Oltre le parole "insegnare", "educare" | Beyond the words "teaching", "educating"

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Non mi piace usare parole come insegnare ed educare. Perché le parole hanno una struttura mentale che le precede e dà loro sostanza.

E finché non si pensa diversamente è impossibile fare diversamente.

Insegnare: lasciare un segno.

Lasciare il nostro segno, senza il quale non siamo disposti a riconoscere ai bambini il diritto di appartenere al nostro gruppo.

Lo stesso vale per lo sforzo che hanno fatto le donne per essere accettate e non regolate, e ancora per chiunque abbia preferenze non accettate e addirittura combattute.

Il bambino è il diverso per eccellenza. Arriva in un mondo che non conosce e che invece pretende di conoscerlo. Non abbiamo ancora sviluppato l’idea che il modo migliore di conoscerci è farlo insieme.

La prima cosa che pensiamo sia indispensabile è insegnargli le nostre regole nel minor tempo possibile e soprattutto senza dargli la possibilità di capirle e sceglierle con tutta la calma necessaria. Lo facciamo perché non prenda dei vizi, che sono solo l’anticamera del suo desiderio di fare di noi degli schiavi. Se poi a casa non ci siamo riusciti, ci penserà la scuola.

Per questo motivo il percorso della sua crescita è segnato da limiti, rimproveri, punizioni (anche solo affettive: se non fai quello che dico sospendo il mio amore per te, ti faccio sentire solo, abbandonato).

Così gli imponiamo regole che lasciano il segno.

Quando si può o non si può, quando si deve o non si deve. Fare qualsiasi cosa dipende dal rapporto con un adulto, con le sue concessioni, in attesa che lui impari a fare la stessa cosa con sé stesso, magari con più severità e intransigenza.

Questo è il costo dell’identità di appartenenza: puoi stare con noi, sotto sorveglianza ovviamente, solo se ti comporti come ti abbiamo insegnato e se rispondi alla domanda chi sei con le parole che ti abbiamo suggerito.

È il marchio.

Talvolta qualcosa di molto visibile, fisicamente riconoscibile, come ad esempio la circoncisione; o, per quello che ci racconta la Bibbia, il sigillo che Dio imprime sulla fronte di Caino, certo per riconoscerlo e farlo riconoscere, ma anche per dirgli che gli appartiene.

Più spesso si tratta di un segno meno visibile, impresso nella memoria, che dice: non puoi essere diverso da quello che abbiamo deciso per te. Per lasciare questo segno, relazionale, ci vuole un tempo molto più lungo.

Ecco perché la parola insegnare, come modello di relazione con i bambini, ma anche tutte le volte che lo agiamo con gli adulti tra adulti, non mi piace.

Il messaggio che passa quel verbo è più o meno questo: come sei non mi piaci. Anche come ti comporti mi fa rabbia. Per esempio come guidi non mi piace e così via: ora ti insegno io come devi essere.

È un modo scortese di stare in relazione (lo sappiamo quando siamo colui chi riceve il rimprovero e la punizione), nel quale l’obiettivo (dare una lezione, anche una dura lezione) sacrifica la qualità della relazione.

Insegnare è un gesto unilaterale, perché non prevede il contributo che i bambini, le donne, coloro che hanno preferenze non uguali a quelle che vorremmo, possono dare alla ricerca di un modo più sereno di stare insieme, non inquinato dall’uso del potere.

La superiorità, nel caso non venga riconosciuta o contestata, giustifica e rende inevitabile il ricorso all’uso della forza, sia essa una umiliazione, una minaccia di punizione, o una punizione.

Nonostante tutte le prove contrarie, coloro che hanno qualsiasi forma di potere sono convinti che la società umana sia come tutte le altre società animali. Stabile perché governata da leggi e da ruoli immutabili.

Per questo temiamo i bambini, potrebbero voler cambiare il nostro mondo, il nostro modo di stare nel nostro mondo. Potrebbero accorgersi che il re è nudo.

Li abbiamo creati, è vero, ma abbiamo paura del loro rapporto con le regole: d’altra parte lo sappiamo che ci provano sempre a fare quello che vogliono loro.

Perché consideriamo loro (le donne e tutti gli altri che sono diversi) pericolosi per la nostra stabilità?

Perché vogliono essere amati e vogliono che questo amore li renda liberi di provare; vogliono contribuire e partecipare alla costruzione di una società che tenga conto anche dei loro bisogni relazionali. Non vogliono solo essere bravi perché sono diventati obbedienti.

Il guaio è che non ci fidiamo di loro.

Abbiamo paura che possano scoprire che il mondo potrebbe essere migliore, cioè più affettuoso, di quello che gli proponiamo come unico, invariabile.

Noi restiamo convinti che le regole servano a limitare i loro difetti. Questa è, in generale, la nostra idea sulle regole. Le regole servono a limitare la libertà, a essere piò ordinati e obbedienti.

Cosa potrebbe succedere se invece pensassimo che le regole possono essere pensate per facilitare la vita di tutti?

Da cosa si può capire quando una regola viene imposta attraverso l’insegnamento e quando la regola serve a rendere più facile la vita?

Dai segnali che riceviamo, dalla fatica che facciamo a non transigere mai, dalla lotta che facciamo seppure in uno scontro impari. Dalla fretta a voler raggiungere un risultato, magari anche buono, ma che avrebbe bisogno di tempo, pazienza, capacità di aspettare.

Loro hanno un senso della possibilità più grande del nostro. Apprendono qualsiasi cosa con una facilità che ci sorprende. Noi, attraverso le regole, siamo impegnati a ridurre il loro senso della possibilità, che cresce solo se coltivato nelle situazioni di affetto.

Non siamo disponibili a credere che possano imparare anche dall’esperienza e intendiamo passare solo la nostra conoscenza. Vogliamo che crescano lontani, sempre più lontani, dalla sorgente dell’affettività.

Meglio che loro imparino a temerci molto più di quanto noi temiamo loro.

Per questo, non per altro, dobbiamo lasciare su di loro un segno indelebile: dobbiamo insegnarli.

È diverso l’effetto della parola educazione?

Non lasciamo un segno, in questo caso, tiriamo fuori.

Educare, spieghiamo, è semplicemente tirare fuori.

Tirare fuori cosa? La loro libertà? No. La fiducia in sé stessi? La capacità di trattarsi bene? No e ancora no.

Vogliamo tirare fuori da loro quello che riteniamo coerente con le nostre scelte, scartando quello che non vogliamo o che ci sembra inutile, alle volte persino pericoloso.

Sui bambini, ma anche sulle donne, e su tutti quelli che hanno preferenze che disapproviamo, circolano notizie non rassicuranti: insomma hanno una cattiva fama. Devono avere dentro di loro qualcosa che non va.

Il bambino è diverso, o vorrebbe diventare diverso da noi: quindi è pericoloso.

Deve accettare quella dose minima di maltrattamento che è inevitabile, come del resto il conflitto, nel faticoso tentativo di farlo diventare grande.

Il prima possibile.

Ora sei grande, non devi, non puoi più piangere. Non puoi più protestare o difendere con quelli che noi definiamo capricci, tanto per togliere valore, squalificare la tua preferenza di essere trattato secondo i tuoi bisogni di affetto.

Possiamo dire che la partita la stiamo vincendo ogni volta cha anche lui si convincerà che grande è meglio di piccolo. Quindi che è bene smettere di fare il bambino.

Grande buono, bambino non buono.

I bambini, infatti, hanno troppa richiesta di presenza, di assistenza. Troppi bisogni di accudimento. Per noi è preferibile se fanno in fretta ad affrontare la vita da soli. Autonomi, capaci di darsi le stesse regole che abbiamo imposto loro.

Devono lasciare nel passato qualunque tentativo di esprimere le loro preferenze. Non hanno diritto ad avere preferenze, che fanno parte di un dialogo che permetta a loro, e a noi, di crescere insieme. Mai contro.

Le loro preferenze vengono considerate un attacco al potere, un tentativo di provocare la risposta adeguata che puntualmente arriva (a un brigante, un brigante e mezzo, diceva Sandro Pertini): quindi che altro possono fare gli adulti se non confermare che comandano loro e che loro dispongono della loro vita, qualunque sia il loro tentativo di provare a essere liberi?

È per questo che non credo a chi sostiene che educare vuol dire tirare fuori.

Educare non vuole dire aprire un varco, portare alla luce tutte le qualità, ma scegliere con fermezza quali sono quelle buone e quali, invece, sono quelle pericolose. Per noi.

Allora, se insegnare non è il modo più piacevole di stare insieme, ce ne accorgiamo quando qualcuno si dispone a farlo con noi.

Se educare significa mettersi nei panni del minatore (non dell’archeologo) che considera l’altro come una miniera nella quale cercare quello che gli serve, anche educare richiede dare colpi, usare la forza.

Se entrambi i verbi nascondono una gerarchia indiscutibile, quale verbo, quale azione può far nascere un nuovo tipo di relazione, dove la parità viene garantita, dove non viene giustificato mai nessun tipo di ricorso alla forza?

Provare insieme? Cercare insieme? Riflettere insieme? Dare una direzione affettiva alla ricerca?

Lavorare per il benessere di tutti? Fare in modo che la conoscenza non venga mai accresciuta a svantaggio della relazione?

Mi accorgo che non conosco un unico verbo che descriva il processo, forse perché nella mente condizionata, educata, questi concetti sono chiari, ma poi ammettono una gran quantità di deroghe.

Il mondo cambia quando il pensiero e la sua espressione cambiano, dicevo.

Possiamo immaginare le relazioni con i bambini, e con le donne e con tutti quelli che fanno una gran fatica per vedere riconosciute e rispettare le loro preferenze, come l’inizio di un nuovo mondo, che possiamo vivere momento su momento?

Probabilmente ci troviamo di fronte a un impegno grandissimo, addirittura più grande di tutti quelli che la nostra cultura ha realizzato.

Un modo che ci dà immediatamente la soddisfazione del sorriso di tutti, della serenità che deriva dalla consapevolezza che tutti stiamo cercando di creare un mondo meno violento, a conflittualità zero.

Il mondo dove possiamo realizzare una nuova utopia.

 

Renato Palma, medico, psicoterapeuta, vive e lavora a Firenze.