Presentazione
Irene Culcasi, Vicenzo Schirripa, Antonio VigilanteQuale cooperazione, quale digitale
Quando si parla di educazione capita facilmente che le parole perdano aderenza con la realtà. Che se ne faccia un uso enfatico o apodittico che in poco tempo le rende meno affilate, inadatte a capirsi e a ragionare sulle cose. “Cooperazione digitale” è un binomio insidioso da questo punto di vista.
La cooperazione: difficile che qualcuno possa dirsi contrario all’importanza di imparare a stare insieme, a collaborare, a vivere consapevolmente l’esperienza del gruppo. “Cooperative learning” è una delle formule del pedagogese che chi vuole lavorare a scuola impara presto a usare estensivamente per far contento chi legge o chi ascolta. Ma per fare sul serio bisogna dirsi chiaramente con quali criteri decidiamo che un lavoro scolastico è cooperativo. Inutile, o forse no, precisare che chi studia l’apprendimento cooperativo o altre forme di organizzazione del collettivo lo avrà ripetuto fino allo sfinimento: non è a loro che bisogna addebitare lo svuotamento di questa e altre formule, le formule non sono di chi le studia, vanno in giro per conto loro se gli altri le usano, e le usano come possono. Fatto sta che un’etichetta cooperativa si può mettere ovunque, a meno di mettersi d’accordo su significati più specifici.
A partire da questo accordo è possibile ragionare sulla coerenza reciproca fra un certo orientamento cooperativo, la scelta dei contenuti su cui vogliamo costruire insieme conoscenza e gli strumenti e le procedure con cui farlo. Ragionare sulle reazioni dell’aula ai vincoli che proponiamo, sugli imprevisti e sugli inciampi e su quello che prevediamo o improvvisiamo per aggiustare il tiro. Approdare a questo livello di analisi è difficile: sia quando siamo in situazione, sia per la prosa scientifica e professionale. Come educatori ne siamo consapevoli, ci ripetiamo che servirebbero luoghi e momenti distesi per ragionare fra pari sulle pratiche e una saggistica pedagogica che sia davvero d’aiuto, che contribuisca ad alimentare questi spazi di riflessività professionale e a sua volta ne sia anche alimentata; si direbbe che abbiamo le idee chiare in proposito ma poi ci riusciamo meno di quanto vorremmo.
L’aggettivo “digitale” aumenta l’urgenza di fare chiarezza. La rappresentazione delle tecnologie digitali, soprattutto dal Web 2.0 in poi, è imbibita di retorica della cooperazione e questo, se possibile, ha aumentato la confusione. La possibilità di “vedere” quello che c’è dietro l’interfaccia e di scegliere davvero con libertà gli strumenti e i modi di usarli è un tema sempre più urgente di educazione civile e di alfabetizzazione tout court. L’orientamento verso il nuovo è un carattere che fin dalle origini condiziona sia il discorso sull’educazione moderna sia quello sulla rivoluzione digitale; il risultato di questa doppia suggestione pesa non solo sul senso comune dei professionisti dell’educazione, molti dei quali sono stati abituati a considerare la qualità “innovativa” di qualsiasi scelta come un valore in sé, ma anche sul discorso più esperto circa le tecnologie digitali in educazione. Lo si è visto con il trionfo quasi incontrastato delle grandi piattaforme commerciali al tempo della didattica a distanza, che è sembrato aver fatto terra bruciata di anni di studio e di pratiche. Come ha ricordato un numero primaverile de “Gli Asini” (Liberi o proprietari: educarsi hacker, 99, 2022), la scuola vive un doppio scacco sia come pubblica amministrazione, in quanto tale impegnata per la sua parte a orientarsi sul software libero a tutela del pubblico interesse, sia come luogo educativo chiamato a prendere posizione rispetto a questioni di alfabetizzazione digitale e di educazione mediale complicate oggi dalle ricadute concrete del “capitalismo di sorveglianza” (Zuboff, 2019) nella vita di studenti, insegnanti e altri attori coinvolti in un drenaggio di informazioni di cui si ha meno consapevolezza di quanta ne servirebbe.
Prospettive analitiche e riflessione sulle pratiche
Ad apertura della sezione Primopiano Roberto Maragliano torna su alcune questioni aperte o, meglio, svelate con più evidenza dalla pandemia che riguardano le nostre resistenze a “vedere” forme di elaborazione e trasmissione culturale che eccedono dai canoni scolari ma sono già davanti ai nostri occhi, vivono indipendentemente dal nostro riconoscimento. Laura Parigi racconta le esperienze di scrittura collettiva scaturite dal laboratorio on line Spaesi. Un atlante di geografia fantastica, che ha coinvolto con i loro alunni più di settanta insegnanti nel primo anno della crisi sanitaria. Si tratta di un’iniziativa dell’Indire, così come quelle analizzate dai due contributi successivi: del progetto pilota Classi in rete scrivono Jose Mangione, Michelle Pieri e Massimo Faggioli, che hanno visto in opera un modello nato a servizio delle scuole presenti in luoghi isolati o in spopolamento e in grado di offrire un’esperienza on line ricca di possibilità di generare e scambiare sapere fra classi distanti fra loro. Mentre Patrizia Lotti e Lorenza Orlandini, esplorando in particolare due casi studio, si chiedono in che modo le esperienze di Service-Learning si siano adattate al trasferimento delle attività scolastiche sulla rete e abbiano messo a frutto i caratteri specifici della proposta in ambienti digitali.
La critica del libro di testo è una delle questioni chiave su cui nel tempo si è misurata la soggettività professionale di chi insegna: il libro è già in sé tecnologia didattica rispetto alla quale prendere posizione, uno degli aspetti che più caratterizza la scolarizzazione come fenomeno moderno è questo oggetto stampato su carta, uguale per tutti e in grado di incorporare testi composti o scelti e manipolati per insegnare qualcosa, immagini da mostrare, istruzioni di lavoro. L’approccio cooperativo alla creazione e allo scambio dei materiali di cui si rende merito al movimento Freinet nasce anche da una resistenza a questa standardizzazione. Tornare a riflettere sull’editoria scolastica è tanto più urgente di fronte alla moltiplicazione delle opportunità di lettura praticabili e alla divaricazione e stratificazione dei consumi culturali, e quindi delle possibilità di vigilanza critica degli stessi insegnanti. L’agenda politico educativa intensifica paradossi come quello dei contenuti di educazione civica, indagato da Francesco Pigozzo e Daniela Martinelli che hanno letto per noi un campione di testi scolastici riflettendo sulle contraddizioni di incitamenti alle virtù democratiche impartiti spesso con sottotesti e forme autoritarie. A metà del dossier, Paolo Bonafede fa dialogare fra loro quattro libri recenti che, da punti di vista diversi, mettono in discussione i nostri modi abituali di guardare il digitale.
La documentazione delle pratiche in aula ha una particolare rilevanza per il tema di questo Primopiano: Martino Sacchi racconta l’esperienza maturata per prove ed errori nell’autoproduzione in una classe di secondaria superiore di materiale didattico con Il filo di Arianna mentre Gabriele Recchia segue i fili che legano alle tecniche Freinet un’esperienza di web radio condotta in primaria. Da un contesto di scuola in ospedale Erica Volta e Serafino Carli documentano un laboratorio di produzione audiovisiva in stop motion. Orazio Condorelli, drammaturgo, e Mauro Maugeri, documentarista, riprendono tre esperienze in remoto di pratica cinematografica con gli smartphone dei partecipanti per interrogarsi sulla congruenza fra la posizione che l’esperto sceglie di assumere in situazione formativa e le scelte tecniche che hanno funzionato o meno.
Cooperazione e tecnologie didattiche a monte del digitale
Stupisce – è una delle domande che hanno guidato la progettazione di questo numero – il fatto che la riflessione sul digitale a scuola non abbia più ampiamente presente l’eredità delle tecniche didattiche coltivate in Italia dal Movimento di cooperazione educativa di cui pure si torna a parlare anche per via di tre anniversari consecutivi: settant’anni dalla fondazione della Cooperativa della tipografia a scuola nel 1951, cento dalla nascita di Mario Lodi (1922) e l’anno prossimo di Bruno Ciari (2023). Proprio da Le nuove tecniche didattiche, uno dei libri più noti di Ciari, viene la citazione di copertina. L’idea di mettere alla prova la cooperazione educativa, così come tematizzata dalla tradizione Freinet, come chiave per capire meglio il nostro interagire su ambienti digitali discende da due ipotesi. La prima è che per dissipare le nebbie stagnanti attorno al digitale a scuola può giovare uno sguardo di lungo periodo che smonti un pregiudizio radicato nel senso comune: non esiste una scuola “tradizionale” immune dalla tecnologia. Sia perché la storia anche remota della scuola è radicata nell’evoluzione delle tecnologie della scrittura. Sia perché la stessa didattica ha preso forma attorno alla necessità di risolvere problemi legati alle sue condizioni materiali e agli artefatti concepiti per facilitare l’insegnamento e la pratica della scrittura, del calcolo, delle attività scolastiche in senso ampio. E anche in contesti predigitali è stato possibile cogliere queste scelte tecnologiche come occasione per chiamare la scuola fuori dallo scolastico: nel riconoscere rilevanza a contenuti, oggetti di interesse e linguaggi non canonizzati, nel mettere praticamente in discussione il confine fra il dentro e il fuori dell’aula, nell’orientare la formalizzazione degli apprendimenti verso possibilità di scambio reali e sensate. La riflessione procedurale attorno ad alcune specifiche tecniche e tecnologie didattiche, come la tipografia a scuola, ha consentito di toccare diversi nodi: il rapporto fra la qualità democratica della convivenza a scuola e le sue condizioni organizzative; la congruenza fra valori enunciati, contenuti scelti e processi di selezione, elaborazione e scambio delle informazioni; i conflitti fra cultura scolare, cultura popolare e cultura di massa che questi percorsi possono far emergere; la posta in gioco politica del cooperare fra insegnanti sulle pratiche. La storia di questi gruppi di insegnanti non è stata una vicenda lineare e senza contrasti ma può ancora offrire molto a una riflessione sui modi possibili di abitare gli ambienti digitali, anche attenta ai risvolti iatrogeni della loro frequentazione a fin di apprendimento scolare.
In questo numero, inoltre
Per questa scelta di prospettiva, che si legge in controluce attraverso riferimenti più o meno diretti nei contributi che compongono il Primopiano, ci è parso utile accompagnare l’uscita del numero 11 con la pubblicazione sul Blog di una riflessione di Martino Sacchi su alcuni nodi relativi alla didattica a distanza e poi di cinque interviste di Margherita Dolce a Sonia Sorgato, Elisa Amato, Gabriele Recchia, Gilda Terranova e Federica Lucchesini, che all’incontro con il Mce hanno ricondotto alcuni aspetti chiave delle loro biografie professionali. Nella stessa sezione Blog Gaia Colombo ha raccontato un laboratorio tenuto a Palermo da Roberto Papetti, in primavera, con i bambini di una scuola primaria. Antonio Vigilante è intervenuto in aprile nella riflessione sui compiti della scuola di fronte all’invasione dell’Ucraina (La guerra e la scuola) e a giugno su Liberare la scuola dalla valutazione.
Nella sezione Esperienze e studi Carola Susani racconta quel che fanno a scuola i Piccoli maestri, associazione di scrittori e scrittrici che da undici anni leggono nelle classi libri cui sono legati; anche in questo caso si vedono risuonare punti di vista terzi rispetto all’aula, con una conversazione sulle fonti pedagogiche implicite o esplicite di alcuni di loro. Angelo Miramonti e Karla Millán Gil documentano una pratica di drammaterapia in contesto psichiatrico mentre Claudia Paganoni propone uno studio sui Bachilleratos Populares nell’ambito dell’educazione popolare in Argentina.