Per una pedagogia perturbabile. Un approccio critico alla povertà educativa | For a perturbable pedagogy. A critical approach to educational poverty

DOI: 10.5281/zenodo.8150421 | PDF | Educazione Aperta 13/2023

Multidimensional poverty, including educational poverty, has fully entered into the collective discourse promoted by educational policies, school system, no profit organisations and university. This widespread diffusion has influenced the epistemology of poverty, but a non-shared definition and an open debate on measurement remain. Furthermore, the concept implies benefits and potentials, but also risks and limits.

The paper provides an integration to the concept, presenting examples taken from a field research focused on municipal ECE services (0-3 years children) in Sicily. Through a critical approach to poverty, the exploration of micro-contexts defined as "educationally poor" and the analysis of counter-narratives, many transformative processes emerge: they concern the families and communities that live in the neighbourhood where ECE services are open and functioning - inexistent or closed; educational practitioners working in educational services; the political and institutional actors who influence, with choices and visions, not only the provision to public services, but also the pedagogical identity of educational services; finally, the researcher herself, who adopts a critical approach and a committed scientific research practice.

Keywords: Educational poverty; ECE services; critical approach; counter-narratives; militant pedagogical research.


Premessa

A distanza di quasi dieci anni dalla pubblicazione di La lampada di Aladino (Save the Children, 2014), che per la prima volta presentò un Indice della Povertà Educativa (IPE)[1], ad oggi “la povertà educativa non ha una definizione condivisa a livello scientifico ed è di difficile misurazione anche perché nel sistema statistico italiano manca un riferimento teorico condiviso” (Moroni, Curti e Fornari, 2022, p.94). Il termine è stato assorbito dal discorso politico, così come da quello accademico[2] e scolastico, nonché dal mondo professionale del Terzo settore e dei diversi Istituti e Fondazioni bancarie[3], promosso a priorità di intervento e investimento, ma anche aspramente criticato come “un modello che non vuole cambiare la scuola perché ha compreso che può prosperare proprio sui limiti della scuola stessa” (Missaglia, 2022), evidenziandone le derive retoriche e i rischi che alimenta[4].

In quanto costruita su parametri di misurazione multidimensionali, la povertà educativa non fa riferimento esclusivamente alla scuola, ma si rifà ad una visione pedagogica, di affermata matrice borghese, secondo cui i poveri, gli indigenti ricevono la migliore educazione e istruzione non solo se hanno accesso a servizi educativi 0-6, alla mensa e al tempo pieno, ma anche se assistono agli spettacoli teatrali, se visitano siti archeologici e se praticano almeno uno sport in modo continuativo (cfr. Lareau, 2011).

Questa visione pedagogica – in cui chi scrive, peraltro, rientra a pieno titolo, ma concedendosi in certi momenti il beneficio del dubbio – può essere sostenuta o screditata, ma ciò che si intende evidenziare è che la ricerca educativa è chiamata ad impegnarsi nel costante evitamento di alcuni dei rischi che il concetto stesso porta con sé.

La tentazione contro cui si naviga è quella di “continuare a non dare riconoscimento agli individui sulla base della loro affiliazione” (Krumer-Nevo, 2020, p.123) - in questo caso, in quanto educativamente poveri. Il mancato riconoscimento può attuarsi, secondo Houston e Montgomery (2017), almeno in quattro modalità: l’invisibilizzazione, che si può esprimere con paternalismo e cooperazione di facciata; la razionalizzazione strumentale, quando ci si concentra sul raggiungere obiettivi predefiniti nel modo più rapido e con efficacia di costi, alimentando gli strumenti della scelta razionale (burocrazia, tecnologia, economia); la reificazione, che ignora il mondo soggettivo delle persone e oggettiva i loro comportamenti, le loro caratteristiche entro protocolli e parametri; l’autorealizzazione organizzata, entro cui le persone individuate come bisognose vengono costrette ad intraprendere un percorso di automiglioramento o realizzazione personale, senza volontà o consapevolezza.

Questi rischi, ripresi dal lavoro di Honneth (2001), entro cui rientrano ulteriori modalità di mancato riconoscimento, rilanciano la necessità di costruire uno sguardo sulla povertà - di cui quella educativa costituisce un epifenomeno - come realtà altamente complessa e culturalmente densa di implicazioni. Alla luce di quanto detto finora, l’interpretazione della povertà educativa, dall’altro lato, può fare affidamento su alcuni antidoti utili a contrastare i suddetti rischi e tentazioni: innanzitutto, deve necessariamente essere pensata e analizzata a partire dai territori, perché ritenerla di esclusivo dominio della scuola risulta riduttivo e fuorviante, visto che della scuola, peraltro, solo alcune dimensioni e caratteristiche (la mensa, il tempo pieno, l’accesso ai servizi 0-6, i tassi di dispersione scolastica) ne determinano le percentuali e le stime.

In secondo luogo, persiste uno scarto tra una povertà educativa che, in una prospettiva multidimensionale e sulla base del capability approach promosso da Amartya Sen e Martha Nussbaum, guarda “alla qualità della vita e alle libertà sostanziali, anziché solo a reddito e ricchezza” (Sen, 2000, p.30), al benessere dei singoli e non alla ricchezza pro capite come orizzonte, e un’interpretazione del concetto che valorizza una diretta correlazione tra ragioni economiciste e istruzione, in riferimento alla teoria del capitale umano (Schultz, 1961; 1963). In questa teoria si radica l’equazione di James Heckman (2013), che riprende i benefici economici a lungo termine in seguito ad un investimento sull’educazione e sull’istruzione della prima infanzia, ampliando lo spettro delle abilità da perseguire alle non cognitive skills. Entrambe le teorie vengono erroneamente accomunate o sovrapposte, perché basate entrambe sulle capacità. In realtà, concepiscono le capabilities in modo differente (Nussbaum, 2012, pp.181-187) ed elaborano uno sguardo specifico sull’educazione e la prima infanzia (Deneulin e Shahani, 2009)[5].

Il presente contributo intende portare un’ulteriore integrazione del concetto di povertà educativa, investigando le storie che si rintracciano in un territorio, parlano di persone molto diverse, che vivono vite divergenti anche all’interno dello stesso quartiere, che implicano mobilità fisiche o virtuali, secondo una pedagogia che esplora le periferie e i margini non come “zone franche di non significazione, o di errore assoluto” (Gramigna e Righetti, 2001, p.89), bensì come luoghi in cui è scientificamente necessario recuperare e raccogliere contro-narrazioni[6], rintracciare e farsi carico dei processi storici e sociali che hanno attraversato i microcontesti, per partire da questi elementi al fine di ricostruire i paradigmi, e di conseguenza la visione e i discorsi sulla povertà.

Le dimensioni di una ricerca

La ricerca in corso, ai cui risultati parziali fa riferimento questo articolo, è incentrata sui servizi educativi pubblici 0-3 nei comuni di Palermo e Catania, entrambi situati in Sicilia, una regione del Sud Italia definita povera, nei suoi aspetti multidimensionali: povertà sociale, economica, culturale, educativa.

La ricerca prevede tre dimensioni:

  1. la dimensione normativa fa riferimento ai modelli pedagogici della prima infanzia italiani, alle leggi nazionali e regionali in materia di educazione della prima infanzia con particolare attenzione alla normativa più recente, ai dati quantitativi nazionali, regionali e locali, raccolti da diverse fonti, sulla base di specifici parametri;
  2. la dimensione interpretativa è finalizzata a indagare le trasformazioni storiche locali dei servizi pubblici 0-3 nei comuni di Palermo e Catania, analizzando le narrazioni di focus group con educatrici e interviste orali che hanno coinvolto anche diverse figure istituzionali e professionali, intrecciandole con fonti scritte locali, archivi, pubblicazioni, documenti istituzionali e atti di Convegno;
  3. l’ultima dimensione è quella critica, che ispira l’approccio dell’intera ricerca, il lavoro sul campo e la successiva analisi, nonché il mio coinvolgimento come ricercatrice. La dimensione critica si basa su un lavoro sul campo impegnato a individuare nelle contro-narrazioni possibilità di azione costruttive, che contribuiscano alla trasformazione dei servizi educativi per la prima infanzia a Palermo e Catania.

La dimensione normativa

Se guardiamo alla dimensione normativa, possiamo trovare standard, aspetti qualitativi, leggi prescrittive, nonché le teorie generali e i dati quantitativi che li convalidano. I dati quantitativi confermano che nei Comuni di Palermo e Catania si riscontrano almeno due gravi carenze: la scarsa erogazione dei servizi pubblici 0-3 - come si nota in entrambe le città, e le basse richieste di iscrizione - come si nota nel Comune di Catania, in cui, ad esempio, nell’anno scolastico 2020/2021, i posti disponibili sono stati quasi il triplo rispetto alle richieste di iscrizione pervenute.

A.S. 2020/2021

 

Comune di Palermo

Comune di Catania

 

servizi educativi comunali

26

11

posti disponibili

870

312

richieste di iscrizione

1.371

128

popolazione 0-2

16.654

7.703

Fonti: Istat; Assessorato alla Scuola e Ufficio Statistica (Comune di Palermo); Assessorato ai Servizi Sociali (Comune di Catania).

La dimensione normativa comprende anche le leggi nazionali e regionali: in questo caso, ho preso in considerazione le più recenti leggi nazionali sul sistema integrato 0-6 (D.Lgs. 65/2017), le successive Linee pedagogiche e gli Orientamenti nazionali. In questi documenti ufficiali, il coordinamento pedagogico nei diversi territori locali è considerato una delle azioni strategiche più importanti per realizzare un sistema integrato 0-6. Con riferimento ai comuni di Palermo e Catania, non ci sono coordinatori pedagogici[7] e, dopo 5 anni dalla legge nazionale sul sistema integrato 0-6, solo a dicembre 2022 è stato costituito un gruppo di lavoro istituzionale regionale per il coordinamento pedagogico e la formazione in servizio.

Infine, se si considerano i modelli pedagogici, riferiti ad una dimensione nazionale, possiamo notare almeno due aspetti correlati alla questione affrontata, che riguardano i processi storici di sviluppo e trasformazione dei valori pedagogici accennati nella prima parte: da un lato, i paradigmi pedagogici 0-6 provengono esclusivamente dal Centro e Nord Italia; dall’altro lato, i servizi per la prima infanzia, in particolare per i bambini 0-3 anni, sono nati e si sono sviluppati come luoghi caritatevoli a sostegno di abitanti poveri e svantaggiati.

Se consideriamo tutti questi aspetti riferiti alla dimensione normativa, possiamo assolutamente affermare che i comuni di Palermo e Catania sono “educativamente poveri”. Siamo tutti d’accordo, ne siamo tutti consapevoli, occorre con urgenza scegliere i progetti educativi più efficaci, trovare i fondi più consistenti, stabilire istituzioni e politiche educative operative e risolutive.

La dimensione interpretativa

Se guardiamo alla dimensione interpretativa, ci concentriamo sugli stessi contesti locali, sugli stessi servizi educativi, sulle stesse educatrici e famiglie immersi e coinvolti in un processo storico multidimensionale. La lente storica e interpretativa offre l’opportunità di guardare alla comunità locale non composta da poveri problematici, invisibili, ignoranti, ma permette di trovare una pletora di storie locali, fatte di sperimentalismo democratico, self-empowerment comunitario intorno, dentro e fuori i servizi educativi pubblici 0-3. Il processo storico che ha portato alla costruzione dell’edificio, all’inaugurazione, alla chiusura e, in alcuni casi significativi, alla riapertura dei servizi educativi mostra la partecipazione attiva, competente e consapevole di interi quartieri urbani e il coinvolgimento di diversi attori sociali e politici. A guardare così da vicino, le dimensioni politiche, educative, sociali, economiche, culturali e pedagogiche non sono quasi più distinguibili e si alimentano reciprocamente in maniera costante. Riporto due esempi, ricostruiti attraverso l’intersezione di diverse fonti, orali e scritte, che esemplificano la complessità e la multidimensionalità dei processi storici e individuali delle storie di vita e professionali legate ai nidi comunali.

Chiusure e riaperture

Il quartiere di Danisinni ha una lunga strada unica e una grande piazza, dove non passano i mezzi pubblici. Se vivi a Palermo e non abiti nel quartiere Danisinni, è piuttosto facile che non ci andrai mai: non ci sono servizi pubblici, negozi o uffici. Pur non essendo periferico (dista 5 minuti a piedi dalla sede del Parlamento Siciliano), è isolato dal resto della città. Ed è uno dei quartieri più poveri di Palermo.

In questo quartiere c’è uno dei primi nidi pubblici della città. Fu costruito al centro della grande piazza, tra il 1958 e il 1960, grazie alla donazione dell’imprenditore teatrale Luigi Biondo. Fu inaugurato nel 1960 e donato all’O.N.M.I[8]. Dal 1977 è, infatti, gestito dal Comune. Nello stesso edificio c’erano il nido e un consultorio. È stato chiuso più volte: negli ultimi 62 anni è rimasto chiuso per 25 anni in totale.

Dalle storie di vita delle donne, raccolte da un’assistente sociale che ho intervistato nel mio lavoro sul campo, la chiusura più recente, nel 2007, è considerata - ancora adesso, dopo 15 anni - una ferita profonda, qualcosa di inaspettato, qualcosa di rubato, senza alcun motivo o spiegazioni. Il nido è stato temporaneamente chiuso per una perdita d’acqua. Ma non ha mai riaperto.

Nell’ultimo decennio c’è stato un complesso percorso di trasformazione a Danisinni. Pur non potendo condividere tutti gli aspetti del processo in questo contributo, ritengo rilevante che lo sforzo maggiore dell’impegno comunitario è stato concentrato, sin dall’inizio, sulla riapertura del nido, da anni intitolato a Giuliano e Lavinia Galante. Un gruppo di donne ha scritto una lettera pubblica, consegnata all’Assessore ai servizi sociali. A gennaio 2020 nasce l’ATS “Pa’ Maternità” (“Per la maternità”, dall’espressione dialettale usata per chiamare l’edificio). È stata fatta una raccolta fondi per ottenere un progetto tecnico per ristrutturare l’edificio (c’era infatti un fondo regionale per avviare i lavori edilizi, ma che non prevedeva fondi per il progetto tecnico obbligatorio). Infine, un piccolo gruppo di persone, composto da residenti, il responsabile di un centro aggregativo, il parroco del quartiere e un’assistente sociale, si è recato alla riunione del consiglio comunale durante la quale il progetto definitivo sarebbe stato approvato o bocciato. La loro presenza è stata efficace per vedere approvato il progetto: durante la stessa riunione, gli altri due progetti presentati per riaprire altri due nidi sono stati respinti. I lavori di ristrutturazione sono iniziati ufficialmente nel settembre 2022.

E proprio in questo momento, un gruppo di donne sta lavorando alla realizzazione di piastrelle di ceramica da posizionare sulle pareti del nido. Le frasi sono state scelte durante la lettura collettiva di alcuni capitoli del libro Tutto sull’amore di bell hooks. Un gesto che riflette una riappropriazione dal basso, iniziata ancor prima della riapertura istituzionale. A conferma del fatto che un cambiamento non può essere attivato dall’esterno, ma nemmeno si può cambiare solo dall’interno: ci vuole un’attivazione plurale, un concorrere di aspirazioni e di energie diverse, una volontà che si nutre di ruoli e responsabilità, ma anche di competenze e saperi eterogenei.

Aperture e spostamenti

La seconda esperienza che riporto è quella relativa ad una specifica formazione in servizio vissuta da educatori ed educatrici dei nidi e considerata dal 100% dei professionisti intervistati, in quel periodo in servizio a Palermo, come l’esperienza più significativa del loro sviluppo professionale. Questo secondo esempio che emerge dalla dimensione interpretativa mostra l’identità pedagogica e lo sviluppo professionale come un processo individuale e collettivo molto articolato, influenzato da diversi livelli, soggetti e fattori, con ricadute effettive nella quotidianità interna dei servizi.

Nella seconda metà degli anni ‘80, in seguito alla Primavera di Palermo, caratterizzata da diversi cambiamenti politici, una società civile attiva e un fiorente periodo culturale, l’educazione della prima infanzia fu individuata come uno dei simboli dell’amministrazione locale. Dal 1971, anno in cui è stata emanata la legge nazionale dei nidi, solo nel 1989 fu attivato il primo nido nel comune di Palermo (località Pallavicino). Nel 1989, per volontà dell’Assessore Marina Marconi, vennero inaugurati altri 11 nidi in pochi mesi. Ciò fu reso possibile perché l’intenzione politica colse come opportunità la presenza di numerosi edifici che erano abbandonati da anni, dopo un lungo periodo di costruzione, con molte sospensioni e ritardi, in cui la volontà era quella di contribuire all’espansione edilizia, ma non di offrire servizi pubblici.

Dal 1993 al 2000 venne rieletto sindaco Leoluca Orlando, leader politico della Primavera palermitana. Nel 1993 Alessandra Siragusa diventò Assessore alla Scuola e puntò il suo impegno non solo ad aprire nuovi nidi, ma anche ad emancipare i servizi 0-3 dalla loro esclusiva missione assistenziale, per considerarli, per la prima volta in quel contesto, servizi educativi a pieno titolo. La formazione professionale fu individuata come elemento chiave in questo processo. Tra il 1996 e il 1998 venne realizzato un gemellaggio tra Palermo e Pistoia. La progettazione di questo programma di sviluppo professionale si concentrò sull’apprendimento tra pari tra professionisti: nella prima fase, 6 visite di studio di una settimana con osservazione sul campo e laboratori tematici a Pistoia furono un’opportunità per le educatrici di Palermo di conoscere meglio l’identità pedagogica e le pratiche delle colleghe; nella seconda fase, una visita di studio di una settimana delle educatrici pistoiesi diventò un’altra effettiva e significativa opportunità di mutuo vantaggio: le educatrici di Pistoia presentarono e discussero la loro pratica con colleghe che lavoravano in un contesto molto diverso.

Inoltre, fino al 1999, Donatella Giovannini, che era la responsabile dei nidi di Pistoia, ha continuato a dare supporto pedagogico al personale educativo siciliano, con molte visite nei servizi di Palermo e molti incontri di supervisione.

Questa esperienza culminò nel 2000, quando si è tenuto a Palermo il Convegno Nazionale dell’Associazione Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia, fondata da Loris Malaguzzi nel 1980. Più di 1000 partecipanti provenivano da diverse regioni italiane.

Sebbene non totalmente condivisa, frammentaria e nutrita il più delle volte dalle educatrici, non coordinata dal punto di vista pedagogico, l’identità pedagogica dei nidi a Palermo è profondamente radicata in questo gemellaggio. Il suo valore non risiede solo in quell’avvenimento storico. Il percorso è stato come un sasso lanciato in uno stagno, le onde si muovono ancora. Quasi tutte le storie professionali raccolte sono caratterizzate dagli effetti trasformativi di questa formazione: alcune educatrici sono state mosse dalla necessità di avere una laurea, di avere la possibilità di riflettere, di conoscere le teorie sullo sviluppo del bambino o la didattica; alcune di loro hanno iniziato a viaggiare, visitando altri servizi educativi 0-6 in giro per l’Italia; alcune di loro hanno aderito all’associazione Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia, fino a formare un gruppo ufficiale regionale. Non solo. Il percorso delineato raccoglie la complessità del sapere professionale, che non è mai solo un sapere individuale, ma è radicato nelle aspettative e nelle prospettive del contesto sociale, nella visione politica emergente e nei mandati che, in questo caso, le professioniste dell’educazione ricevono e di cui sono investite. Un quadro altamente complesso, mai immobile, sempre parziale, denso da un punto di vista non solo pedagogico, ma anche storico e sociale. Una lente attraverso cui osservare il contesto e comprenderne categorie culturali e tratti di epistemologia sociale.

Per una pedagogia perturbabile

“I fondamenti e i metodi di una progettualità educativa pedagogicamente fondata, ancor più che in passato, rischiano di divenire ostaggio di una logica della pronta risoluzione e i saperi e le competenze pedagogiche di rimanere costretti entro paradigmi ad essi estranei.” (Tomarchio e Ulivieri, 2015, p.7). Nel lavoro di ricerca pedagogica, e non solo nell’ambito della pedagogia sociale, il carattere militante “è intrinseco, marca e contrassegna il versante delle prassi trasformative per sviluppare, ininterrottamente verificare e mettere a punto al proprio interno, un ordine di rapporti tra pensiero riflessivo e potere operativo” (Tomarchio, 2015, p.26). Così come è, o si intende dovrebbe essere, la professione educativa in toto.

La dimensione impegnata della ricerca esalta la possibilità di identificare diverse forme di vita, diverse storie locali, l’organizzazione di una pratica sperimentale collettiva dal basso e una moltitudine di prospettive. Nel dialogo tra dati e storie, tra misurazioni e memorie, così assimilabili nel loro essere imprecisi e parziali, senza possibilità di risoluzione definitiva, una ricerca critica e aperta può essere una chiave di lettura di accadimenti e cornici, di processi e prodotti.

Una narrazione conservatrice considera “le persone che vivono in povertà [...] come ‘danneggiate’. [...] Altri (ricercatori, N.d.A.) sostengono che l’attuale narrativa conservatrice è rappresentata da spiegazioni a livello individuale della povertà incentrate su: struttura familiare, dipendenza dal welfare e capitale umano” (Krumer-Nevo e Benjamin, 2010). Se il discorso dominante costruisce le diverse forme di marginalità esclusivamente nei termini della loro vulnerabilità (che siano poveri, abitanti dei Sud, bambini, lavoratori precari), l’equazione che richiama alle buone intenzioni e seduce nella sua semplicità è: “‘early intervention’ + ‘quality’ = increased ‘human capital’ + national success (or at least survival) in a cut-throat global economy. Invest early and invest smartly and we will all live happily ever after in a world of more of the same – only more so.” (Moss, 2014, p.3).

Quale tipo di paradigma pedagogico è plasmato da un discorso dominante come questo? Assume le sembianze di una pedagogia profetica e imperturbabile (Malaguzzi, 1996) che sa tutto in anticipo e non ha una sola incertezza, di una pedagogia del facile, dell’accessibile, del minimo sforzo (Bertin, 1969, p.15). Un discorso dominante, una narrazione conservatrice della povertà e una pedagogia imperturbabile sono profondamente interconnessi. Come ricercatrice, un profondo impegno è quello di sostare proprio nell’incertezza e nell’imprevedibilità del processo di ricerca stessa, mettendo in dubbio le categorie, cogliendone le sfumature, evitando ogni apriorismo. Nella pratica, risulta fondamentale situando sempre l’esperienza e la voce individuale all’interno sia dei contesti materiali e discorsivi, sia delle politiche e pratiche istituzionali (Krumer-Nevo e Benjamin, 2010).

Il discorso alternativo, così come emerge dalle esperienze riportate, parlano di una storia “di democrazia, sperimentazione e potenzialità” (Moss, 2014), presente in ogni città, periferia, scuola, isola, borgo. Senza dimenticare la necessità di una dimensione normativa, necessaria alla convivenza umana, è altrettanto importante fornire le condizioni necessarie per la diversità e la sperimentazione di idee, progetti e pratiche nei servizi stessi: dal riconoscimento di una costellazione di storie locali possono generarsi ulteriori immaginari e progettualità esistenziali, con persone che lavorano su una varietà di progetti ispirati da idee, desideri e circostanze diverse. Il paradigma del discorso può essere modificato quando “anziché parlare della necessità di cambiare le persone in povertà”, parafrasando ancora una volta l’analisi critica di Krumer-Nevo sugli operatori sociali, si parla “di vicinanza [...]. Suggerisco di parlare del nostro impegno e coinvolgimento, di attenzione e solidarietà” (op.cit., p. 76). Le stesse regole valgono anche per chi si impegna nella ricerca scientifica ed educativa.

Riferimenti bibliografici

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Note

[1]  L’Indice di Povertà Educativa (IPE) è stato aggiornato nel 2016 e nel 2018. Nella versione più recente, l’Indice si basa sugli Obiettivi Illuminiamo il Futuro, “che comprendono una serie di target temporali di breve (2020) e medio termine (2030), stabiliti su scala regionale, relativi alle competenze cognitive, la partecipazione ad attività ricreative e culturali, l’offerta educativa a scuola e lo svantaggio economico” (Save the Children, 2018, p.25) e si compone di dodici indicatori percentuali:

  • bambini tra 0 e 2 anni senza accesso ai servizi pubblici educativi per la prima infanzia;
  • classi della scuola primaria senza tempo pieno;
  • classi della scuola secondaria di primo grado senza tempo pieno;
  • alunni che non usufruiscono del servizio mensa;
  • dispersione scolastica;
  • minori tra 6 e 17 anni che non sono andati a teatro;
  • minori tra 6 e 17 anni che non hanno visitato musei o mostre;
  • minori tra 6 e 17 anni che non sono andati a concerti;
  • minori tra 6 e 17 anni che non hanno visitato monumenti o siti archeologici;
  • minori tra 6 e 17 anni che non praticano sport in modo continuativo;
  • minori tra 6 e 17 anni che non hanno letto libri;
  • minori tra 6 e 17 anni che non utilizzano internet.

[2]  Gli studi sulla povertà (poverty studies) sono da anni caratterizzati da un dibattito aperto sulla definizione e la misurazione della povertà (Tolomelli, Giustini, 2012, pp.17-51). Negli ultimi anni, in Italia sono state pubblicate diverse monografie in ambito pedagogico sulla povertà educativa (a titolo esemplificativo, Sottocorno, 2022; Scholé, 2020; Di Profio, 2020), e sono stati organizzati numerosi seminari e convegni sul tema.

[3]  L’impresa sociale Con i Bambini (https://www.conibambini.org/chi-siamo/), nata nel 2016 per attuare i programmi del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, si costituisce dall’alleanza di Fondazioni di origine bancaria, Terzo settore e Governo. Inoltre, singole Fondazioni o Istituti bancari (a titolo esemplificativo, Banca Etica, Intesa Sanpaolo, Unicredit) mettono a bando ulteriori Fondi volti espressamente al contrasto della povertà educativa.

[4]  Altri contributi in chiave critica sono Raimo, 2022; Raimo e Corsini, 2022.

[5]  Sugli stessi equivoci, ovvero esclusività della scuola come dimensione fisica e simbolica da prendere in considerazione e motivazione economica come unicuum concettuale della povertà educativa, si basano spesso sia coloro che sostengono la diffusione di questa categoria, sia coloro che la criticano.

[6] Sul concetto di contro-narrazione adottato nella ricerca, cfr. Krumer-Nevo e Benjamin, 2010. Le autrici individuano tre tipi di contro-narrazioni (strutturale/contestuale; di agency/resistenza; di voce e azione) che cercano di cambiare le rappresentazioni riduzioniste, ma portano in sé gli stessi rischi di Othering rispetto alle persone in povertà.

[7]  A Palermo e Catania un'educatrice in ciascun nido assume il ruolo di referente/coordinatrice, a Palermo esistono 3 Unità Didattiche Educative (U.D.E.) con Responsabili che si occupano di tutto ciò che compete l’organizzazione, l’amministrazione, la gestione dei servizi educativi 0-6 comunali. Entrambi i ruoli non rientrano nel profilo delineato dalla normativa nazionale.

[8] Opera Nazionale Maternità e Infanzia, l’ente parastatale 0-3 nato durante il governo fascista e soppresso nel 1975, che aveva l'obiettivo di contrastare gli alti tassi di mortalità infantile e sostenere le madri in povertà nelle cure dei figli al di sotto dei 3 anni.

L'autrice

Maura Tripi è attualmente dottoranda presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Catania. Fa parte del Movimento di Cooperazione Educativa da oltre 15 anni, fa parte della segreteria nazionale MCE, è delegata del gruppo Sicilia e membro del gruppo nazionale Zerosei. Nel 2008 ha co-fondato a Palermo il Centro educativo interculturale Casa officina (www.casaofficina.it), in cui si sperimentano le tecniche Freinet e l’educazione cooperativa con bambini, giovani e adulti. È membro della Comunità di ricerca della rivista “Educazione Aperta”. I suoi principali interessi di ricerca vertono sulla pedagogia dell’infanzia, sulla povertà educativa e sulla pedagogia interculturale.