Piccola archeologia personale | A little personal archaeology

Ricostruire la propria storia richiede la pazienza e gli strumenti dell’archeologo. Non un’analisi guidata dall’esterno.

In questo modo si può intraprendere un viaggio nella memoria per recuperare frammenti preziosi che testimoniano la vita che abbiamo vissuto e, soprattutto, come l’abbiamo vissuta. Con quali stati d’animo.

Tracce che permettono di capire come abbiamo costruito la nostra cultura, il nostro approccio alla vita, alle relazioni.

Come siamo diventati quello che siamo e quali sono stati i bivi nei quali abbiamo preferito continuare a essere come volevano che fossimo, rifiutando come un rischio la possibilità di essere come volevamo provare a essere.

Molti elementi importanti sono ricoperti dalla polvere del tempo, dalla costruzione di immagini e personaggi ai quali abbiamo dovuto sacrificare la nostra libertà.

La libertà, ad esempio, di non fare conflitti con noi stessi.

Abbiamo cominciato a vivere pensando che la felicità fosse la facile conseguenza della parola insieme.

Ecco: stare insieme.

Un progetto per l’oggi e il domani che ha bisogno di rivisitare l’ieri.

Ricostruire come siamo diventati adulti. La storia che conosciamo solo noi.

Nessun adulto ha voluto o saputo raccontarci cosa era successo a lui, dentro di lui. E quanto gli era costato crescere.

L’oggi è il frutto di un’esperienza vissuta, senza alternative, per molti anni.

Per far contenti gli adulti occorreva affrettarsi a crescere, a diventare grandi.

Più grandi noi, più liberi loro.

L’accudimento non doveva durare troppo a lungo. Cioè più a lungo di quanto gli adulti ritenevano indispensabile.

Quindi grandi lodi a ogni passo fatto nella direzione di una maggiore capacità di fare, e stare, da soli.

Qualche disappunto, o rimprovero, o punizione, ogni volta che manifestavamo bisogni diversi, che finivano per essere etichettati come capricci.

Lacrime da una parte. Rabbia dall’altra.

Senso di aver subito un’ingiustizia da una parte, certezza di aver fatto la scelta giusta dall’altra.

Un grande impegno speso nella costruzione della memoria che un certo modo di crescere è premiato, mentre la ricerca di altre possibilità non è gradita.

Da bambini non siamo mai padroni di organizzare il nostro tempo.

E soprattutto dobbiamo adattarci a raggiungere i risultati attesi, nel tempo previsto, anche a costo di qualche sofferenza o maltrattamento. L’alternativa è interpretata come resistenza e comporta la rottura dell’instabile patto che garantisce lo stare insieme.

Gli adulti sono abituati ad attribuire la rottura di questa alleanza ai bambini.

Il loro stare contro viene proposto come un modo necessario per affrettare la crescita.

Non fare il bambino, ci siamo sentiti dire, e ancora sentiamo dire di chi dimostra un eccessivo bisogno di attenzione, o fa fatica a rispettare le regole e le aspettative degli altri, che non vuole proprio crescere.

Riassumendo, abbiamo interiorizzato che adulto è meglio.

Se diventare adulti è costato spesso sofferenza, occorre farsene una ragione. Considerarlo normale. Non ci sono scelte.

I bambini non sono tanto d’accordo, e danno molti segnali di malessere. Ma per loro tutto passa e poi, si sa, sono dei bambini.

Un giorno dopo l’altro, le possibilità si riducono. Veniamo giudicati più o meno maturi su quel metro.

Poi arriva la sensazione di aver concluso l’apprendistato, cioè la certezza di non fare più parte del gruppo sociale debole, i più piccoli.

Certo proviamo una grande nostalgia per quel tempo e anche questo contribuisce a dimenticare i momenti difficili.

L’importante è il risultato, non il come. Il fine non i mezzi.

Alla fine possiamo essere contenti: siamo stati accolti a pieno diritto nell’esclusivo club degli adulti.

Le bambine un po’ meno. Si sa.

Crescono prima. Sono più controllate. La loro indipendenza è molto temuta. Guai se provano a ribellarsi. Non possono contare sulla stessa tolleranza di cui godono i maschi.

Il modello della loro crescita prevede che diventino adulte, ma accettando un residuo di infanzia: per loro è previsto una adultità minore.

Possono essere adulte con i bambini, ma il loro ruolo è socialmente condizionato dal potere che imparano a riconoscere ai maschi. Anche in modo subliminale.

Questo avvicinamento all’età adulta è fatto di tappe progressive, un traguardo dopo l’altro.

Una specie di giro ciclistico.

E la scuola la fa da protagonista. Massimo rigore, nessun scivolone nel buonismo. L’affetto e le buone relazioni messe all’angolo. Solo la severità e il merito garantiscono una adeguata preparazione.

La scuola rappresenta un bel distanziamento dalla via della affettività: tanto è vero che solo in pochi ci vanno volentieri.

Finisce il corso di studi. Alcuni riescono a descrive perfettamente il momento del loro successo. Finalmente adulto, tutto quello che eravamo o volevamo da bambini alle spalle. E’ fatta.

Abbiamo raggiunto una maggiore indipendenza. Certamente una presa di distanza da una situazione di minore considerazione, presenza, ascolto, dalla quale tutto il sistema sociale spingeva perché ci allontanassimo.

Noi siamo diventati noi. Loro continuano a essere loro. Mai considerati come pari. Non minorenni, ma minori.

Fino all’ultimo traguardo siamo stati quello che ci hanno permesso, o imposto, di essere. Qualcuno si è anche fatto male ed è uscito dal gioco.

La maggior parte di noi è diventata quello che ha imparato a imporsi di essere.

Le informazioni relazionali che abbiamo acquisito limitano la libertà di essere in un altro modo. Semplicemente di pensare che sarebbe stato meglio crescere senza tanti conflitti. Diventare adulti significa accettare il conflitto come modello educativo, di più, come modalità di stare in relazione.

Abbiamo imparato a metterci nel ruolo di controllori di noi stessi.

Alcuni si pongono una domanda.

Siamo diventati gli adulti che desideravamo essere?

O siamo diventati proprio come quegli adulti che non volevamo essere, quelli che non ci piacevano perché pensavano che la sofferenza e il conflitto fossero inevitabili nelle relazioni di apprendimento?

Questo è il punto centrale.

Magari la domanda ci viene in mente perché ci siamo accorti che spesso abbiamo adottato quei comportamenti che consideravamo ingiusti o che ci facevano sentire incompresi, maltrattati solo qualche anno prima, quando eravamo costretti nella parte debole di una relazione. Comportamenti che non prevedevano alternative, e che si miscelavano con quella espressione tremenda: lo facciamo per il vostro bene.

Come è successo?

Cosa ha creato un solco così profondo tra la condizione di bambino e quella di adulto?

Io penso alla memoria affettiva.

La crescita ha riempito la memoria di comportamenti maltrattanti che abbiamo assorbito come schemi e che riemergono alla prima difficoltà.

Non vorremmo urlare con i ragazzi, non vorremmo punirli, vorremmo restare insieme a loro, immedesimarci con loro, crescere insieme a loro, ma non abbiamo la memoria o le esperienze che ci ricordino come realizzarlo.

Vorremmo trattare bene la nostra compagna, il nostro compagno. Vorremmo vederlo o vederla felice. Vorremmo che si sentisse compresa e che le differenze non diventassero un’occasione di esercizio di potere. Ma riusciamo a pensare che lo faremo solo a condizione che…..

Le situazioni che pensavamo di vivere con affetto si trasformano in conflitti così che cediamo alla tentazione e alla memoria che ci fa scegliere di ottenere con la forza quello che ha un valore solo restando insieme.

La relazione si porta nella memoria modelli punitivi, minacce, aspettative, pretese. Impazienza, irritazione. La memoria che un obiettivo ha più valore della relazione e che cosa vuoi che possa succedere se uso la forza. Così la forza si trasforma in fatica e le relazioni diventano pesi spesso insopportabili. Come mai continuiamo a fare fatica?

Perché abbiamo imparato che la fatica ha un valore che viene premiato.

Per sentire la fatica come un segnale, e non più come un valore, dovremmo costruire un’altra cultura, ma la memoria fornisce solo il materiale che la nostra storia ci ha consegnato.

In più sembra non accettare altre informazioni, non riesce a trattenerle.

Così diventa faticoso trovare un modo meno faticoso di stare insieme.

Più facile utilizzare sempre gli stessi automatismi, quelli già provati e approvati.

Chi, o cosa, continua a governare la nostra vita senza tenere conto di noi, dei nostri bisogni, progetti, che vengono definiti utopia quando si discostano dal modello in cui viviamo?

Come possiamo pensare di realizzare il nostro desiderio di essere amati, di non essere maltrattat e di non maltrattare, ricorrendo alla solita forza?

Non avevamo l’impressione che tutto fosse così difficile quando eravamo ragazzi.

Le difficoltà erano limitate al fuori, ai genitori, agli insegnanti, alle autorità. A una visione gerarchica che ci schiacciava alla sola possibilità di adattarci.

Cosa è successo che ci ha fatto diventare come coloro che criticavamo, contestavamo?

Eppure pensavamo al tempo come una possibilità. All’amore come una possibilità. Al gioco come una possibilità. Alla libertà come possibilità.

Ci hanno convinto, l’alternativa non esisteva. O con loro o contro di loro.

Loro conoscevano la strada. Un po’ per volta abbiamo cominciato a pensare come loro.

Quelli più chiari raccontavano del perché avevano ragione.

Tutta la storia, tutta la cultura, dimostrava che il conflitto era indispensabile a ridurre la conflittualità innata persino nei bambini piccolissimi.

Oggi penso che questo ragionamento potrebbe spingere i pompieri a usare una sostanza incendiaria per spegnere un incendio.

Invece l’antidoto al conflitto è la cultura.

La scelta di quale tipo di cultura alimentare. Una cultura che pensa tutti come pari. Che non fa ricorso a un razzismo ben mascherato: io tratto male te perché tu sei inferiore a me. Perché non capisci. Non impari. Ti ribelli. Ti fai male. Perché io so quello che tu non sai.

Quello che il bambino porta di nuovo nella relazione non contribuisce a migliorarla, a metterla sui binari del benessere di tutti.

La sofferenza che noi procuriamo a loro non scalfisce le nostre sicurezze di adulti.

I bambini nascono come ascoltatori. Si fidano di noi. Sono soggetti relazionali. Assorbono tutto quello che vivono e sono capaci di immaginare, solo per un brevissimo periodo della vita, che la felicità sia l’assenza di conflitto.

Senza nessuna punizione, senza nessuna minaccia. Senza imporre, senza obbligare a fare fatica.

Certo per far crescere un uomo o una donna non conflittuali occorre non dare loro esempi di conflitti, che sono senza via d’uscita perché vengono imposti in relazioni obbligate.

Per questo ho immaginato e continuo a lavorare alla costruzione della cultura della democrazia affettiva.

Ma, da adulti, come si fa a creare e memorizzare nuove esperienze, se la memoria affettiva è stata riempita di tanti no, di maltrattamenti percepiti da una parte e sottovalutati dall’altra?

Per potere entrare in questa memoria, così importante per fornire materiale adatto a stare insieme e non contro, occorre riuscire a fare spazio a nuove possibilità.

Nuove possibilità che di solito siamo i primi a squalificare. Ci diciamo che tanto la vita è così e cambiare non serve.

Per entrare nella memoria affettiva, piena di no, occorre usare una password che ci permetta di fare esperienze gentili e quindi di fare spazio per un nuovo modo di pensare.

La password è molto facile da ricordare: è Sì.

Generosità, sì,

Gentilezza, sì.

Possibilità, sì.

Insieme, sì.

Sono i sì che ci consentono di ricominciare a imparare e a recuperare una possibilità affettiva per le relazioni.

 

Foto di sarandy westfall su Unsplash