L’incontro tra educatori e operatori culturali: una sfida professionale in chiave trasformativa | The collaboration between educators and cultural experts: a professional challenge in a transformative key
DOI: 10.5281/zenodo.8154373 | PDF | Educazione Aperta 13/2023
The participatory action-research presented complements the socio-educational project Animare comunità, promoted by Ratatoj APS, in the territories of the Monviso valleys (province of Cuneo). In particular, I investigate the professional challenges for the educator working together with the cultural worker and the art language expert in an art-based educational intervention. The professional encounters, both in the design phase and in the implementation and evaluation phase of the interventions, brought out some critical elements, related to the different skills and cultural backgrounds, highlighting different implicit assumptions of each professional; at the same time, the collaboration between operators suggested positive aspects that mutually enriched the participants.
Keywords: art-based education; professional challenges; implicit knowledge; multi-professional teams; participatory action research.
Introduzione
La sostenibilità sociale, politica ed economica della nostra democrazia non può prescindere dalla capacità di ridare dignità ai territori alpini, creando le condizioni di fiducia per attivare un circolo virtuoso tra benessere individuale e di comunità, da un lato, e innovazione e sviluppo socio-economico, dall’altro lato, contrastando contemporaneamente la tentazione dell’auto-segregazione (Sacco, 2018). Dare valore e dare futuro a questi territori significa investire nelle nuove generazioni, ovvero nei futuri adulti e nella futura classe dirigente, affinché siano protagonisti di cambiamenti volti al benessere e al miglioramento sociale. Lavorare con i giovani e contemporaneamente nell’ottica dello sviluppo di comunità, al fine di offrire contesti ove possano fiorire e esprimersi pienamente le capacità combinate, presenta alcune sfide: nei territori delle aree del margine queste sfide si fanno più acute e ne emergono di nuove. se ciò viene realizzato con approcci art-based (art-based community education), questo evidenza sfide professionali inedite, che possono mettere in scacco oppure arricchire le professionalità educative.
Il progetto “Animare comunità”
La ricerca-azione si affianca al progetto socioeducativo Animare comunità, promosso da Ratatoj APS, sui territori delle valli del Monviso (provincia di Cuneo). Si è cercato di accompagnare un vero e proprio intervento educativo complesso, nelle valli alpine, a sostegno della capacità dei giovani di aspirare (Appadurai, 2004) e prefigurarsi “futuri possibili” (Pellegrino, 2019). L’intervento educativo, in questo caso, si fonda sulla commistione di animazione culturale e lavoro socioeducativo e cerca di mettere al centro il protagonismo dei giovani (Deluigi, 2010; Pollo, 2017): si inserisce all’interno del paradigma dello sviluppo di comunità. Ciò al fine di incoraggiare la co-costruzione e la co-progettazione di azioni, interventi e servizi, dando, così, spazio all’esercizio di una democrazia sostanziale (Cadei, Deluigi e Pourtois, 2016).
Tra le diverse azioni il progetto ha previsto dei laboratori artistico-educativi: i giovani coinvolti, insieme all’educatore di comunità e all’operatore culturale, si sono attivati in un percorso laboratoriale di partecipazione e protagonismo, lavorando direttamente nei territori utilizzando un linguaggio specifico (musica, cinema o teatro) scelto come strumento creativo indispensabile per rappresentare la realtà e i fenomeni sociali che ne fanno parte, comunicare stati d’animo e ridisegnare l’immaginario collettivo. Sono stati attivati quattro differenti laboratori: per ciascun laboratorio erano presenti due educatori, un operatore culturale e un esperto del linguaggio. Concretamente i laboratori artistico-educativi sono stati sviluppati in diversi contesti: in valle Po, un laboratorio teatrale strutturato in due brevi residenziali; in valle Varaita, un’attività legata alla produzione video e al linguaggio filmico strutturato in due incontri introduttivi e un residenziale; a Saluzzo due laboratori ispirati al linguaggio musicale, il primo di field recording e produzione audio e il secondo di realizzazione di podcast.
Dal punto di vista del quadro teorico-operativo il progetto si basa sul paradigma dell’animazione socio-educativa, su quello dello sviluppo di comunità e sui principi della community-based art education.
L’animazione socio-educativa
L’animazione socio-educativa può configurarsi come una metodologia basata sulla stretta relazione tra riflessione e azione, con espliciti intenti trasformativi personali e sociali (Deluigi, 2010). Essa si pone, quindi, come occasione non solo di risoluzione dei problemi, ma possiede una funzione strategica di accompagnamento nell’attivazione dei soggetti favorendo la costruzione delle identità soggettive e dei gruppi (Deluigi, 2010). In questa prospettiva, l’intervento animativo è educativo laddove è in grado di smarcarsi dalle ansie preventive, ovvero quando non si concentra solo sui bisogni dei soggetti, ma è in grado di porre l’attenzione sulla valorizzazione delle loro potenzialità inespresse; quando si discosta dalle logiche del puro intrattenimento, pur senza perdere la propria dimensione ludica; e infine, se pone l’enfasi non solo sulla dimensione relazionale, un generalizzato “stare bene insieme”, ma se è in grado di attivare l’agency dei soggetti coinvolti nelle proprie proposte (Floris, 2008). In questo modo, rappresenta un approccio capace di rivitalizzare e valorizzare le risorse presenti in un contesto territoriale al fine di promuovere l’attivazione dei cittadini (Pollo, 2017).
Lo sviluppo di comunità
La complessità del concetto di sviluppo di comunità è speculare alle difficoltà analitiche e di definizione che si riscontrano in letteratura (Bhattacharyya, 2004). Dal punto di vista delle politiche sociali, lo sviluppo di comunità è definito come “un processo in cui i membri della comunità si riuniscono per intraprendere azioni collettive e generare soluzioni a problemi comuni” (Frank, Smith, 1999, p. 3). Dal punto di vista di professionisti, è definita come una pratica che promuove la democrazia partecipativa, lo sviluppo sostenibile, le opportunità economiche, l’uguaglianza e la giustizia sociale. Per raggiungere questi obiettivi utilizza strategie diverse, come il community organizing, le pratiche educative dialogiche o di empowerment individuale e di comunità (Craig, Popple e Shaw, 2008). Entrambe le interpretazioni, sia quella centrata sulle politiche pubbliche sia quella più squisitamente operativa, tengono insieme gli aspetti politici, sociali e di ricerca. Se dal punto di vista analitico presenta indubbiamente dei vantaggi una definizione minimale fondata sulla solidarietà, sull’agire improntato all’auto-aiuto e alla partecipazione (Bhattacharyya, 2004), questa risulta povera di fronte alle pratiche professionali e alla varietà dei contesti e delle strategie che vengono messe in atto.
Lo sviluppo di comunità, quindi, è un approccio che promuove la costruzione di legami sociali all’interno di un determinato contesto territoriale, al fine di migliorare le condizioni economiche, sociali e culturali di una comunità (Twelvetrees, 2006). L’obiettivo è quello di costruire una comunità competente, in grado di sviluppare una capacità di lettura critica di sé, tale da riconoscere i propri bisogni e mobilitare risorse umane, economiche e politiche per soddisfarli (Caldarini, 2008). La ricostruzione dei legami sociali nei territori marginali è una strategia per contrastare lo spopolamento e l’impoverimento socio-economico, oltreché quello culturale e sociale, delle valli alpine. Grazie ad azioni di questo tipo è possibile sostenere lo sviluppo economico, sociale e culturale di questi territori, con il fine di renderli ospitali, attrattivi e inclusivi. Da questo punto di vista solo recuperando la capacità di analizzare criticamente se stessi, la propria comunità e i valori di riferimento è possibile per i territori marginali tesaurizzare le risorse umane e ambientali che li caratterizzano, contrastando dinamiche di chiusura identitaria e favorendo la qualità della vita delle persone che vi abitano.
La community-based art education
L’educazione artistica community-based è una proposta in cui l’educatore, esperto di linguaggio artistici, funge da facilitatore e mediatore tra gli educandi e la comunità in cui vivono (Ulbricht, 2009). Con l’espressione “arte basata sulla comunità” si intendono quelle opere d’arte prodotte da persone che vivono nella stessa località e definite da interessi comuni quali preoccupazioni condivise, eredità culturali, tradizioni e modelli linguistici (Adejumo, 2010). Il contenuto di queste pratiche educative artistiche è piuttosto variabile e dipende dal focus del programma; possono essere messe in atto diverse tipologie artistiche che includono le arti dello spettacolo (dalla musica alla danza e al teatro), le arti visive (scultura, disegno, pittura), la scrittura o le arti digitali (fotografia, film, ecc.). Anche i destinatari dei programmi sono vari: possono, infatti, comprendere giovani e persone a rischio, cittadini di un dato territorio, adulti e anziani, detenuti, persone senza fissa dimora, soggetti con disabilità, per fare solamente alcuni esempi maggiormente diffusi. Si tratta, inoltre, di pratiche educative che possono essere realizzate sia nei contesti formali, come le scuole, sia nei contesti dell’educazione non formale, come i musei o i centri artistici. In ogni caso, la dimensione dell’informalità educativa caratterizza i diversi progetti di educazione artistica community-based (Ulbricht, 2009), non tanto per l’assenza di intenzionalità e progettualità educativa o per la presenza di forme indebolite di queste caratteristiche fondamentali per ogni intervento educativo, quanto per la presenza di dinamiche relazionali differenti rispetto a quelle solitamente messe in atto nei contesti formali e non formali. Da questo punto di vista, non si può non riconoscere la valenza formativa dei contesti informali, caratterizzati da un livello e da una modalità differente di intenzionalità (Tramma, 2009; Mariani, 1997). Si tratta, cioè, di riconoscere il ruolo fondamentale che le relazioni tra pari possono ricoprire in chiave educativa: rappresentano occasioni per fare esperienze di emancipazione, di accettazione e di protezione (Nosari, 2020).
Gli interventi educativi artistici community-based hanno una dimensione formativa che si esplicita su diversi livelli e in diverse aree della crescita umana. Dal punto di vista cognitivo, considerato che attraverso l’apprendimento attivo gli educandi imparano di più se si impegnano attivamente con il materiale rispetto alla semplice memorizzazione, l’approccio community-based all’educazione artistica favorisce lo sviluppo del pensiero critico e le abilità connesse al problem solving (Ortiz, 2013). La forte dimensione relazionale e sociale, che solitamente è coinvolta in queste attività, stimola la dimensione della responsabilità civica, connotando tali interventi nella direzione della community care (Davis, 2010).
Le domande di ricerca: una sfida professionale
L’incontro tra professionisti dell’educazione e professionisti dei settori culturali e artistici rappresenta un’occasione di ricerca interessante. Il ricercatore nel progetto aveva il mandato di elaborare un modello di intervento socioculturale in contrasto alla povertà educativa nei territori alpini e di implementare strategie valutative di processo (empowerment evaluation) e condurre una valutazione di impatto dell’intervento. Le prime due domande di ricerca, quindi, erano:
- Come è possibile attivare l’impegno giovanile e la partecipazione comunitaria?
- Qual è il ruolo dell’educatore nell’innescare processi di sviluppo di comunità in un approccio art-based?
- Poiché il progetto socioeducativo era di natura sperimentale, si è pensato insieme al committente e ai partner di progetto di offrire spazi ove fosse possibile sperimentare alternative e nuove prospettive d’azione (Fabbri, Bracci e Romano, 2021). Non a caso, nel corso dei dodici mesi di progetto (giugno 2021-maggio 2022) è emerso, insieme al committente, al referente delle politiche giovanili territoriali del Consorzio socioassistenziale e agli operatori coinvolti, un nuovo interrogativo:
- Quali sono le sfide professionali per l’educatore che lavora insieme all’operatore artistico e culturale (esperto dei diversi linguaggi artistici, ad esempio musica, cinema o teatro) in un intervento educativo art-based?
- Quali punti di forza e quali arricchimenti professionali reciproci?
- Quali elementi di criticità?
Un quadro metodologico partecipativo e trasformativo
La ricerca-azione, nel corso del progetto, ha assunto propriamente i caratteri della ricerca-azione partecipativa e collaborativa: infatti, in particolare per il secondo insieme di questioni, le domande di ricerca sono emerse negli incontri delle équipe territoriali, così come le metodologie per indagare e trasformare gli assunti impliciti dei diversi operatori sono stati concordati con i professionisti.
Il ricercatore ha seguito l’intero progetto socioeducativo, dalla fase di progettazione sino a quelle di realizzazione e di monitoraggio e valutazione. In particolare durante i laboratori artistici ha adottato i principi dell’osservazione etnografica, al fine di descrivere la cultura pedagogica degli operatori, la loro visione del mondo e del lavoro educativo socio-culturale e il senso che ciascuno riponeva nelle proprie azioni, a partire dal presupposto per cui gli eventi e i comportamenti osservati sono parte del repertorio culturale dei partecipanti (Caronia, 2018).
Sono state condotte quattordici interviste narrative di tipo life history ai membri delle tre équipe territoriali che hanno progettato e realizzato i laboratori artistici nell’ottica dell’educazione di comunità (Merril e West 2012; Bichi, 2007): ogni équipe era composta da due educatori, un operatore culturale e un esperto del linguaggio artistico (visuale, musicale, teatrale). In due casi, era anche presente un tirocinante (uno del Corso di laurea in Scienze dell’Educazione, l’altro del Corso di laurea magistrale in CAM Cinema, Arti della scena, Musica e Media).
Sono stati, infine, facilitati tre incontri adottando il protocollo dell’Action Learning Conversations, protocollo conversazionale che fa parte dell’approccio dell’action learning, al fine di identificare e condividere le presupposizioni, le credenze tacite e le teorie implicite che stanno alla base delle visioni del mondo e del proprio operato professionale (Marsick e Maltbia, 2009; Marsick e Davis-Manigaulte, 2011).
Ricerca-azione partecipata
In linea con i principi della ricerca-azione partecipata tutti i membri della comunità professionale, coinvolti nel progetto, sono stati coinvolti durante tutto il processo di ricerca per produrre dati che potessero essere considerati autentici per l’esperienza e azioni che potessero essere considerate significative per il gruppo di operatori. La scelta di questo impianto metodologico è fondata sul fatto che la ricerca, qui presentata, si poneva l’obiettivo di connettere la ricerca e la scienza con la possibilità della trasformazione individuale e sociale (Chevalier e Buckles, 2013). Per questo ci si è focalizzati sulla partecipazione degli stakeholder a un processo volto all’avanzamento della conoscenza attraverso un processo di ricerca sistematica che si traducesse in un’azione per il cambiamento sociale da parte degli stakeholder stessi. In questo paradigma di ricerca è proprio l’interazione tra ricerca e azione che mira a provocare un cambiamento sociale.
Nel caso di studio qui presentato, la domanda di ricerca è emersa in modo partecipato: nei mesi di progetto, durante gli incontri di supervisione e nelle chiacchierate informali, sono affiorate le nuove questioni sopra citate riguardanti le sfide professionali per gli educatori che lavoro in équipe multiprofessionali con operatori culturali ed esperti di linguaggi artistici. Gli obiettivi di ricerca e le stesse metodologie utilizzate sono state discusse e concordate con i professionisti coinvolti, in particolare con gli educatori. L’analisi dei dati e la loro restituzione, guidata dal ricercatore, sono stati oggetto di costante riflessione da parte del gruppo, che si è impegnato attivamente in un costante lavoro di ricerca ed elaborazione critica.
Alcuni risultati: l’art-based community education
La ricerca ha condotto a numerosi risultati che riguardano i diversi punti sollevati dalle domande di ricerca: possono essere schematicamente riassunti lungo due filoni, il primo più specifico sulla art-based community education, il secondo che riguarda la sfida professionale per gli educatori che lavorano con altri professionisti in un contesto di educazione di comunità art-based. Mi soffermerò brevemente sui risultati, focalizzandomi maggiormente su quelli relativi agli incontri multiprofessionali, perché rappresentano il focus della ricerca-azione partecipata.
Per quanto riguarda l’art-based community education, i laboratori sono stati co-progettati tra educatori, operatori culturali e ragazzi coinvolti. Le proposte e i suggerimenti di quest’ultimi, secondo logiche bottom-up, sono state mediate dagli operatori culturali con la supervisione degli educatori, seguendo logiche top-down. La compresenza di queste due logiche ha caratterizzato il progetto seguendo un paradigma place-based, indicato dalla letteratura internazionale come il più adeguato in contesti frammentati e territorialmente dispersi (Barca, Mccann e Rodriguez-Pose, 2012; Pike, Rodriguez-Pose e Tomaney, 2007).
Tutti i laboratori hanno portato i partecipanti a creare un prodotto che è stato condiviso con la comunità territoriale di appartenenza. Le restituzioni locali sono state molto partecipate. I prodotti narrativi realizzati sono stati restituiti alle comunità territoriali, come testimonianza della capacità dei giovani di raccontare se stessi e la propria comunità. Il dispositivo artistico ha favorito l’immersione dei giovani nella comunità locale, stimolandoli a raccontare se stessi all’interno del proprio territorio. Gli approcci educativi art-based hanno stimolato una maggiore consapevolezza di sé e degli altri. L’immaginazione e la creatività hanno permesso di accedere alla conoscenza extrarazionale, spesso nascosta nelle zone subconscie degli individui. In questo modo i giovani partecipanti ai laboratori hanno immaginato se stessi all’interno delle comunità territoriali di riferimento, alimentando così la loro capacità di vedere il futuro, in chiave proattiva e trasformativa.
Questi laboratori si sono rivelati interessanti dispositivi educativi in chiave trasformativa (Mezirow, 2013), poiché l’arte e l’espressione creativa hanno offerto l’opportunità ai ragazzi di impegnarsi in forme espressive alternative, che hanno cambiato il modo in cui interpretare la propria situazione (Hoggan, Simpson e Stuckey, 2009; Blackburn Miller, 2020) innescando un’autoriflessione critica (Bleyl, 2007).
Alcuni risultati: la sfida di un’équipe multiprofessionale
Per quanto riguarda la sfida professionale rappresenta dal lavorare in un’équipe multiprofessionale, gli incontri professionali, sia nella fase di progettazione sia in quella di realizzazione e valutazione degli interventi, hanno fatto emergere alcuni elementi di criticità, legati alle diverse competenze e ai differenti background culturali; al contempo la collaborazione tra operatori ha suggerito aspetti positivi che hanno arricchito reciprocamente i partecipanti.
Nelle interviste, in particolare, sono state sottolineate differenti prospettive sulle finalità, sui contenuti e sulle modalità di conduzione dei laboratori. Secondo alcuni educatori i laboratori artistici avrebbero dovuto consolidare un buon clima relazionale tra i partecipanti e costruire un legame culturale con la comunità territoriale, tale da favorire successivamente forme di impegno civico e partecipazione democratica. Gli esperti dei linguaggi artistici, invece, erano maggiormente focalizzati sulla dimensione tecnica e creativa riguardante la forma artistica e sull’espressione del sé dei partecipanti. La preoccupazione principale degli operatori culturali, nella loro difficile opera di mediazione tra le diverse istanze, era destinata alla qualità artistica e culturale degli elaborati dei partecipanti. Emerge, da questo punto di vista, un continuum di posizioni che schematicamente vedono ai due poli qualità artistica/valenza sociale dei laboratori.
Per quanto riguarda i contenuti dei singoli laboratori sono emerse altrettante divergenze di prospettive: gli educatori erano più attenti all’espressione della soggettività e al benessere dei ragazzi; gli esperti dei linguaggi artistici hanno lavorato per trasmettere competenze tecniche riguardanti le diverse modalità artistica; secondo gli operatori culturali, invece, i laboratori avrebbero dovuto mirare maggiormente alla dimensione narrativa necessaria alla produzione di elaborati artistici di qualità da restituire alla comunità. Quest’ultima preoccupazione, la necessità di collegare i laboratori con il territorio di appartenenza, per la verità era anche un’istanza espressa dagli educatori, proprio per lavorare nell’ottica dello sviluppo di comunità.
Le modalità di conduzione e gli stili relazionali-educativi messi in atto durante i laboratori dai diversi professionisti hanno fatto emergere altre diversità di prospettive (Franta, 2004). In particolare dal punto di vista degli educatori lo stile degli esperti dei linguaggi artistici e degli operatori culturali ha destato alcune perplessità perché considerato eccessivamente permissivista e “libertario” sia nella gestione della convivenza e delle regole sia nella comunicazione a volte troppo informale. Viceversa, soprattutto gli operatori culturali, hanno evidenziato alcune difficoltà nel gestire e far convivere dinamiche relazionali “verticali” e “orizzontali” tra i partecipanti e gli operatori. È emersa, inoltre, un’altra tensione dialettica rispetto allo stile educativo, quella tra lasciare spazio/occupare spazio.
Le modalità di realizzare l’intervento educativo di comunità art-based, i contenuti messi in campo e le finalità stesse sono solamente alcuni degli elementi che sono emersi nelle interviste e che denotano linguaggi e precomprensioni differenti nei diversi professionisti coinvolti nel progetto. Si tratta, quindi, di presupposti impliciti nelle pratiche degli operatori e degli educatori, non necessariamente da rifiutare o annullare ricercando possibili convergenze. Possono essere divergenze anche da conservare ma di cui essere consapevoli, che però devono emergere anche nelle riunioni di équipe. Si tratta in altri termini di rendere esplicite le pedagogie popolari (Bruner, 1997) degli operatori, non tanto per uniformare le differenti prospettive quanto per alimentare una diffusa cultura pedagogica, per costruire una comunità pedagogica che si propone di comprenderne l’assetto, le dinamiche, le ragioni e i criteri delle pratiche educative (Fornaca, 1993).
Esplorare le “pedagogie popolari”
Una volta terminate le interviste e analizzati i punti salienti insieme ai professionisti coinvolti del progetto, si è proceduto a discutere questi temi in una specifica riunione, durante la quale si è ipotizzato di proseguire lungo questa strada: lavorare sulla consapevolezza individuale delle proprie credenze tacite e delle teorie implicite, al fine di riconoscere la possibilità di letture dell’esperienza diverse dalla propria e di decentramento professionale. Il ricercatore ha, allora, proposto di realizzare alcuni incontri seguendo il protocollo dell’Action Learning Conversation, anche con l’obiettivo di aiutare gli operatori a riformulare la sfida professionale originaria e immaginare nuove modalità di azione.
I feedback ricevuti dopo i tre incontri realizzati seguendo il protocollo dell’Action Learning Conversations confermano quanto osservato durante le riunioni. Nello specifico, per quanto interessa la domanda di ricerca qui indagata, gli educatori hanno riconosciuto la valenza formativa degli scambi con gli altri professionisti coinvolti nel progetto, sottolineando in particolare la crescita professionale conseguente all’esplicitazione dei propri presupposti impliciti, emersi grazie al confronto interprofessionale, e alla comprensione delle prospettive d’azione degli altri operatori. Un aspetto specifico è emerso dagli incontri e ha reso evidente il percorso riflessivo che ha condotto l’équipe: per stessa ammissione dei membri, durante la prima riunione, due partecipanti, con professionalità differenti, hanno fatto notare che “manca un linguaggio comune”, che molte incomprensioni e punti di vista differenti “probabilmente erano dovuti alle parole” che utilizzavano.
In questa prospettiva l’équipe multidisciplinare si è configurata come l’epicentro della professionalità e dell’agire competente dell’educatore. Si è declinata come luogo di conversazione e scambio, di promozione dell’intreccio tra azione e riflessione nelle pratiche educative e come occasione di miglioramento professionale. Questi incontri hanno espresso pienamente il proprio potenziale, per i singoli e per le organizzazioni di appartenenza, nella misura in cui hanno favorito il costituirsi di un “Noi educativo” e hanno fatto emergere una “Mente Collettiva” (Milani, 2013).
Schematicamente possiamo individuare due dinamiche formative grazie alle quali nell’équipe è stato possibile capitalizzare il sapere tacito degli educatori e degli altri professionisti: la narrazione e la riflessione (Mortari, 2013). Il fatto che la pratica educativa sia un’esperienza e il racconto sia il modo appropriato per renderne conto giustifica la tendenza dei professionisti educativi a ricorrere a questo strumento formativo. La narrazione ha svolto la duplice funzione di organizzare l’esperienza e di contribuire alla costruzione e alla negoziazione di significati: ha rivestito dunque un ruolo decisivo sia nella pratica professionale, sia nella definizione dell’identità professionale degli educatori. Tuttavia, la narrazione della pratica professionale sarebbe stata insufficiente se non fosse stata accompagnata dalla capacità critica di separarsi dall’io narrante, assumendo un altro punto di vista dal quale osservare l’esperienza: ciò è stato possibile grazie al secondo dispositivo formativo, la riflessione. Attraverso di essa gli educatori, insieme agli altri professionisti coinvolti nel progetto, hanno interrogano criticamente il proprio modo di lavorare. La riflessione che si è esercitata sulle pratiche educative ha permesso di descrivere le teorie che guidavano le pratiche stesse, di esplicitare le precomprensioni che tacitamente strutturavano l’azione, di riconoscere le convinzioni degli educatori rispetto ai problemi dell’agire educativo, di analizzare le routine che caratterizzavano l’intervento educativo e, infine, di apprendere dalle situazioni impreviste (Fabbri, 2009).
Conclusioni
La natura collaborativa e partecipativa che ha assunto la ricerca-azione, in particolare per quanto riguarda il secondo nucleo delle domande di ricerca, ha favorito l’apprendimento trasformativo degli operatori, in primo luogo grazie alle interviste narrative e alle sessioni di Action Learning Conversations volte a indagare e validare le premesse a partire dalle quali i diversi professionisti interpretavano le proprie azioni professionali.
Le équipe multiprofessionali sono contesti particolarmente stimolanti per far emergere la natura della conoscenza dei professionisti, in particolari degli educatori. La conoscenza degli educatori, infatti, non è un’entità stabile e chiusa, ma vive nell’atto stesso del conoscere e si configura come un processo attivo e creativo che prende corpo nell’impegno e nelle esperienze professionali, tanto quanto nelle diverse forme di reificazione e immagazzinamento della conoscenza stessa. In questa prospettiva, il conoscere si configura come una conversazione riflessiva con la situazione, definita da un coinvolgimento con i problemi che emergono nella pratica di tipo interattivo, riflessivo e con un certo grado di improvvisazione (Schön, 1993).
Gli educatori che hanno partecipato al progetto hanno generato e condiviso conoscenza, perché questa, più che essere un corpus statico di informazioni, si presenta come un processo dinamico, “la creazione di un ‘residuo’ delle loro azioni, del loro pensiero e delle loro conversazioni” (Wenger, McDermott e Snyder, 2007, p. 50), che si caratterizza per la dimensione sociale. Come la conoscenza scientifica, anche quella degli educatori si sviluppa attraverso un processo comune di partecipazione: la natura collettiva della conoscenza permette loro di sostenere la rapida evoluzione del lavoro, di affrontare la complessità del lavoro educativo in contesti non formali caratterizzati da un elevato livello di informalità e di fronteggiare il rischio di un “sovraccarico di informazioni” difficilmente gestibile a livello cognitivo e affettivo (Davenport e Beck, 2001, p. 77).
Un ultimo aspetto che contraddistingue la conoscenza degli educatori è la dialettica tra dimensione esplicita e quella tacita: la prima si compone di tutte quei saperi, in primo luogo di natura concettuale, che si riescono facilmente ad esprimere perché codificati e sistematizzati. La dimensione tacita, che secondo Polanyi “precede e fonda tutta la conoscenza”, si compone invece di competenze incorporate (embodied), relative al “sapere come”, e di competenze radicate nelle procedure e nelle routine (embedded) (Polanyi, 1979, p. 36; Blackler, 1995). La conoscenza tacita ha quindi un carattere esperienziale, situato ed emergente dalla pratica. Seguendo la tesi di Polanyi, gli educatori sanno molto più di quel che riescono a riferire e articolare a parole: la conoscenza esplicita rappresenta solo la punta dell’iceberg del corpus di conoscenze. Queste due tipologie di conoscenza, indubbiamente, non costituiscono entità separate e indipendenti, ma dimensioni mutuamente complementari che interagiscono fra loro in un articolato interscambio che avviene in tutte le direzioni (Nonaka e Takeuchi, 1997). Nella dialettica tra elementi taciti ed espliciti si sviluppa un processo di costruzione della conoscenza sia a livello individuale che organizzativo. Attraverso una complessa dialettica tra esplicito e implicito, composta da socializzazione, esteriorizzazione, combinazione e interiorizzazione, l’équipe multiprofessionale in questo progetto si è configurata come una comunità di ricerca in cui la conoscenza dei singoli ha acquistato rilevanza per l’organizzazione di appartenenza.
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L’autore
Nicolò Valenzano ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia, presso il Consorzio FINO. Collabora con la cattedra di Pedagogia Generale del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino, dove insegna Teoria e progettazione educativa. I suoi principali interessi riguardano le pratiche educative di comunità nei territori del margine, le teorie pedagogiche del dialogo e l’antropologia pedagogica di Paulo Freire.