspetti di cui parlavamo prima che si riferiscono all’ascolto, al parlato, al silenzio e al rispetto dell’altro insieme a te. La radio è come la musica: ti costringe a vivere il presente, ad attraversarlo, a sentirlo e, in quelle ore lì, puoi fare solo questo. In un mondo in cui i bambini sono bombardati da immagini, suoni e rumori, dove l’attenzione è costantemente attaccata anche da stili cognitivi diversi, “la radio, il motore e l’azione” sono le tre parole che ci consegnano la percezione di entrare in uno spazio in cui il silenzio è il patto di una relazione educativa, che si traduce nella cooperazione e partecipazione democratica di tutti e di ciascuno.
4. Più ganci, più ponti. A colloquio con Gilda Terranova
Gilda Terranova è nata e vive a Palermo. Si laurea in Lettere moderne con una tesi in sociologia dell’educazione sul rapporto tra volontariato e istituzioni nel quartiere Albergheria di Palermo. Nel 1994 vince una borsa di studio in Francia che le consente di fare uno stage in una biblioteca scolastica. Nel 1999 fa un’esperienza a Caracas in una scuola biculturale, primaria. È insegnante da dieci anni presso una scuola secondaria di primo grado; prima è stata insegnante alla scuola dell’infanzia, ludotecaria, libraia e animatrice sociale. Ha scritto articoli su riviste che si occupano di cultura, scuola e società. Dal 2020 fa parte del MCE e della redazione di “Cooperazione educativa”.
Uno dei tuoi principali interessi sono i libri per ragazzi; è una passione che scopri a Parigi, mi raccontavi.
Nel 1997 ho vinto una borsa di perfezionamento all’estero presso l’Università di Catania. Grazie alla borsa, ho potuto frequentare i corsi di Sciences du jeu presso l’Université de Paris 13, a Villetaneuse. Nell’ambito di questo percorso di studi era previsto anche uno stage di due mesi presso una biblioteca scolastica nel diciassettesimo arrondissement, zona Arts et Métiers.
A Parigi era in vigore già da qualche anno il piano Paris-Lecture, che prevedeva un raccordo con le scuole ed esisteva un albo di figure professionali riconosciute come bibliotecarie scolastiche nell’ambito dei Centre de loisirs delle singole scuole. Tramite la mia tutor di tirocinio Laura, conosciuta alla Librairie Vendredi di rue des Martyrs, di proprietà di sua madre e per me punto di riferimento parigino, ho avuto modo di conoscere intanto il panorama editoriale francese e di approcciarmi ad albi meravigliosi che non si vedevano in Italia e anche di sperimentarli grazie alla lettura ad alta voce coi bambini più piccoli. La scuola era in un quartiere facente parte della ZEP, “zona di educazione prioritaria”, concetto che noi abbiamo mutuato in “area a rischio”, definizione italiana che non mi è mai piaciuta. Era frequentata da molti bambini di famiglie turche di seconda generazione con problemi sociali di vario tipo e la biblioteca restava una zona franca, con una figura appositamente formata a lavorare in un contesto educativo difficile e che, quando era necessario, faceva anche attività di recupero scolastico individualizzato. Durante i mercoledì, giorno in cui i bambini francesi frequentavano il centre de loisir, con proposte varie sia ludiche che creative e sportive (sempre in piscina con il bus, e a Parigi ce n’era una ogni 200 metri!) ma non di tipo scolastico, era sempre prevista un’ora di racconto e una di lettura individuale e prestito dei libri. Qui scopro la mia passione alla letteratura per l’infanzia.
Hai avuto poi altre esperienze di sistemi scolastici diversi da quello italiano.
Nel 1999 ho insegnato pochi mesi a Caracas come docente d’italiano in due prime elementari. Era una scuola paritaria a regime misto e, tra le private, non cara come quelle gestite da ordini religiosi. Questo faceva sì che ad iscriversi fossero non tanto bambini realmente interessati ad un percorso biculturale ma in fuga da scuole pubbliche che funzionavano molto male, con docenti malpagati e che si assentavano spesso perché, per poter vivere dignitosamente, erano costretti a fare un doppio, talora un triplo lavoro. Questo generava una motivazione ad imparare l’italiano piuttosto bassa, sia in loro che nelle loro famiglie, tranne alcuni casi di bambini con nonni italiani che, invece, investivano in questo tipo d’istruzione sognando di rientrare in Italia. Inoltre c’era una grossa sperequazione dal punto di vista degli stipendi dei docenti italiani e di quelli venezuelani, che avevano un atteggiamento molto prevenuto e anche diffidente nei nostri confronti.
La cosa sorprendente per me era l’arretratezza del loro sistema scolastico: la mattina il bambino più piccolo della scuola faceva l’alza-bandiera al centro del cortile e seguivano tre inni tutti rigorosamente cantati da docenti e alunni, con tanto di mano sul cuore. Oltre ai due inni nazionali, s’intonava anche l’inno della scuola. Anche i metodi erano molto mnemonici e poca la collaborazione tra i docenti di uno stesso modulo. Nonostante la direttrice fosse una persona illuminata non riusciva a far in modo che i docenti soprattutto formatisi in Venezuela, seguissero la sua visione.
Come hai conosciuto il Movimento?
Mia madre insegnava scienze e matematica presso la scuola media Archimede di via del Fervore; aveva frequentato il centro educativo di Mirto, fondato da Danilo Dolci, ed era iscritta al MCE da tanto tempo. È stata determinante per introdurmi alla corrispondenza: è stato un modo per conoscere ragazzi di altre parti d’Italia che facevano la stessa cosa in altre scuole di altre città come Chieti, Milano, Roma e con loro seguire il percorso di formazione Scuole Verdi a Cenci rivolto a giovani universitari o ragazzi agli ultimi anni di scuola. Seguivamo a distanza il lavoro di padre Vilson Groh a Florianopólis, in Brasile. La metodologia era quella della corrispondenza scolastica, per cui nelle classi che seguivo c’era molta attesa per la posta che arrivava dal Brasile, perché ogni ragazzino aveva il suo amico di penna a cui mandava testi, disegni e esperienze significative.
Sono rimasta in contatto dagli anni universitari con il gruppo della Casa laboratorio di Cenci e soprattutto con Anna Maria Matricardi e Franco Lorenzoni; ho iniziato per un anno delle collaborazioni e da due anni sono nella redazione della rivista. Il lavoro in “Cooperazione educativa” è un lavoro di autoformazione proprio perché è un lavoro di scrittura collettiva, sia come revisione che redazione.
Far parte del Movimento significa, per me, intanto uscire dall’isolamento del vivere in Sicilia: io ho sentito sempre moltissimo questa dimensione come un po’ asfittica e quindi avere un respiro nazionale e sapere che cosa accade negli altri territori per me è importante. Significa scambiare e confrontare pratiche: da poco per altro è nato un gruppo nazionale di scuola secondaria del MCE. Qui c’è un gruppo palermitano, coordinato da Maura Tripi e Giuseppe Rizzuto, con il quale abbiamo avuto occasione di collaborare perché lui è stato il nostro mediatore per un progetto con la comunità cinese. Fare parte del movimento, significa creare ponti sui lati di confine, significa costruire una narrazione collettiva sulla scuola. “Cooperazione educativa” è uno strumento del movimento, in più ha il vantaggio di essere dentro al movimento ma di avere anche una sua autonomia.
C’è una forte componente di impegno culturale, di ricerca, in questo modo di vedere la scuola.
Se c’è una cosa bella di questo mestiere è la possibilità di studiare, di sperimentare, di non accontentarsi, di capire in base alle persone che hai davanti, che cosa serve fare e che cos’è più utile fare, per crescere. In un rapporto circolare, la ricerca e la didattica sono il filo rosso del patto educativo. C’è bisogno di un sentire comune, di uno scambio di idee e pratiche comuni che non a caso è alla base dell’operatività del movimento. È un sentire osmotico con e tra le persone, nel territorio, riconosciuto come orizzonte di senso comune.
È anche una questione di curiosità, che poi porta a cogliere le opportunità che si presentano. Per esempio, l’anno scorso abbiamo fatto un’esperienza di scrittura collettiva molto interessante grazie ad un’esca che ci ha lanciato Bruno Tognolini, poeta e rimatore il quale, alla conclusione di un progetto che si chiama Un mare di storie, ha proposto un’attività di scrittura a partire dal ventiseiesimo canto dell’inferno e quindi dalle “colonnine d’Ercole”. Con i ragazzi della mia prima dell’anno scorso, abbiamo fatto un lavoro sulle colonnine d’Ercole come confine e come margine. Ne è venuto fuori un testo collettivo che poi Bruno Tognolini ha raccolto e letto in occasione della sua lectio a Ravenna, durante i festeggiamenti per il settecentenario dantesco. Quella per esempio è stata un’esperienza interessante perché, nel caso di due ragazzine che faticavano molto a scrivere, avendo ascoltato la lettura dei testi di tutti, si sono agganciate, hanno cominciato a scrivere sentendosi gratificate e riconosciute. Chi proviene da contesti deprivati ha la possibilità aprire un canale espressivo in cui potersi riconoscere e potere riconoscere. Questo è un potente strumento di inclusività che, come insegnanti, possiamo utilizzare.
Come ti piacerebbe che fosse la scuola di domani?
La scuola di domani, per quanto riguarda la scuola media deve andare contro la frammentazione; alla frammentazione del curricolo, corrisponde la frammentazione della personalità dei ragazzi: si dovrebbe “lavorare su dieci cose bene, tutti insieme”. La struttura organizzativa dei programmi della scuola media, per quanto le Indicazioni nazionali siano chiare, è ancora ben lontana da questo pensiero. Le Indicazioni nazionali dovrebbero essere più “viventi”; ci dovrebbe essere un maggiore accordo tra tutti i cicli di istruzione. Per esempio, per quanto riguarda i ragazzini con cittadinanza non italiana, il biennio alla scuola superiore è un nodo fragilissimo. Una maggiore attenzione alle classi ponte, come la prima media, è molto importante per motivare, per appassionare. Sarebbe bello pensare a dei percorsi di raccordo, sia verso il basso che verso l’alto, cioè una continuità vera in cui nessuno verrebbe lasciato fuori. La scuola di domani sarebbe così una scuola con più ganci e più ponti.
5. Una questione di scambi e interconnessioni. A colloquio con Federica Lucchesini
Insegnante di scuola secondaria di primo grado, entra di ruolo senza precedente esperienza con uno degli ultimi grandi concorsi ordinari, nel 1999. Termina il dottorato in filologia moderna dedicato a Leopardi e Montale e lavora per un anno in una piccola scuola lombarda dove funzionava ancora splendidamente il tempo pieno. L’anno dopo ottiene il trasferimento a Napoli, a Scampia, nel 2003. Lì incontra persone ed esperienze decisive per la sua formazione pedagogica. Dirige con Marco Carsetti e Mimmo Perrotta la rivista “Gli Asini” fondata da Goffredo Fofi.
La tua, come altre, è una storia di iniziazione legata a scelte professionali che sono anche politiche.
La scuola povera e trascurata in cui mi sono trovata a Napoli mi ha posto nelle condizioni di dover scegliere quale insegnante avrei voluto essere: avevo bisogno di costruire degli strumenti alternativi, per una didattica che avesse avuto cura e attenzione delle condizioni di povertà materiale e alle caratteristiche socio-culturali di quel luogo. Non potevo urlare con queste ragazze e ragazzi avvertiti e consapevoli della complessità della vita quanto me, che non parlavano italiano, con lacune enormi di alfabetizzazione e prevenuti nei confronti della scuola che avvertivano come nemica, ostile e non mezzo di emancipazione. L’incontro con Chi rom e chi no…, con Giovanni Zoppoli e con Oreste Brondo che fa da lungo tempo parte del MCE, mi dettero l’opportunità di formarmi assieme a compagni e compagne e anche di entrare in contatto con una scuola di tradizione MCE, la Madonna Assunta di Napoli, dove insegnava Olga Mautone, una maestra che ha sempre praticato all’interno della scuola il testo libero e le creazioni matematiche. Il seminario di formazione con lei, organizzato da Giovanni Zoppoli e Luigi Monti, sul Vesuvio, proprio secondo la tradizione dei laboratori di formazione per adulti, mi ha permesso di iniziare a conoscere la pedagogia del cielo, il testo libero. Sempre a Napoli conosco Maurizio Braucci e Goffredo Fofi ed entro a far parte di quell’area pedagogica che faceva riferimento alla tradizione libertaria e al patrimonio della sperimentazione della ricerca pedagogica italiana degli anni Cinquanta. Dunque il mio trasferimento a Napoli ha significato una vera e propria iniziazione culturale da un lato avvenuta grazie a incontri con persone e gruppi, dall’altra grazie a incontri letterari. Infatti sotto forma di un pacco di libri incellofanati e polverosi, su una bancarella di Port’Alba, acquistai un blocco di pubblicazioni della Emme edizioni: tra Maud Mannoni e Emi Pikler c’erano due libri di Pedagogia istituzionale, tra cui Tecniche e istituzioni della classe cooperativa che è stato, per me, un incontro decisivo tanto quanto quello con le persone.
Cosa significa per te fare parte del Movimento?
Significa non essere soli.
Stare dentro il movimento significa non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà e alle contraddizioni quotidiane, significa avere l’idea che non si è soli seppur distanti, seppur una minoranza, perché tramite l’organizzazione e la pratica cooperativa partecipi a un movimento. Significa qualcosa di profondamente affine alle mie convinzioni perché c’è una dimensione cooperativa del movimento, nella sua forma istituzionale, che incoraggia a lasciare da parte le personalizzazioni in nome della pratica associativa. Oggi non abbiamo bisogno di individualità di spicco, di maestri eccezionali ma del più largo numero possibile di gruppi, di insegnanti e collettivi che lavorino in una certa maniera e che producano opere e azioni collettive. Nel movimento trovo una possibilità di speranza e di azione affine. Come si dice in Pedagogia istituzionale: “Mai senza materiali, mai da soli e mai per poco tempo”.
Cosa è la Pedagogia istituzionale e che rapporto ha con le pratiche cooperative?
È un movimento pedagogico che si inscrive dentro la scuola moderna di Freinet nel senso che la Pedagogia istituzionale esiste nelle classi cooperative che lavorano secondo le tecniche freinetiane. La Pedagogia istituzionale suppone il testo libero, il giornale, la corrispondenza, l’album inchiesta e poi suppone alcune istituzioni che in parte si ritrovano anche in Freinet come le responsabilità e il Consiglio di cooperativa. Nella Pedagogia istituzionale ci sono anche istituzioni come le “cinture” che rimandano in parte ai brevetti freinetiani ma che suppongono lo sviluppo di capacità di autovalutazione e di misura di sé in vari campi interconnessi. La Pedagogia istituzionale è un movimento pedagogico per la trasformazione della scuola che si inscrive dentro la traduzione freinetiana e che ci aggiunge l’attenzione alla dimensione del desiderio, dell’inconscio, una particolare attenzione agli scambi del linguaggio e un patrimonio di riflessioni su che cosa è l’istituzione. Quindi: chi pratica la Pedagogia istituzionale pratica le tecniche Freinet e suppone di lavorare in una classe cooperativa, dove le persone si impegnano per realizzare delle opere collettive le cui finalità e gli obiettivi sono condivisi da tutti; per cui tutti si adoperano ciascuno a suo modo e a suo tempo, aiutandosi gli uni con gli altri. Però tiene anche conto del fatto che l’articolazione tra io e noi, tra individuo e collettivo è estremamente delicata: per curare questa articolazione in modo che le relazioni di lavoro e convivenza siano davvero in costante cura e non si ammalino c’è bisogno di costruire una serie di dispositivi di presa di parola e espressione molti vari. Un bambino, una bambina imparano se si sentono al sicuro e sanno darsi una spiegazione della loro presenza nella scuola e se sono riconosciuti nel gruppo come soggetti capaci di espressione e di evoluzione: l’ambiente di vita regolato deve quindi essere curato anche da questo punto di vista. Creare occasioni varie e variate di scambio ed espressione che impegnino in attività complesse e differenziate tutti, riduce il rischio della violenza del sopruso, dell’annichilimento dell’altro a cui siamo sempre esposte nelle nostre organizzazioni sociali. C’è da sottolineare quindi nella Pedagogia istituzionale una particolare attenzione al linguaggio, agli scambi che avvengono all’interno dell’istituzione, con la tensione verso un sistema, un dispositivo, fatto di abitudini, discorsi e regole che valuta e cura la maniera in cui avvengono gli scambi anche linguistici, oltre che materiali e affettivi. Le istituzioni sono necessarie per compiere imprese comuni ma ci vuole cura continua per far stare bene le persone e non permettere che l’irrigidimento dell’organizzazione istituzionale si faccia oppressivo. Le istituzioni si mantengono sane se ci sono molti scambi all’interno però questi scambi li devi organizzare. Oltre all’attenzione sull’apprendimento cooperativo, c’è l’attenzione sugli spazi, sui tempi della parola e la dimensione del potere. Nella Pedagogia istituzionale quanto detto si connette al fatto di considerare il desiderio; perché desideri di essere riconosciuto, di essere lì e di fare quel lavoro, di fare una scelta piuttosto che l’altra. Certe organizzazioni permettono meglio la gestione di questa dimensione sommersa. Freinet e Oury si sono conosciuti, si sono parlati, si sono allontanati e poi la Pedagogia istituzionale è rientrata dentro il movimento freinetiano.
Cosa vale la pena imparare a scuola?
Anni fa, con Giulio Vannucci e Ciro Minichini, organizzammo un seminario residenziale di tre giorni sull’Appennino pistoiese con questo titolo, Che cosa imparare? partendo dall’assunto che, ogni scelta didattica è una scelta politica. Per quello che riguarda la scuola primaria, ritengo che “vale la pena imparare” a prendere parola, non aspettare che te la diano, perché nello spazio sociale partecipi al farsi delle decisioni quando prendi parola pubblicamente. Se non puoi prendere parola da sola-solo, perché ci sono delle differenze enormi nella padronanza delle possibilità del linguaggio, deve esserci qualcuno che sa ed è educato ad aiutarti, a prendere parola per esprimerti in pubblico. Questo è qualcosa da imparare: esprimersi in società nella varietà delle condizioni date, per sé e per gli altri. Alla scuola primaria parlare, sapere leggere e scrivere e fare di conto sono i fondamentali: importante è la possibilità di apprenderlo, tenendo salvo il proprio desiderio e quindi la creatività. Sappiamo che il rischio di una scuola primaria che non si costruisce rispettando il desiderio del bambino e della bambina di essere e di lavorare con gli altri si traduce nella distruzione della curiosità e del desiderio di sapere. Quindi dovrebbe circolare un insegnamento in cui il lavoro culturale di apprendimento, quel tipo di fatica, ripaga nella veicolazione libera delle scelte.
La scuola può essere ancora vissuta come laboratorio sociale, come sostiene il MCE?
Il movimento esprime nella sua tradizione, in maniera celebrativa e profondamente entusiasta, l’idea di una scuola statale che si propone come laboratorio sociale, pubblica e democratica. Io sono assolutamente a favore di una scuola democratica, anche se penso che raramente la scuola statale sia questo. Nei documenti ufficiali si dice: è luogo in cui la costituzione si incarna; è il presidio della vita civile e democratica; è il posto fondamentale del nostro esercizio democratico. Personalmente credo che la scuola democratica oggi faccia fatica a essere una realtà di maggioranza, la scuola si porta ancora appresso la sua funzione di riproduzione delle disuguaglianze sociali e lo fa coerentemente alle spinte neoliberiste e iperindustriali che mirano a un iperindividualismo consumista in cui tutti sono in gara contro tutti per accedere a posti in cui consumare di più, al riparo dalle situazioni di sfruttamento e immiserimento progressivi a cui il futuro di catastrofe ecologica ci condanna. Certo la scuola è allo stesso tempo ancora il luogo dove vanno tutti i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, quindi nonostante queste contraddizioni, vale assolutamente la pena di starci, lottando. Siamo una minoranza che difficilmente in un istituto, in un consiglio di classe, in un collegio docenti riesce a fare in modo che la scuola sia quella a cui aspiriamo: un laboratorio sociale in cui il paternalismo viene ridotto, in cui il sapere viene rielaborato per delle funzioni di emancipazione, in cui l’idea di una forma diversa di lavoro e di convivenza prendono luogo. Sento ancora tanta distanza da queste pratiche ma penso che valga assolutamente la pena di continuare a provarci, possibilmente concentrandoci in alcune scuole, cercando di fare rete, di cambiare la scuola una per volta: è un orizzonte di azione, di lotta che riconosco e che condivido.
“Cambiare la società per cambiare la scuola o cambiare la scuola per cambiare la società”: non è una questione da poco.
Dopo che ho lavorato tanti anni a Scampia, ho fatto un dottorato in pedagogia in Bicocca, lì incontro Riccardo Massa nel mio percorso. Riccardo Massa è stato un grande pedagogista che purtroppo è scomparso troppo presto e la scuola che ha lasciato a Milano ha perso la sua radicalità di prassi e teoria. Fra i suoi libri, uno in particolare ha lasciato traccia nella mia formazione, un libro molto difficile dal punto di vista stilistico perché scriveva con una certa densità, che si chiama Cambiare la scuola. Con Riccardo Massa entra in Italia l’idea del dispositivo educativo, lui diceva “l’educazione è uno sporco mestiere, ma è meglio farla noi prima che ce la facciano gli altri”: in educazione le dimensioni del potere sono sempre presenti, la scuola è il riflesso della società in cui agisce e quindi è difficile fare una scuola completamente diversa, perché l’educazione è una delle dimensioni della politica. A ciò però si aggiunge lo slancio utopico della formazione, del nuovo inizio possibile con l’impegno nella relazione, nel corpo della relazione, della trasmissione del tuo contributo al cambiamento della società. La scuola è un laboratorio politico in cui si sperimentano anche resistenze, possiamo costruire la relazione educativa considerando le dimensioni del fatto educativo che ci consentono di destrutturare direttive del potere quindi, secondo me, sì: cambiare la scuola, può contribuire a cambiare una società. Fare una scuola differente contribuisce sempre a dare una spinta diversa a una società, anche quando quest’ultima va velocemente nella direzione opposta. Una scuola che sia statale o pubblica cioè aperta a tutti ma non organizzata dallo Stato, può fornire un terreno culturale alle nuove generazioni in cui costruire comunità solidali e interdipendenti. Bisogna immaginare una scuola socialista, con un rapporto diverso con il sapere e con le relazioni fra le persone, con il modo in cui si produce il nostro apprendimento. Penso che abbiamo molti punti di riferimento sia teorici che esperienziali nel passato e che potremmo, a partire da questi, costruirne lo slancio organizzativo e lo spazio in questa contemporaneità, per farlo assieme, in una co-costruzione di significati e di memoria condivisa.
In questo le nuove tecnologie hanno un ruolo?
Questa è una domanda che, a modo suo, mi sorprende quasi che mi fosse chiesto: “quale ruolo dare alla stampa?” Mi spiego: il nostro mondo, l’ambiente sociale e culturale nel quale apprendiamo e insegniamo è definito dallo sviluppo della tecnologia digitale. Il nostro modo di abitare, lavorare, consumare, pensare, viaggiare, costruire è stato modificato dallo sviluppo delle tecnologie digitali di informatizzazione dei dati e noi siamo cambiati in esso anche dal punto di visto della produzione ed elaborazione culturale. Queste tecnologie hanno trasformato noi mentre trasformavamo il mondo e il processo continua e sarebbe assurdo e illogico se questi strumenti e questi mezzi non fossero oggetto di elaborazione nella scuola, durante i processi di apprendimento. Nella mia scuola c’è assoluto divieto di usare gli smartphone, e figuriamoci i tablet, per le attività didattiche. Dunque temo non si tratti di una “avanguardia educativa”; al di là dell’amarezza per quella che vivo come una grave limitazione alla progettazione e azione didattica, di principio non condivido questa scelta. Essa è dettata dal timore dell’ingovernabilità delle azioni di studentesse e studenti di 11-13 anni, dal timore di usi impropri capaci di creare malessere. Eppure questo è un fallimento educativo e formativo. L’ignoranza su come funzionano le macchine digitali proprio a livello di tecnologia e poi di come si possano utilizzare dovrebbe essere un compito educativo e istruttivo della scuola del primo ciclo: la cittadinanza attiva e consapevole oggi contempla evidentemente le competenze digitali e informatiche. Non essere passivi fruitori ma attivi agenti è possibile anche nel campo dell’informatica e del digitale.
Tuttavia dietro una tale evidenza ci sarebbe da trasformare il set d’aula e il curricolo, cosa per cui mancano i fondi per laboratori e formazione e la volontà politica. Si può distinguere, in primo luogo, un impiego nella didattica quotidiana delle nuove tecnologie che va dalla ricerca, alla documentazione, alla condivisione, alla creazione di ipertesti e prodotti cross mediali in cui l’uso degli strumenti si integri armonicamente grazie a una progettazione attenta a tempi, limiti e scopi con gli altri strumenti. Di certo, visto l’abuso di tempo schermo fuori dal tempo scuola, non sto proponendo di avere lo smartphone o il pc acceso per sei ore al giorno ma neanche possiamo escludere queste risorse potenziali per l’apprendimento. Mettiamo l’orto, la serigrafia, il laboratorio e mettiamo l’uso dei dispositivi digitali. Creare sitografie, archivi, ricorrere al reperimento ed elaborazione di informazioni, strutturare gli scambi usando questi canali, sono tutte cose che mi pare assurdo escludere dalle aule. Secondo i principi di libera scelta e dei piani di lavoro autonomi, prevederei anche a seconda degli interessi dei compiti: ci sarà chi vuole tenere schedata la biblioteca di classe con una app, chi tiene in ordine un archivio di materiali didattico usato, chi altro. Ci sarebbero attività di studio su certi temi che prevedano un primo reperimento di informazioni e poi un’esposizione. E molto altro, di facile ed estesa immaginazione. In secondo luogo, ci sarebbe una didattica e un apprendimento dell’informatica, del funzionamento e uso delle macchine digitali che è una disciplina a sé stante ma che dal mio punto di vista dovrebbe essere assunta nel curricolo.
C’è la disciplina “tecnologia” in cui studiano i materiali e imparano a memoria sul libro alienandosi le tecniche per la produzione della carta, ad esempio, o della ghisa. Con utilità che sospetto e spesso constato nulla. Un tempo di istruzione dedicato alla “formazione hacker” sarebbe invece, secondo me, l’ideale: data una macchina come la conosco, come posso farle fare ciò che voglio e cosa mi fa fare lei? Chi produce quello che uso, che accade mentre navigo, come posso resettare e rendere di nuovo utilizzabile e a costo zero un pc dismesso? Devo davvero acquistare tutti i programmi? Posso fare altro che Instagram? Come funziona davvero TikTok? Come mettiamo in piedi una piccola radio scolastica? Sono la prima che vorrebbe sapere e imparare questo.
Margherita Dolce Nata a Palermo nel 1988, si laurea a Palermo come Educatrice della prima infanzia e poi in Scienze della formazione continua. Ha conseguito la laurea in Scienze della formazione primaria alla LUMSA. Lavora prima come pedagogista presso una comunità per minori stranieri non accompagnati, poi dal 2015, come educatrice presso le scuole dell’Infanzia della cooperativa Pueri di Palermo.