Libri e cultura nell’era digitale | Books and culture in the digital age

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Abstract

La crescente leadership assunta dal sonoro, dal visivo e, soprattutto, dal digitale nell’informazione, nella comunicazione e nella trasmissione delle conoscenze potrebbe indurre a ritenere che nel tempo i ritrovati dell’editoria elet­tronica rimpiazzeranno del tutto la tradizionale pagina cartacea. Viviamo ormai dentro la ‘civiltà dell’immagine’, del look e delle fatue apparenze virtuali. Ma dove non circolano libri, poco importa se tradizionali o elettronici, mancano le idee e regnano sovrani l’ignoranza, i luoghi comuni, la superficialità, la stasi, il regresso, la sclerosi delle menti, succubi di esclusive esigenze di sopravvivenza vegetativa. Il disprezzo del libro è rifiuto della cultura, e il disprezzo della cultura è offesa all’intelligenza, ‘rogo’ di tutti i progressi compiuti dall’uomo in ogni campo del sapere. Chi acconsente alla morte dell’intelligenza distrugge implicitamente la capacità dell’uomo di autodeterminarsi.


Sfolgorio di insegne luminose, nei grandi come nei piccoli centri urbani, tripudio di manifesti pubblicitari, e-book, multimedia e new media in genere, foto digitali, diorama, e ologrammi ad effetto tridimensiona­le e persino quadridimensionale, attestano ogni giorno di più la leadership crescente assunta dal sonoro, dal visivo e, soprattutto, dal digitale nell’informazione, nella comunicazione e nella trasmissione delle conoscenze.

A quest’insieme complesso ed eterogeneo di materiali che, già da molti anni, ha fatto il suo ingresso nelle biblioteche specializzate ed in altri centri di documentazione, l’International Standard Bibliographic Description (ISBD), allineandosi all’uso terminologico anglosassone, ha assegnato la comoda ed onnicomprensiva definizione di materiale non librario (non book materials).[1] Certo, sarebbe riduttivo concludere che nel tempo i ritrovati dell’editoria elet­tronica rimpiazzeranno del tutto la tradizionale pagina cartacea, ma non l’ammettere che ormai viviamo dentro la “civiltà dell’immagine”, del look e delle fatue apparenze virtuali.

Le immagini emergono spesso da qualcosa che non si vede, l’immateriale, l’elettronico, appunto. Non è difficile farsi una ragione di questo fenomeno, se pensiamo che in genere l’utente, oberato com’è da impegni, obblighi e scadenze imminenti, costretto a ritmi di vita asfittici nel loro incalzare, non ha mai tempo a disposizione per cui, se vuole tenersi informato ed al “passo con i tempi”, deve affidarsi all’immediatezza, alla concisione informativa dei nuovi media, deve assimilare tempestivamente ed agire con altrettanta rapidità. E l’immagine ben si presta a questo fine: essa è quello che appare agli occhi ed un attimo dopo è già mutata per appartenere alla dimensione dell’effimero. Eppure, sopravvive, perché da percettiva diventa mentale, assume un altro livello di esistenza e noi la sappiamo “rievocare”, “rivedere” con l’attività conscia o inconscia del cervello. La sensazione comunque che prevale è che le immagini fuggono. E allora il problema è sottrarre le immagini al loro stato di fugacità e “fissarle”, perché non si allontanino più dagli occhi e dalla mente. Ed ecco che, quando si è voluta fermare l’immagine, non lasciare che scappasse via come il vento attraverso i secoli, allora la si è affidata alla scrittura: ai geroglifici, agli ideogrammi che hanno convertito i suoni in immagini.[2] La parola si è specializzata e la si “ritrova” nei codici, sui manifesti, sui monitor e, ancora prima, sui libri, i vecchi, preziosi e cari libri che ci hanno accompagnato fin dai banchi di scuola. 

Ma da parecchi anni ormai le statistiche lanciano dati allarmanti: in Italia si legge poco, e quel poco in fretta e con superficialità. Per lo più si tratta di giornali, di riviste, di periodici strettamente settoriali, legati ad esigenze professionali o ad hobby indivi­duali. Ma di opere letterarie, scientifiche ed artistiche, nemmeno l’ombra. A frenare il potenziale lettore non sono certo ragioni economiche, o almeno lo sono nella misura in cui il denaro viene impiegato per scopi diversi, né il tempo che in genere si trova per tutto, tranne che per ciò che non piace, e tanto meno imponderabili ragioni di gusto personale, quanto piuttosto il pregiudizio, frutto d’ignoranza, e l’ignoranza è a sua volta frutto di mancate letture formative. Capita spesso di non toccare i libri che pure si sono acquistati: li si lascia negli scaffali della libre­ria perché facciano bella mostra insieme agli altri o perché diano un tocco di classe all’arredamento di casa. Non importa tanto il contenuto, quanto i materiali pregevoli, i fregi e le legature. Non è raro poi, ritrovarsi di fronte a persone per le quali “libro” è sinonimo di noia, di soffocamento, sindrome da claustrofobia. Ma dove non circolano libri, mancano le idee e regnano sovrani l’ignoranza, i luoghi comuni, la superficialità, la stasi, il regresso, la sclerosi delle menti, succubi di esclusive esigenze di sopravvivenza vegetativa.  

Il disprezzo del libro è rifiuto della cultura, e il disprezzo della cultura è offesa all’intelligenza, “rogo” di tutti i progressi compiuti dall’uomo in ogni campo del sapere: significa immolare sull’altare della barbarie i tenaci sforzi dell’umanità di uscire gradualmente dal suo originario stato ferino, è anacronistico ritorno ai primordi del genere umano quando, soddisfatti i bisogni primari, assicurata la sopravvivenza della specie umana at­traverso la procreazione, ci si abbandonava alla paura de­gli dei, si intessevano superstizioni conseguenza di manca­te conoscenze, oggi cancellate dalla scienza e dal pro­gresso. Non è forse casuale che, in corrispondenza del dimi­nuito interesse per la lettura, sia considerevolmente cresciuto l’interesse delle masse per gli oroscopi e connesso guazzabuglio di astrologi, maghi e chi­romanti affidandosi ai quali si acconsente alla morte dell’intelligenza ed alla capacità di autodeterminazione dell’uomo.

Basti pensare ai falò hitleriani, nella lontana notte del 10 maggio 1933, quando, nella Bebelplatz di Berlino, furono bruciati circa ventimila volumi di autori censurati dai nazisti, o a certa cultura giovanile che, in passato, propagandò la repressione del pensiero stampato. Ma, “là dove si bruciano i libri, alla fine si bruciano anche gli esseri umani” osservava significativamente Heinrich Heine nel 1817.[3] E, sia pure in un contesto visionario e fantascientifico, ma senz’altro profetico, si indirizzò anche lo scrittore statunitense Ray Bradbury, nel suo primo romanzo del 1951, Fahrenheit 451,[4] il cui titolo fu ispirato dalla scala Fahrenheit, in cui 451 è la temperatura alla quale brucia la carta. Dal libro fu tratto il film, per la regia di François Truffaut nel 1966, in cui si osservava acutamente: “[…] A tutti noi una volta nella carriera, viene la curiosità di sapere cosa c’è in questi libri; ci viene come una specie di smania, vero? Beh, dai retta a me, Montag, non c’è niente lì, i libri non hanno niente da dire!”. Bradbury immaginò una società futura, molto progredita a livello tecnologico, in cui i vigili del fuoco, tra i quali il protagonista Montag, in una prospettiva rovesciata e distopica, appiccavano incendi, anziché domarli o spegnerli. Oggetto dei loro deliberati roghi dolosi non a caso erano i libri e la pagina stampata in genere: andavano meticolosamente a scovare chi li proteggesse e li coltivasse con amore, come un’anziana donna che si lasciò bruciare dal fuoco, insieme ai suoi amati libri, disperatamente nascosti in un solaio. La paura di quell’immaginario regime dittatoriale era la libertà di un pensiero “divergente”, di menti critiche e coscienze pensanti, capaci di scoperchiare il vuoto dell’omologazione delle masse in cui i libri e la cultura erano recepiti come “inutili”, o piuttosto “pericolosi”, fino a farli perciò scomparire; si rendeva necessario “imbavagliare” la cultura di pochi, ma ostinati sovversivi che avrebbero salvato l’umanità dalla sua morte culturale.

Qualcosa di simile accade anche oggi quando il giovane che si sente stressato, che cerca compagnia, che vuole divertirsi non esita a “ripudiare” il libro per un giro elettrizzante sulla moto o per un ballo scatenato in discoteca tra rutilanti luci stroboscopiche, capaci di scuoterlo dal torpore della routine, di risvegliare in lui emozioni “forti”, “vitali”, così da farlo sentire pulsante in ogni fibra muscolare. Ma, a lungo andare, neanche le moto, gli amici, le discoteche bastano a colmare nuovi vuoti. Non c’è dubbio allora che, per variare il menù giornaliero, la lettura di un buon libro non è mai fuori luogo: esso può immetterci in nuove dimensioni, inse­gnarci che le soluzioni di vita che scegliamo o che altri ci hanno propinato, non sono le uniche; ci abitua a vivere con le risorse inesplorate del nostro io, senza sottometterci alle mode, alle convenzioni, ai  conformismi correnti, il più delle volte costruiti da chi regge i fili della nostra società a scopo di meri interessi economici.

La parola scritta, invece, ci abitua alla riflessione, alla calma e alla razionalità, ci insegna ad essere dei “singoli”, a ragionare con la nostra testa, a vederci chiaro, quando i raggiri delle parole altrui mirano a turlupinarci o ingannarci. Perché dove non è ‘libro’ e, fuor di metafora, dove non è cultura e ragione, albergano gli odi e le ostilità. Se così non fosse, vorrebbe dire che le guerre, le violenze, le ingiustizie sono giuste, e se giuste, razionali, come emerge nella significativa incisione del pittore spagnolo Francisco Goya nel 1797: “il sonno della ragione genera mostri”.[5]

La ragione infatti non potrebbe consigliarci il male, la distruzione, altrimenti dovremmo inferire che anche la ragione è, paradossalmente, “irrazionale”. E sarebbe un paralogismo o una semplice contraddizione in termini. Il furore, la cieca violenza, le morti, le stragi, il razzismo sono cose di fronte alle quali rabbrividiamo, o piuttosto è la nostra ragione a ribellarsi. Se, però, ci stiamo passivamente abituando a tutto, vuol dire che stiamo precipitando di nuovo nell’intolleranza, risucchiati da un riflusso di inciviltà, di involuzione di ritorno ed analfabetismo inquietante, dal momento che abbiamo perso la capacità di discernere ciò che è giusto dal suo opposto, precipitando nell’abisso di una società “amorale”.  O forse la verità potrebbe essere anche un’altra: i libri non interessano perché chi scrive, spesso ci sfiora senza toccarci nel profondo, quando addirittura non ci confonde di più le idee: una propaganda scritta di molteplici e diversi valori potrebbe anche servire a intorbidare le acque della coscienza individuale. Ma questo può solo accadere quando si leggono libri pseudo - educativi. E di questa produzione ne circola tanta: il mondo editoriale non sempre offre uno spettacolo edificante: sforna opere di ogni genere e per tutti i gusti, “scritte in minor tempo che non si impiega a leggerle,  che costano quanto valgono e durano nella stessa misura di quel che costano” diceva già Leopardi in riferimento all’Ottocento, il secolo che mai gli piacque.[6] Riempiono i mercati per pochi mesi e poi vengono sopraffatte dal sopraggiungere di nuove ondate di pubblicazioni mediocri, ricche di gossip o curiosità  fresche  di  giornata,  così da abbassare notevolmente il livello della produzione scritta e da smarrire anche il senso del buon gusto. Tutto “fa brodo”, anche le scempiaggini e gli strafalcioni che, giudicati di grande comicità, incontrano spesso il favore del pubblico.

Libri sì, allora, ma quali?  È difficile orientarsi in un panorama librario così vasto, confuso e a volte ambiguo. Ma per chiarirci le idee, forse sarebbe il caso di liberare dalla polvere le nostre biblioteche, grandi, medie o piccole che siano. Aprire quei testi che possono sembrare oltrepassati dai secoli, ma che ancora hanno qualcosa da dirci. Prima, però, occorre scrollarci dalla convinzione radicata che il libro sia un oggetto riservato ad una ristretta cerchia di intellettuali o di eruditi e, come tale, estraneo ai, “comuni mortali”. Il libro è opera dell’ingegno umano, non dimentichiamolo, di uomini che hanno sentito, visto, sperimentato, capito e pagato, attraverso la parola e l’espressione del libero pensiero, il prezzo della vera libertà, come dovremmo imparare a fare anche noi.

Una coscienza questa che si può impartire già nelle scuole, a tutti i livelli e gradi di istruzione, e che dovrebbe prevedere una più intensa e capillare diffusione di servizi di documenta­zione, svolgendo attività parallele e coordinate a quelle delle biblio­teche, prevedendo programmi di educazione del lettore giovane per la progressiva acquisizione di forme di “indipendent study” o “life long learning” che, soli, possono abituare l’individuo a vedere il mondo con i propri occhi. In tal senso occorre spingerlo verso l’acquisizione di una cultura autentica e inossidabile nel tempo, piuttosto che ricevere una versione filtrata e deformata della realtà, indotta dall’esterno, dalle propagande o dalle pubblicità più fuorvianti e abbindolanti.

La cultura, infatti, non è semplicemente un “insieme di nozioni organicamente apprese che qualcuno possiede” oppure: “l’insieme della tradizione e del sapere scientifico, letterario ed artistico di un popolo o dell’umanità intera”. Essa va ricondotta alla sua radice etimologica latina di “cultus”, nel senso traslato di “coltivazione” della mente in cui porre i semi dell’albero della conoscenza che germoglierà nella primavera della vita, tanto più florido quanta più lavoro, fatica e cura avremo posto per farlo crescere bene. Se, invece, è posta nei termini di una semplice definizione fornita da un dizionario di lingua italiana, il concetto di cultura suona come sminuito nella sua poliedrica ampiezza suggestiva di significati. L’insieme delle “nozioni” sembra alludere ad un complesso di conoscenze apprese attraverso la meccanica memorizzazione di innumerevoli dati deducibili da un libro, da un e-book, da un i-pad, da un tablet, da un qualsiasi mass - media, dalla lettura di un periodico o di un giornale cartaceo o telematico e gli esempi potrebbero moltiplicarsi in modo esponenziale.

Ebbene, la cultura non è “accumulare” dati su dati: altrimenti bisognerebbe adeguarsi alla logica di un computer programmato, o ad un Leopardi giovane che, chiusosi per sette anni di studio “matto e disperatissimo” nella ben rifornita biblioteca paterna, accumulò “erudizione” e non ebbe dapprima l’opportunità di cogliere il senso che si celava dietro caterve di parole in profusione, in apparenza spese per il desiderio da parte di qualcuno di lasciare una traccia di sé nella storia.

Il “sapere” non è dogma aristotelico, perché la realtà è un perenne flusso dinamico nel quale l’uomo si trasforma. Non occorre sperimentarlo attraverso i filosofi che, nel corso della loro esistenza, hanno accumulato cultura e conoscenza nel tentativo di colmare l’abisso che separa il noumeno dal fenomeno: basta osservare se stessi per accorgersi che non vi è nulla di immutabile e definitivo nel tempo. Non esistono ‘blocchi’ di verità assolute ed inattaccabili. La cultura è nell’uomo in quanto “misura di tutte le cose”, sosteneva in tal senso il filosofo Protagora nel V secolo a.C.

Le verità di oggi potranno pertanto divenire domani deplorevoli menzogne, allorché nuove scoperte scientifiche rivoluzioneranno il presente. Si pensi alla rivoluzione copernicana – eliocentrica, che fece crollare il sistema tolemaico - geocentrico: ciò che era stato non sarebbe stato più. E l’eventuale cosiddetto uomo “colto” che avesse incamerato l’informazione “la terra è al centro del sistema solare” si ritrovò costretto a mutare sé stesso in quella nuova conoscenza e a rivedere le dottrine etiche o religiose che lo avessero innalzato a perno del cosmo intero. Da quel momento l’uomo - dio, sarebbe stato appena un punto su un immenso foglio bianco di vita universale ancora tutta da scrivere.

La cultura non è mai estrinseca al soggetto, ma è “misura” del suo essere. Cultura non è solo “avere” informazioni, è far proprio ciò che è al di là dell’uomo e che soltanto ai nostri occhi si presenta come realtà oggettiva ed esterna che non ci appartiene. Quel mondo che ci sforziamo di comprendere è là che ci attende, pronto a divenire nostro, ad essere trasformato dalle nostre categorie esistenziali, arricchito materialmente e spiritualmente dai nostri apporti creativi.

Erich Fromm ha dedicato un intero saggio alla distinzione delle due opposte categorie dell’essere e dell’avere analizzandole sotto i vari aspetti della vita umana, compreso quello culturale.[7] Scrive che lo studente considerato mediamente diligente, è colui che riesce a ripetere con la maggiore esattezza le informazioni relative ad un qualsiasi argomento studiato. Egli fa propria cioè la categoria dell’avere, perché non gli rimane che rispolverare puntualmente le nozioni preconfezionate dagli altri e riferirle, più o meno meccanicamente.

Anche gli attuali sistemi didattici, al di là di ogni apparente riformismo, mirano di fatto ad educare l’individuo perché acquisisca una conoscenza proporzionata alla quantità di preparazione e di prestigio sociale di cui l’individuo ha bisogno per compiere in modo adeguato un lavoro. La scuola, inoltre, nonostante dichiari che il suo scopo sia di mettere gli allievi in contatto con le massime scoperte della civiltà umana, si limita ad attribuire allo studente un “pacchetto-cultura” e, alla fine dei corsi, gli rilascia una certificazione in cui si attesta che perlomeno ne ‘ha’ acquisito il quantitativo minimo.

 Questo accade perché l’uomo odierno ha fatto ormai propria la categoria dell’avere: egli “ha” l’automobile, “ha” un lavoro, “ha” tutti gli agi della vita, ma non “ha” più autentica conoscenza di se medesimo. Solitudine, alienazione, frustrazione, mancanza di realizzazione personale, sono le conseguenze di questo guazzabuglio di informazioni che si chiama cultura etica, politica, sociale, o più semplicemente alla moda, quella dell’attimo fuggente. È anche vero che oggi si tende spesso ad avere una cultura “standardizzata”, massificata, a conoscere più cose, ma superficialmente, senza approfondirne alcuna, tramite la riflessione o l’indagine critica, problematica e approfondita.

Cultura significa, allora, “ponderare”, “pensare”, e pensare significa rientrare in se stessi, nel proprio io, cercare di rapportare il sapere alla propria misura, tenendo sempre presente che la machiavellica “verità effettuale” fatta propria, potrebbe anche essere rimessa in discussione dal sopraggiungere di un nuovo anello alla catena delle mille verità.

Conoscere non è ‘possedere’ la verità, ma avere il coraggio di scandagliare sotto lo strato esterno delle cose per cercare di carpire un bagliore di luce dalle tenebre. Conoscere è ricongiungere l’io umano al tutto di cui l’uomo è quella piccola “goccia” leopardiana nel mare infinito dell’essere. Sarà, perciò, veramente sapiente colui il quale, come Socrate, avrà riconosciuto che in verità la sua sapienza non ha valore, oppure, come scrisse nel Trecento il filosofo e teologo tedesco Meister Eckhart, che “un uomo dovrebbe essere vuoto della propria conoscenza”.[8] Ciò non vuol dire che l’uomo deve “dimenticare” ciò che sa, ma che dovrebbe dimenticare di sapere, rinunciare ad essere “pieno” della propria conoscenza.

La conoscenza non dovrebbe mai assumere la qualità di un dogma che renda schiavi, quanto piuttosto di una spinta a non rimanere immobilizzati nelle nostre convinzioni, nelle nostre azioni abitudinarie, incatenati a ciò che abbiamo o a ciò che crediamo di sapere. 

 Bisogna, allora, “imparare ad imparare”. Non esiste più un tempo per imparare ed uno per agire: questo poteva forse valere una volta, ma non oggi perché, con lo sviluppo delle conoscenze e delle tecnologie, nessuno, proprio nessuno, può dirsi definitivamente all’altezza del proprio ruolo nella società. Certo, si può scegliere di continuare ad agire solamente oppure rifiutare di imparare ad imparare, ma sicuramente saremo tagliati fuori dal flusso evolutivo della società, e nel mondo non saremo mai abbastanza preparati per i nostri compiti.

Imparare a conoscere significa essere Prometeo, cioè affrontare i rischi del cambiamento che si vuole operare; bisogna apprendere la dualità di pensare “doppio”, mettersi nei panni degli altri, acquisire la capacità di vedere il mondo anche con gli occhi dell’altro da sé.

 

Riferimenti bibliografici

Geretto P., (a cura di), Lineamenti di biblioteconomia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1991.

Guerrieri G., (a cura di Giuseppe de Nitto), Nuove linee di biblioteconomia e bibliografia, Guida editori, Napoli, 1982.

Rispoli M., Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica, Quodlibet, Macerata, 2008.

Bradbury R., Fahrenheit 451, Mondadori, Milano, 1989.

Todorov T., Goya, Garzanti, Milano, 2015.

Leopardi G., Operette morali, Dialogo di Tristano ad un amico, in G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di F. Flora, Mondadori, Milano, 1968.

Fromm E., Avere o essere?, Mondadori, Milano, 1977.

Vannini M., Meister Eckhart e “Il fondo dell’anima”, Città Nuova, Roma, 1991.

 

Marcella Di Franco, laureata in Lettere, con specializzazione post-laurea in Metodologie e Psicopedagogia per l’area umanistica, è professoressa di Liceo di discipline letterarie, Lingua e letteratura italiana e Latina, Storia e Geografia. Suoi articoli culturali, saggi critici, recensioni e testi letterari sono stati pubblicati in numerose collane antologiche, riviste letterarie e universitarie: Palimpsest, rivista internazionale di ricerca linguistica, letteraria e culturale, Università Goce Delcev, Shtip, Macedonia, 2019; Humanities, semestrale di Storia, Geografia, Antropologia e Sociologia, Università di Messina, 2019; Mosaico italiano, Istituto italiano di cultura, Università di Rio de Janeiro, 2019; Qualeducazione, rivista internazionale di pedagogia, Pellegrini editore, Cosenza, 2019; Arba Sicula, St. John University di New York, 2018-19; Parra Sicilia, Legas Publishing, New York, 2018; Zibaldone. Estudios italianos, Università di Valenza, 2017-19; Notos revue. Espaces de la création: arts, écritures, utopies, Narrations, periodico di Lingue, Letteratura, arti e culture dell’Università Paul Valéry, Montpellier, 2018; Griselda online, periodico del Dipartimento di Italianistica e Filologia dell’Università di Bologna, 2017-2020; Gradiva, International Journal of Italian Poetry, Università Stony Brook di New York, Leo S. Olschki editrice, Firenze, 2013; Astolfo, quadrimestrale del Dipartimento di Scienze Letterarie e Filologiche dell’Università di Torino, Edizioni Dell’Orso, Alessandria, 1997; Agorà, trimestrale di scienze filologiche - letterarie, Catania, 2019; Le nuove frontiere della scuola, quadrimestrale di cultura, pedagogia e didattica, La Medusa, Marsala, 2017-2019; Nel 2010 ha pubblicato per il Centro Studi Sanguis Christi, la monografia storica Il culto al Sangue di Cristo dalle origini all’età moderna. Maria Matilde Bucchi, Stilgraf, Roma. Coltiva da sempre un vivo interesse per la scrittura creativa. Dal 1992 ad oggi ha vinto prestigiosi premi letterari nazionali di poesia e narrativa.

[1] P. Geretto (a cura di), Lineamenti di biblioteconomia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1991.

[2] G. Guerrieri, (a cura di Giuseppe de Nitto), Nuove linee di biblioteconomia e bibliografia, Guida editori, Napoli, 1982.

[3] M. Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica, Quodlibet, Macerata 2008.

[4] R. Bradbury, Fahrenheit 451, Mondadori, Milano 1989.

[5] T. Todorov, Goya, Garzanti, Milano 2015.

[6] G. Leopardi, Operette morali, Dialogo di Tristano ad un amico, in G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di F. Flora, Mondadori, Milano, 1968.

[7] E. Fromm, Avere o essere?, Mondadori, Milano 1977.

[8] M. Vannini, Meister Eckhart e “Il fondo dell’anima”, Città Nuova, Roma 1991.