Piccola storia della fatica | A short history of fatigue
DOI: 10.5281/zenodo.8156169 | PDF | Educazione Aperta 13/2023
Il muro della fatica
La fatica ha, negli altri esseri viventi, la funzione di un segnale prepotente.
Ce la faccio, non ce la faccio. La risposta è semplicemente on/off. Per questo nelle società animali ognuno sta al posto che gli ha riservato la natura e nulla cambia nel rapporto tra i vari componenti della specie o in quello con la natura. Le società animali sono stabili, le loro regole non possono cambiare.
Oltre la fatica
Gli esseri umani hanno percepito la fatica come una sfida che ha esaltato la loro intelligenza; così l’hanno trasformata nell’opportunità di cercare un modo più facile di raggiungere lo stesso risultato.
Ed ecco il futuro
La rivoluzione agro alimentare, per esempio, che ha fatto percepire anche il futuro, sul quale si può investire organizzando la forza, allenandola, posticipando la fruizione del risultato. Migliorare significa essere disposti a cambiare. Dedicare una parte del proprio tempo a riflettere, studiare, provare. Allenarsi per migliorarsi. Ma anche imparare a rinviare la soddisfazione dei propri bisogni. Vendere il presente per il futuro. Con il crescere dell’intensità del segnale di fatica noi avvertiamo sensazioni diverse che ci pongono domande. Domande che richiedono risposte. Un rapporto dinamico con il tempo, con la ricerca di soluzioni.
Si può fare, ma a quali costi?
L’approccio scientifico ha ridato valore al sistema di percezione azione che permette di restare sensibili ai segnali di arresto, ma senza tornare a un comportamento on/off. In questo modo abbiamo imparato che possiamo spostare i segnali di arresto di quel poco che consente al soggetto di non sentirsi maltrattato e, soprattutto, di non maltrattarsi.
Il primo passo che ci permette di rinunciare alla forza, quando è una manifestazione del potere. Il lavoro imposto dall’uso del potere continua a fare della fatica uno strumento utile e a provocare i danni dello stress del sistema.
Per il potere è importante solo l’obiettivo che si propone di raggiungere. Non importa a quale costo, non importa con quanta fatica.
Potremmo dire che la fatica è la misura del potere. Il potere non ascolta, non considera la fatica come un segnale. La considera un mezzo. Un valore. Così che possiamo immaginare un legame tra fatica e cultura del potere.
1 faccio, facile
2 ce la faccio; abbastanza facile
3 ce la posso fare, sforzo
4 non ce la posso fare, ma provo lo stesso sforzo al massimo
5 rinuncio fatica insostenibile
La facilità: riduzione delle dispersioni legate al conflitto e al modello educativo
La scienza non accetta l’imperativo: “è così e non può essere altrimenti”. Si crea così una dialettica, per ora conflittuale, tra conservatori-educatori-adulti e innovatori-scienziati-bambini. Potemmo dire tra chi sa e chi non sa e può sperimentare modelli diversi da chi già sa. I conservatori si oppongono ai cambiamenti, gli innovatori li propongono.
Il luogo decisivo dello scontro è l’educazione nella quale i conservatori non esitano a usare la forza, per passare il loro modo di vedere e di leggere la vita. Sul piano relazionale questo approccio viene percepito dagli innovatori come una ingiustizia, un maltrattamento: una perdita di energia.
Fidarsi, una opportunità da utilizzare
La fatica, della quale si lamentano anche i conservatori, è direttamente proporzionale al una cattiva relazione. Una cattiva relazione produce dosi, da quelle minime a quelle tossiche, di maltrattamento.
Accettare questa osservazione rappresenta il primo passo verso relazioni collaborative che funzionano meglio delle relazioni up/down.
La relazione In effetti l’approccio scientifico, del luogo per eccellenza dell’oggettività, propone una modalità affettiva, che cerca di ridurre resistenze e attriti, dando valore alla relazione e ai segnali di arresto, di riflessione, di ricerca.
L’approccio scientifico, nel caso della sua applicazione alla performance umana, può non considera l’uomo come un motore, passivo, dal quale trarre, a qualsiasi costo, l’energia necessaria. La scienza è abituata a studiare un oggetto. Questo atteggiamento non può essere applicato all’uomo: in questo caso l’oggetto è un soggetto.
La relazione
La relazione, impostata sul modello scientifico, ricerca il modo più funzionale, basato appunto sul sistema percezione azione, attraverso la fiducia, il rispetto e l’ascolto, sostituendo la forza con il dialogo, l’intelligenza e la certezza che una alternativa è possibile.
Nella ricerca scientifica della riduzione della fatica, i segnali di arresto devono essere presi in considerazione.
Nel tentativo di migliorare possono essere superati di quel poco che consente al soggetto di non sentirsi maltrattato e, soprattutto, di non maltrattarsi.
Questa modalità potrebbe essere la base per un nuovo modo di progettare l’allenamento o la cura.
Il primo passo di un percorso che potrà portare a relazioni migliori non solo con l’energia di cui abbiamo bisogno, ma anche con l’idea che quando la forza viene percepita come maltrattamento, diventa una manifestazione del potere, che penalizza e deteriora le relazioni con se stessi e tra uomini e obiettivi che desiderano raggiungere.
La relazione va considerata come un ecosistema
Escludere la forza dalla relazione tra persone e tra le persone e il loro obiettivo, ha come risultato la diminuzione del disordine del sistema.
Il conflitto deve essere considerato come un segnale di arresto, che se rimane inascoltato, produce la massima dispersione dell’energia.
Il conflitto aumenta l’entropia e può essere la misura della fatica. Non siamo macchine che non tengono conto degli aspetti relazionali.
L’educazione non adotta il modello scientifico
L’esperienza dell’educazione ci fa sperimentare il conflitto come uno strumento necessario a trasmettere informazioni. In questo modo ci abituiamo a pensare che il conflitto, il maltrattamento, e di conseguenza la dispersione dell’energia nella relazione è inevitabile. Addirittura indispensabile. La gerarchia, che obbliga a crescere contro e mai insieme, trascura i costi relazionali, sia interni che esterni, e sostiene che l’obiettivo possa essere raggiunto soprattutto penalizzando la relazione.
Ancora una volta potremmo dire che la fatica è inversamente proporzionale alla qualità della relazione, aumentando con l’attrito relazionale.
L’educazione, lo stampo relazionale che portiamo con noi stessi per gran parte della vita, ci abitua all’idea che la fatica sia inevitabile. Anzi, che possa essere considerata un valore.
La fatica di stare con noi stessi di essere noi stessi
Questo genera un aspetto originale nella biologia degli esseri viventi: la fatica nella relazione con noi stessi, cioè l’apprendimento della possibilità di essere insensibili ai nostri segnali di arresto.
Sappiamo che in natura non esiste, per nessun animale, la possibilità di maltrattare se stesso.
Fino ad ora abbiamo dovuto imparare che la cultura, l’intelligenza hanno un costo relazionale: maltrattarsi.
Qualcuno ce l’ha fatto sperimentare e noi abbiamo imparato. Non esisteva alternativa e ancora molti pensano che non esista.
Poi l’allenamento: un’altra novità
C’è un’occasione nella quale il sistema funziona meglio lavorando a un riequilibrio tra forza e fatica, tra troppa tensione e poca tensione: l’allenamento, la riabilitazione.
Una buona relazione, un rapporto tra pari e senza dispersione in conflitti, permette di raggiungere risultati migliori a minor prezzo. L’educazione, e l’allenamento o la riabilitazione come forma di educazione, pretende ancora la inevitabilità del fare fatica.
In questo modo viene insegnato, lasciato un segno, una cicatrice, che ricorda che nessun obiettivo è raggiungibile senza accettare di fare fatica. Andare oltre, ottenere un risultato migliore richiede di fare fatica.
Ma la fatica può essere considerata come un maltrattamento? Se sì possiamo introdurre una differenza tra l’impegno, che non prevede l’obbligo di trattarsi male, e fatica.
Fatica: valore o segnale?
Se la fatica viene proposta come mezzo, o come un valore, smette di avere la sua funzione di segnale.
E’ come se una spia che si accende in una macchina non venisse presa in considerazione, anzi accolta come un segno di buon funzionamento.
Senza fatica diciamo che non si può raggiungere nessun obiettivo. Così lasciamo inalterata l’idea che il modo di stare insieme sia up/down, cioè gerarchico.
Apprezziamo il risultato qualunque sia il costo relazionale che viene speso per raggiungerlo.
Con i risultati che osserviamo ogni giorno: usura delle relazioni, creazione di danni nella relazione interiore, deterioramento del sistema che ci ospita e anche del sistema motorio.
Se il segnale non viene preso in considerazione, e non riesce ad evocare una risposta adeguata, si amplifica. Il volume aumenta fino a che il segnale non diventa prepotente.
Questo può succedere ogni volta che non siamo in grado di dargli una risposta. Soprattutto se la risposta dipende dall’esterno. Ad esempio la sete in mancanza d’acqua. O la fame in mancanza di cibo.
Oppure dipende da noi se siamo stati allenati, o educati, a procrastinare la risposta.
Dorando Petri: un esempio
Nel caso di Dorando Petri, il famoso maratoneta, e di molti di noi, il segnale non è stato ascoltato fino a trasformarsi nell’accumulo di metaboliti che hanno impedito di continuare l’azione. La fatica torna ad essere un segnale on/off. Dorando si spenge a pochi metri dal traguardo.
Occorre tenere conto che noi non siamo solo macchine termodinamiche.
Abbiamo una risposta da dare anche alla fatica psicologica, che misura molto bene il maltrattamento.
Quando gli adattamenti (appresi e allenati) al maltrattamento superano una certa soglia assistiamo a una ribellione e a una paralisi del sistema.
La mancanza di ascolto protratta paralizza il sistema.
Un aspetto di cui occorre tenere conto nella ricerca di un risultato è la fatica relazionale.
Una relazione conflittuale è origine di una grande fatica, che occorrerebbe trovare il modo di misurare.
La molteplicità di una relazione a due
Parlando in particolare di allenamento o di terapia riabilitativa, dobbiamo ricordare che la fatica nelle relazioni a due si divide in tre relazioni.
La relazione tra me e te, poi la relazione fra me e me e infine nella relazione fra te e te.
Le relazioni interne sono obbligate (non possiamo prendere la distanza da noi stessi) e condizionate da un apprendimento conflittuale il cui oggetto era il controllo della libertà e della capacità di proporre alternative.
La relazione tra due estranei, accumunati dalla ricerca dell’obiettivo, non è obbligata. E’ l’occasione per mettere in discussione la matrice educativa relazionale per sostituirla con un sistema che ha a cuore la ricerca della riduzione della fatica e quindi prevede una ridiscussione delle regole che generano fatica. Questo la può rendere più efficiente.
Nell’allenamento e nella terapia occorre tenere in considerazione questa triade relazionale, e lavorare per ridurre le fatiche interne proponendo una relazione con fatica decrescente, molto apprezzata da chi si allena o si prende cura di se stesso. Attraverso la relazione con l’allenatore, o il terapeuta, che rinuncia al modello gerarchico educativo è meno faticoso ottenere tutto quello che l’attrito educativo non può ottenere.
Resilienza come cambiamento di stato e di modo
L’esperienza e la curiosità ci suggeriscono, fin da piccoli, di allenarci a non pagare costi in termini di fatica.
Se prendiamo in considerazione anche i costi relazionali, aumentiamo la nostra capacità di ridurre ulteriormente la fatica.
La generosità, una possibilità da non trascurare
Questo prevede una possibilità che non dobbiamo sottovalutare: la generosità.
La generosità non fa parte di sistemi meccanici, ma di modelli relazionali. La generosità permette di attingere a patrimoni di energia, ma anche all’intelligenza affettiva che aggiunge possibilità e sottrae conflitti.
Occorre mettere l’accento su come un sistema reagisce ai cambiamenti, sia a quelli desiderati che a quelli indesiderati.
Per i cambiamenti che possiamo prevedere si può lavorare a mettere da parte una maggiore quantità di energia e a ridurre le dispersioni.
Dobbiamo anche prendere in considerazione le dispersioni interne al sistema, la relazione con sé stessi, che non sono sempre prevedibili.
Oltre alla generosità il sistema ha bisogno di fiducia nel rispetto delle proprie sensazioni.
Generosità e fiducia giovano alla realizzazione di qualsiasi progetto.
L’energia è preziosa. Il che significa che è necessario produrla a bassi costi. Poi trovare come e dove immagazzinarla. Infine evitare o ridurre lo spreco. Questo apre una considerazione sulla relazione con noi stessi.
Continuare a star bene con noi stessi, anche quando ci richiediamo un impegno
A noi è stato richiesto un durissimo allenamento (il rapporto educativo) per convincerci a pensare che l’obiettivo è sempre più importante della relazione con se stesso.
Il fine giustifica i mezzi, con tutti i drammi che ha creato.
È possibile invece che siano i mezzi a determinare la qualità dei fini.
Mezzi forzosi peggiorano la qualità della vita e delle relazioni, creando attriti che rappresentano rifiuti che non possono essere riciclati e che danneggiano l’intelligenza affettiva che è in grado di scegliere il modo meno faticoso di raggiungere l’obiettivo desiderato.
L’introduzione del concetto di resilienza
La ricerca di un equilibrio tra troppa tensione e poca energia è il risultato della riduzione della forza e del conflitto.
Noi sappiamo che non esiste un modello perfetto, neanche in assenza di soggettività, come in una macchina.
In ogni caso non tutta l’energia si trasforma in azione (in conseguenza dei costi di trasmissione e, per quello che abbiamo osservato, dei costi relazionali).
L’allenamento, la terapia, non è una forma di educazione con tutte le criticità della educazione, nella quale si rafforza il rapporto gerarchico e asimmetrico tra allenatore e atleta o tra terapeuta e paziente, che genera più fatica di quanta sarebbe necessaria. L’allenamento è una ricerca nella quale tutti devono avere un ruolo paritario. Tutti hanno diritto a essere presi in considerazione.
Competenze diverse sul piano del sapere non giustificano l’uso della forza
Occorre essere consapevoli che una situazione di non parità di competenze, ovvia perché l’allenatore ne sa di più dell’atleta, può convincere l’allenatore, o il terapista, che tutto quello che deve fare l’atleta, o il paziente, sia stare ad ascoltarlo.
Ammesso che il sistema dia buoni risultati possiamo pensare che ne darebbe dei migliori se il tecnico non creasse un attrito con l’altro e dell’altro con se stesso.
I segnali di arresto non possono essere considerati un fastidio o una resistenza, ed essere trascurati, perché fanno parte dell’efficienza del sistema, segnalandone le dispersioni.
Gli attriti spesso si trasformano in conflitti, fino alla paralisi del sistema.
Obiettivi e relazioni: una nuova alleanza
Se proviamo a immaginare di descrivere vettorialmente il rapporto tra obiettivo e il rispetto dei segnali generati dentro l’atleta o il paziente, possiamo pensare che i due vettori determinino un angolo relazionale.
Ovvio che la somma vettoriale, quindi la disponibilità di energia, sarà tanto più grande quanto più è piccolo l’angolo e più precoce la risposta.
Possiamo immaginare che l’angolo sia tanto più piccolo quanto più grande è la libertà, la fiducia, la collaborazione e la generosità con la quale affrontiamo la situazione.
La semplicità non è mai un punto di partenza, ma il risultato di una ricerca, di una cultura, di un allenamento. Di una collaborazione: insieme sempre, contro mai.
Se possiamo dire che un equilibrio nel quale la tensione non sia alta o non sia bassa determina una maggiore resilienza, possiamo anche dire che su questo interviene anche la relazione istantanea con se stesso.
Si può pensare di condizionare anche questa relazione (training mentale), ma questo può rappresentare un ulteriore costo relazionale (diminuzione della libertà).
Il costo relazionale non viene messo a bilancio, fino a quando non si manifesta con danni al sistema motivazionale, e probabilmente al sistema motorio.
Il training prevede che esista uno stato emotivo preferibile a un altro. Ovvero che sia meglio non essere come sei, ma come qualcuno pensa che sia meglio che tu sia.
Così suggerisce di indirizzare l’energia al raggiungimento di uno determinato stato mentale, senza considerare che anche questo può essere un focolaio di conflitto.
Il conflitto è la misura della fatica, e quindi della dispersione di energia. Non è mai utile
La massima efficienza del sistema, e quindi la massima resilienza, si raggiunge solo se non apriamo angoli relazionali con i nostri segnali di arresto.
Fondamentale quindi è scegliere di proteggere la relazione e poi di raggiungere l’obiettivo.
Infatti se l’obiettivo viene raggiunto grazie a un deterioramento della relazione questo alimenta una sfiducia, un’altra forma di dispersione dell’energia.
Se si raggiunge il successo, i costi relazionali, la fatica, vanno in secondo piano, ma non escono dalla memoria relazionale.
Nel caso invece in cui l’obiettivo non venga raggiunto, il deterioramento della relazione diventa una memoria che non permette di accordarsi su un altro risultato.
Quando questo succede nella relazione interna, alla fatica si aggiunge la sofferenza. Può riaffacciarsi il modello automatico on/off.
Il maltrattamento è un enorme costo
Quanto più il sistema è elastico, libero, aperto ai cambiamenti e disponibile a tener conto dei segnali per migliorare la relazione, tanto migliore è il risultato.
Per ottenere questo risultato è necessario non manomettere il sistema di percezione azione, che va invece migliorato. La relazione con una persona più competente deve lavorare in questo modo.
In questo modello la ricerca del risultato ascolta il presente, si ferma, cerca di rispondere ai segnali, per evitare di gettare un’ombra sul futuro alimentando gli attriti e i conflitti.
Foto di Anna Samoylova su Unsplash