Più ganci, più ponti. A colloquio con Gilda Terranova | More hooks, more bridges. A conversation with Gilda Terranova

Gilda Terranova

Gilda Terranova è nata e vive a Palermo. Si laurea in Lettere moderne con una tesi in sociologia dell’educazione sul rapporto tra volontariato e istituzioni nel quartiere Albergheria di Palermo. Nel 1994 vince una borsa di studio in Francia che le consente di fare uno stage in una biblioteca scolastica. Nel 1999 fa un’esperienza a Caracas in una scuola biculturale, primaria. È insegnante da dieci anni presso una scuola secondaria di primo grado; prima è stata insegnante alla scuola dell’infanzia, ludotecaria, libraia e animatrice sociale. Ha scritto articoli su riviste che si occupano di cultura, scuola e società. Dal 2020 fa parte del MCE e della redazione di “Cooperazione educativa”.

Uno dei tuoi principali interessi sono i libri per ragazzi; è una passione che scopri a Parigi, mi raccontavi.

Nel 1997 ho vinto una borsa di perfezionamento all’estero presso l’Università di Catania. Grazie alla borsa, ho potuto frequentare i corsi di Sciences du jeu presso l’Université de Paris 13, a Villetaneuse. Nell’ambito di questo percorso di studi era previsto anche uno stage di due mesi presso una biblioteca scolastica nel diciassettesimo arrondissement, zona Arts et Métiers. 

A Parigi era in vigore già da qualche anno il piano Paris-Lecture, che prevedeva un raccordo con le scuole ed esisteva un albo di figure professionali riconosciute come bibliotecarie scolastiche nell’ambito dei Centre de loisirs delle singole scuole. Tramite la mia tutor di tirocinio Laura, conosciuta alla Librairie Vendredi di rue des Martyrs, di proprietà di sua madre e per me punto di riferimento parigino, ho avuto modo di conoscere intanto il panorama editoriale francese e di approcciarmi ad albi meravigliosi che non si vedevano in Italia e anche di sperimentarli grazie alla lettura ad alta voce coi bambini più piccoli. La scuola era in un quartiere facente parte della ZEP, “zona di educazione prioritaria”, concetto che noi abbiamo mutuato in “area a rischio", definizione italiana che non mi è mai piaciuta. Era frequentata da molti bambini di famiglie turche di seconda generazione con problemi sociali di vario tipo e la biblioteca restava una zona franca, con una figura appositamente formata a lavorare in un contesto educativo difficile e che, quando era necessario, faceva anche attività di recupero scolastico individualizzato. Durante i mercoledì, giorno in cui i bambini francesi frequentavano il centre de loisir, con proposte varie sia ludiche che creative e sportive (sempre in piscina con il bus, e a Parigi ce n’era una ogni 200 metri!) ma non di tipo scolastico, era sempre prevista un’ora di racconto e una di lettura individuale e prestito dei libri. Qui scopro la mia passione alla letteratura per l’infanzia.

Hai avuto poi altre esperienze di sistemi scolastici diversi da quello italiano.

Nel 1999 ho insegnato pochi mesi a Caracas come docente d’italiano in due prime elementari. Era una scuola paritaria a regime misto e, tra le private, non cara come quelle gestite da ordini religiosi. Questo faceva sì che ad iscriversi fossero non tanto bambini realmente interessati ad un percorso biculturale ma in fuga da scuole pubbliche che funzionavano molto male, con docenti malpagati e che si assentavano spesso perché, per poter vivere dignitosamente, erano costretti a fare un doppio, talora un triplo lavoro. Questo generava una motivazione ad imparare l’italiano piuttosto bassa, sia in loro che nelle loro famiglie, tranne alcuni casi di bambini con nonni italiani che, invece, investivano in questo tipo d’istruzione sognando di rientrare in Italia. Inoltre c’era una grossa sperequazione dal punto di vista degli stipendi dei docenti italiani e di quelli venezuelani, che avevano un atteggiamento molto prevenuto e anche diffidente nei nostri confronti. 

La cosa sorprendente per me era l’arretratezza del loro sistema scolastico: la mattina il bambino più piccolo della scuola faceva l’alza-bandiera al centro del cortile e seguivano tre inni tutti rigorosamente cantati da docenti e alunni, con tanto di mano sul cuore. Oltre ai due inni nazionali, s’intonava anche l’inno della scuola. Anche i metodi erano molto mnemonici e poca la collaborazione tra i docenti di uno stesso modulo. Nonostante la direttrice fosse una persona illuminata non riusciva a far in modo che i docenti soprattutto formatisi in Venezuela, seguissero la sua visione.  

Come hai conosciuto il Movimento?

Mia madre insegnava scienze e matematica presso la scuola media Archimede di via del Fervore; aveva frequentato il centro educativo di Mirto, fondato da Danilo Dolci, ed era iscritta al MCE da tanto tempo. È stata determinante per introdurmi alla corrispondenza: è stato un modo per conoscere ragazzi di altre parti d’Italia che facevano la stessa cosa in altre scuole di altre città come Chieti, Milano, Roma e con loro seguire il percorso di formazione Scuole Verdi a Cenci rivolto a giovani universitari o ragazzi agli ultimi anni di scuola. Seguivamo a distanza il lavoro di padre Vilson Groh a Florianopólis, in Brasile. La metodologia era quella della corrispondenza scolastica, per cui nelle classi che seguivo c’era molta attesa per la posta che arrivava dal Brasile, perché ogni ragazzino aveva il suo amico di penna a cui mandava testi, disegni e esperienze significative.

Sono rimasta in contatto dagli anni universitari con il gruppo della Casa laboratorio di Cenci e soprattutto con Anna Maria Matricardi e Franco Lorenzoni; ho iniziato per un anno delle collaborazioni e da due anni sono nella redazione della rivista. Il lavoro in “Cooperazione educativa” è un lavoro di autoformazione proprio perché è un lavoro di scrittura collettiva, sia come revisione che redazione.

Far parte del Movimento significa, per me, intanto uscire dall’isolamento del vivere in Sicilia: io ho sentito sempre moltissimo questa dimensione come un po’ asfittica e quindi avere un respiro nazionale e sapere che cosa accade negli altri territori per me è importante. Significa scambiare e confrontare pratiche: da poco per altro è nato un gruppo nazionale di scuola secondaria del MCE. Qui c’è un gruppo palermitano, coordinato da Maura Tripi e Giuseppe Rizzuto, con il quale abbiamo avuto occasione di collaborare perché lui è stato il nostro mediatore per un progetto con la comunità cinese. Fare parte del movimento, significa creare ponti sui lati di confine, significa costruire una narrazione collettiva sulla scuola. “Cooperazione educativa” è uno strumento del movimento, in più ha il vantaggio di essere dentro al movimento ma di avere anche una sua autonomia.

C’è una forte componente di impegno culturale, di ricerca, in questo modo di vedere la scuola.

Se c’è una cosa bella di questo mestiere è la possibilità di studiare, di sperimentare, di non accontentarsi, di capire in base alle persone che hai davanti, che cosa serve fare e che cos’è più utile fare, per crescere. In un rapporto circolare, la ricerca e la didattica sono il filo rosso del patto educativo. C’è bisogno di un sentire comune, di uno scambio di idee e pratiche comuni che non a caso è alla base dell’operatività del movimento. È un sentire osmotico con e tra le persone, nel territorio, riconosciuto come orizzonte di senso comune.

È anche una questione di curiosità, che poi porta a cogliere le opportunità che si presentano. Per esempio, l’anno scorso abbiamo fatto un’esperienza di scrittura collettiva molto interessante grazie ad un’esca che ci ha lanciato Bruno Tognolini, poeta e rimatore il quale, alla conclusione di un progetto che si chiama Un mare di storie, ha proposto un’attività di scrittura a partire dal ventiseiesimo canto dell’inferno e quindi dalle “colonnine d’Ercole”. Con i ragazzi della mia prima dell’anno scorso, abbiamo fatto un lavoro sulle colonnine d’Ercole come confine e come margine. Ne è venuto fuori un testo collettivo che poi Bruno Tognolini ha raccolto e letto in occasione della sua lectio a Ravenna, durante i festeggiamenti per il settecentenario dantesco. Quella per esempio è stata un’esperienza interessante perché, nel caso di due ragazzine che faticavano molto a scrivere, avendo ascoltato la lettura dei testi di tutti, si sono agganciate, hanno cominciato a scrivere sentendosi gratificate e riconosciute. Chi proviene da contesti deprivati ha la possibilità aprire un canale espressivo in cui potersi riconoscere e potere riconoscere. Questo è un potente strumento di inclusività che, come insegnanti, possiamo utilizzare.

Come ti piacerebbe che fosse la scuola di domani?

La scuola di domani, per quanto riguarda la scuola media deve andare contro la frammentazione; alla frammentazione del curricolo, corrisponde la frammentazione della personalità dei ragazzi: si dovrebbe “lavorare su dieci cose bene, tutti insieme”. La struttura organizzativa dei programmi della scuola media, per quanto le Indicazioni nazionali siano chiare, è ancora ben lontana da questo pensiero. Le Indicazioni nazionali dovrebbero essere più “viventi”; ci dovrebbe essere un maggiore accordo tra tutti i cicli di istruzione. Per esempio, per quanto riguarda i ragazzini con cittadinanza non italiana, il biennio alla scuola superiore è un nodo fragilissimo. Una maggiore attenzione alle classi ponte, come la prima media, è molto importante per motivare, per appassionare. Sarebbe bello pensare a dei percorsi di raccordo, sia verso il basso che verso l’alto, cioè una continuità vera in cui nessuno verrebbe lasciato fuori. La scuola di domani sarebbe così una scuola con più ganci e più ponti.

Questa serie di interviste raccolte e curate da Margherita Dolce accompagna sul blog l’uscita del numero 11 di “Educazione aperta”, con una sezione Primopiano sul tema Quale cooperazione digitale? Si tratta di educatrici ed educatori che hanno avuto occasione di riflettere in profondità sul rapporto fra cooperazione e tecnologia. Oggi nel linguaggio comune si tende a usare la parola “tecnologia” con riferimento alle sole tecnologie digitali ma questa abitudine aumenta la confusione, facendo dimenticare che fin dalle origini della scuola ogni didattica è chiamata a prendere posizione sulle sue condizioni tecnologiche. Questa riflessione è stata arricchita, nell’esperienza dei cinque insegnanti intervistati, dall’incontro con il Movimento di cooperazione educativa. Il MCE fa parte del movimento internazionale che si ispira alla pedagogia di Célestin Freinet ed è stato ed è al centro di due anniversari consecutivi: nel 2021 i settant’anni dalla fondazione, nel 2022 il centenario di Mario Lodi che ne è probabilmente il nome più conosciuto. Nella storia della pedagogia e della scuola italiana non c’è stata una riflessione collettiva più specifica di quella del MCE sul rapporto fra la qualità delle relazioni fra alunni e insegnanti, le dimensioni materiali e organizzative delle procedure che danno corpo al lavoro scolastico e la possibilità di orientarle in senso democratico.

Margherita Dolce, nata a Palermo nel 1988, si laurea a Palermo come Educatrice della prima infanzia e poi in Scienze della formazione continua. Oggi sta per conseguire la laurea in Scienze della formazione primaria alla LUMSA. Lavora prima come pedagogista presso una comunità per minori stranieri non accompagnati, poi dal 2015, come educatrice presso le scuole dell’Infanzia della cooperativa Pueri di Palermo.