Insegnare oggi tra libertà e necessità | Teaching today between freedom and institutional constraints
Una questione di libertà
“Al docente sono riconosciute la libertà d’insegnamento e l’autonomia didattica, nel rispetto delle leggi, delle disposizioni esecutive e dei piani di studio”. È quanto si legge all’articolo 46 della Legge della scuola della Repubblica e Cantone Ticino. Lo stesso principio generale è affermato all’articolo 33 della Costituzione italiana – “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” – che è poi precisato al primo articolo del Decreto legislativo 297/1994: “Nel rispetto delle norme costituzionali e degli ordinamenti della scuola stabiliti dal presente testo unico, ai docenti è garantita la libertà di insegnamento intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente”.
Sono diritti menzionati piuttosto raramente nelle riflessioni pedagogiche; qualche volta di più, forse, lo sono nei documenti che regolano la professione degli insegnanti, dove però la preoccupazione sembra soprattutto quella di definirne, anche legittimamente, i limiti. Si tratta, in effetti, di libertà ben circoscritte, che tuttavia, per potersi esercitare, richiedono pur sempre il riconoscimento al docente di uno spazio minimo di discrezione, all’interno del quale egli possa prendere scelte sui contenuti e sui metodi dell’insegnamento. Qual è il senso di questi principi? Sono mere concessioni all’arbitrio degli insegnanti, oppure libertà che si ancorano a qualcosa di più sostanzioso? Queste domande rientrano nella grande domanda che è al centro, e sulla copertina, dell’ultimo testo tradotto in italiano di Philippe Meirieu (2024) Chi vuole ancora gli insegnanti? In un’epoca che, parlando di educazione, punta sempre più alla “efficacia” (p. 18) attraverso la standardizzazione[1] (p. 35) delle “buone pratiche”, l’“Evidence Based Education” (p. 23) e la digitalizzazione (p. 27), il pedagogista francese segnala la nascita di una sorta d’insofferenza che colpisce proprio lui: l’insegnante.
In realtà che cosa stiamo dicendo quando accusiamo la scuola di non essere un’organizzazione abbastanza efficiente da soddisfare tutte le nostre esigenze? Non stiamo forse insinuando che la ‘casualità della variabile umana’ dovrebbe essere combattuta senza pietà e che l’esistenza degli insegnanti, con le loro personalità più o meno avvincenti o fastidiose, i loro capricci incontrollabili e le loro rivendicazioni sempre eccessive, è davvero una cosa tanto ‘arcaica’ quanto insopportabile? (Meirieu, 2024, p. 22)
Meirieu radicalizza la nostra domanda di partenza: abbiamo ancora bisogno di insegnanti nella loro dimensione antropologica che implica, tra l’altro, l’esercizio di una libertà, oppure possiamo aderire alle concezioni tecnico-scientifiche dell’insegnamento, che comprimono inesorabilmente le autonomie loro riconosciute?
Per cercare una risposta, anziché percorrere le strade del diritto o della storia, con Meirieu ed alcuni altri autori, guarderemo all’essenza di ciò che accade tra le mura di tutte le scuole: alla relazione educativa e personale tra l’insegnante e i suoi alunni.
Dodici tensioni
Partiamo dalla postura professionale dell’insegnante che, in barba ai luoghi comuni, è tutto fuorché comoda: si tratta piuttosto di un esercizio di equilibrismi, di un percorso situato sulla cresta di un rilievo, che chiede continui aggiustamenti, in un senso o nell’altro. In un libro di alcuni anni fa, Meirieu (2015, pp. 7–11) conta non meno di undici tensioni che interessano questa postura: tra educabilità e libertà, tra trasmissione e scoperta, tra programmi e progetti, tra il “già” ed il “non ancora”, tra obbedienza ed autogestione, tra imposizione e libertà, tra inibizione e realizzazione, tra omogeneità ed eterogeneità, tra pianificazione ed improvvisazione, tra mezzi e risultati e tra discipline e pedagogia.
Non volendoci accontentare, eccoci a proporne una dodicesima: l’insegnante deve districarsi anche tra l’impegno con la “verità” e l’“anticipazione della fiducia”. Il primo elemento deriva dalla stessa natura dell’istituzione scolastica: scrive Eirick Prairat (2017, p. 59; traduzione mia) che “l’insegnante è il rappresentante di una piccola porzione di mondo ed è a suo nome che è autorizzato a parlare”. Il docente porta con sé gli allievi nel mondo, dicendo loro “come stanno le cose” o, in termini più aristotelici[2], mostrando loro “la verità”. E lo fa con grande prudenza, facendo proprio l’imperativo espresso da Edgar Morin nel primo de I sette saperi necessari all’educazione del futuro: quello d’insegnare la natura della conoscenza, compresa la sua genesi e la sua fallacia (2001, pp. 17–30). Per inciso, osserviamo che questo “impegno con la verità nell’epoca della postverità[3]”, non ha a che fare “solo” con la dimensione cognitiva, ma anche con quella etica dell’educazione alla cittadinanza, che assume la verità quale oggetto di desiderio e punto di riferimento assiologico. Tale impegno con la verità vincola l’insegnante, anche nella formulazione delle valutazioni formative e certificative, ad una postura che tende all’oggettività: suo compito non è tanto alterare la realtà in funzione degli allievi, bensì accompagnare quest’ultimi a costruire nessi di consapevolezza e di attitudine con la realtà.
D’altro canto – e qui giungiamo al secondo polo della tensione – il docente deve possedere anche quello “sguardo fenomenologico[4]” sull’allievo che non si limita a considerare lo “stato attuale delle cose”, ma che si apre alla dimensione della “possibilità”:
La sospensione […] delle precomprensioni che normalmente guidano la nostra interpretazione dei fenomeni – scrive Daniele Bruzzone – ha lo scopo di permettere alla nostra coscienza di educatori di non restare imbrigliata nelle maglie della tradizione o della consuetudine (2022, p. 27).
La ragione di tale necessità si rintraccia nella stessa natura dell’esperienza dell’imparare: essa sempre punta ad un cambiamento (Tramma 2022, p. 139), ad una crescita, che richiede la messa in moto del discente nel lavoro proposto dall’insegnante. Questa attivazione presuppone un atto di libertà (Laffranchini, 2015), che può essere più o meno condizionato:
Quelli che hanno già fatto esperienza delle soddisfazioni per aver compreso qualcosa […] s’impegneranno volentieri […] – afferma Meirieu, forzando un po’ la mano. – Quelli per i quali le conoscenze teoriche sono stati solo preoccupanti ostacoli […] colgono l’occasione per sfuggire a nuove prove (Meirieu, 2023, p. 22).
Soprattutto a beneficio dei secondi, l’insegnante deve curare il proprio sguardo, vedendo già ora nell’allievo – come ben insegnano gli studi sull’effetto Pigmalione (Rosenthal e Jacobson, 1999) – ciò che egli può diventare in futuro. Non si tratta però di proiettare aspettative: la fiducia è leggera, priva di giudizio e scevra da logiche retributive. Essa è discreta, non pone scadenze e non fa gli interessi di terzi. È un’apertura circa le possibilità che l’adulto, dall’alto della sua esperienza e dalla fermezza della sua maturità, vede nel minore più nitidamente del minore stesso. Non si tratta nemmeno di mentire: l’alterazione della realtà, affermando che l’allievo ha già conseguito risultati non visti, promuove la staticità; l’anticipo della fiducia è carico, invece, di potere trasformativo. Escludiamo, quindi, un ottimismo arbitrario e sconnesso dai dati di fatto. Non si chiede all’insegnante di negare la realtà o di concedere tutto ad un discente, bensì di fondere la dimensione dell’oggettività con quella della fiducia in una tensione virtuosa, sempre da regolare: già il feedback, si trattasse anche della comunicazione di una misura riparativa, nella modalità con la quale è dato dall’insegnante, può sprigionare fiducia ed iniziare un rilancio verso mete ulteriori. Non è un “ce l’hai fatta”, non è un “devi farcela” ma è un “puoi” che si trasmette già in un semplice sguardo.
Una questione personale
L’insegnante realizza questi bilanciamenti “da alchimista” sui piani, paralleli, di due diverse personalità: quella della classe e quella di ciascun allievo. L’apprendimento è perlopiù una questione personale. Gli psicologi sociali e gli insegnanti lo sanno bene: tutti i gruppi hanno una propria identità, con la quale ogni docente costruisce una relazione irripetibile. Analogo è il discorso per ciò che accade tra un maestro e ciascun suo alunno. E il primato della personalità si riscontra sia nell’ambito cognitivo sia in quello dell’educazione ai valori. Entriamo brevemente in queste due dimensioni.
Come abbiamo già osservato, ciascun alunno si pone diversamente di fronte alla sfida che è posta dalla dinamica trasformativa dell’apprendimento. Ultimamente, nella scuola media in cui insegno, ha avuto luogo un’attività di educazione fisica dedicata all’utilizzo, molto diffuso nella nostra regione, della bicicletta. Nel cortile è stato allestito un percorso speciale che culminava con un esercizio più complesso degli altri: i ragazzi erano invitati a salire, con la propria “due ruote”, su un bilanciere, simile a quelli che si trovano nei parchi giochi. Una volta raggiunta la metà dell’asse, questo ripiegava verso il basso, permettendo agli allievi di proseguire la corsa. Accompagnando una classe all’attività, mi sono piazzato proprio a quel punto del percorso, al fine di osservare il momento topico dell’esercizio per ogni alunno che ha deciso di cimentarsi. Da quella posizione ho subito notato qualcosa di simbolicamente interessante: ciascun allievo, salendo sul bilanciere, aveva un’espressione molto personale, indice del vissuto che stava accompagnando la sua “esplorazione del nuovo”: qualcuno sorrideva pacificamente, qualcuno era guardingo ed altri mostravano espressioni situate negli ordini del timore o della paura. Alla fine, nell’apprendimento, nessuno può sostituire il soggetto che, è sì accompagnato dall’insegnante, ma sempre giunge a un punto nel quale, solo con sé stesso, si misura con la novità.
Altrettanto serrata è la sfida intrapersonale che è lanciata dall’educazione ai valori. Lo dice bene una filosofa che di questi temi si è occupata parecchio: “Il requisito [per un giudizio morale] non è un’intelligenza altamente sviluppata […] ma la predisposizione a vivere assieme a se stessi” (Arendt, 1964, p. 37). È nella relazione con sé che si coltivano le basi per una crescita morale fondata sulle cosiddette “motivazioni intrinseche” e, non certo casualmente, è proprio la sfera personale ad essere particolarmente mortificata dall’“educazione” prevista dai regimi totalitari (Gecchele, Polenghi e Dal Toso, 2020, p. 115). Un limpido esempio di questa dinamica ci è offerto da Inge Scholl (1961, pp. 21-22), quando riporta ciò che spinse i suoi due fratelli Hans e Sophie, ancora bambini giovanissimi, ad intuire che nell’“educazione” nazionalsocialista qualcosa non andava: un loro compagno aveva proposto una bandiera personalizzata, da lui ideata, come contrassegno per il loro gruppo; iniziativa che fu rigettata da un comandante della Hitlerjugend tanto duramente da suscitare, in difesa del piccolo, una reazione violenta da parte di Hans. Nei contesti che non hanno interesse verso lo sviluppo del senso morale la dimensione personale è minata alle basi.
Tornando alla libertà
Riassumiamo, in sede conclusiva, le caratteristiche esaminate della postura professionale dell’insegnante. Egli, sia nell’ambito delle discipline sia in quello dell’educazione ai valori, organizza un lavoro di avvicinamento al mondo, che pone alla libertà del discente una sfida trasformativa. Per fare ciò, il maestro è chiamato, da un lato a mantenere costantemente l’alunno in relazione con la realtà e, dall’altro lato, a rilanciarlo, con fiducia, verso ulteriori traguardi. In questi bilanciamenti, egli tiene presenti, il più possibile, le caratteristiche della classe e dei singoli allievi:
nulla – scrive Meirieu (2015, p. 165) – è più determinante [per la riuscita dei discenti] del modo [dell’insegnante] di spostarsi nella classe, di guardare ogni allievo, di fermarsi accanto al banco di questo o di quell’altro, di dare la parola a questo piuttosto che a quello, di iniziare chiedendo il quaderno del tale alunno.
L’insegnamento è tutto fuorché una professione meramente “tecnica”, che possa essere esercitata con contenuti e metodi del tutto standardizzati (Meirieu 2024, pp. 40-41). La sua stessa natura esige insegnanti pienamente umani, quindi insegnanti con una libertà; con uno spazio di scelta anche degli argomenti (libertà d’insegnamento) e dei metodi (autonomia didattica). E questo spazio di discrezione – forse è bene rammentarlo – rischia di sfumare se le istituzioni promuovono, con insistenza eccessiva, i singoli approcci didattici del momento.
L’insegnante ha a che fare con gruppi unici ed allievi irripetibili, per i quali la sfida dell’apprendimento ha sfumature diverse. Un gruppo necessita di un incoraggiamento, associato a sfide più motivanti; un altro gruppo ha forse bisogno di un feedback diretto, unito alla proposta di contenuti meno astratti. Un allievo chiede un po’ di “tregua”, per l’altro è invece il momento di una “spinta”.
Qui affonda le radici quella la libertà del docente che non è un elemento accessorio, ma un diritto reso irrinunciabile dalla stessa essenza, squisitamente antropologica, di tutte le relazioni educative.
Riferimenti bibliografici
Arendt, H., Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2010 (19641).
Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000.
Bertolini, P., Ragazzi difficili, FrancoAngeli, Milano 2021 (19931).
Bruzzone, D., Saper vedere. Per una fenomenologia dello sguardo educativo, in “Scholé. Rivista di educazione e studi culturali”, 1, 2022, pp. 17-34.
Dewey, J., Esperienza ed e educazione, Raffaello Cortina, Milano 2020 (19381).
Gecchele, M., Polenghi, S. e Dal Toso, P. (a cura di), Il Novecento: il secolo del bambino?, Junior, Bergamo 2020.
Laffranchini, R., Il rischio della libertà: un’esperienza di scuola, Itaca, Castel Bolognese 2015.
Meirieu, Ph., Chi vuole ancora gli insegnanti?, Armando, Roma 2024.
Meirieu, Ph., Quale educazione per salvare la democrazia?, Armando, Roma 2023.
Meirieu, Ph., Fare la Scuola, fare scuola: democrazia e pedagogia, Franco Angeli, Milano 2015.
Morin, E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001.
Prairat, E., Éduquer avec tact, Esf sciences humaines, Paris 2017.
Tramma, S., L’educatore imperfetto: senso e complessità del lavoro educativo, Carocci, Roma 2022 (20031).
Rosenthal, R. e Jacobson, L., Pigmalione in classe, Franco Angeli, Milano 1999 (19681).
Scholl, I., La Rosa Bianca, Itaca, Castel Bolognese 2020 (19611)
Note
[1] Tra i fattori che caratterizzano questa concezione, Meirieu inserisce anche “l’ansia da rilevamento dati” e le classifiche internazionali sulle competenze che creano una sorta di “concorrenza” tra scuole.
[2] Nel IV libro della Metafisica, Aristotele afferma: “Il vero […] è dire che l’essere è e che il non-essere non è” (2000, p. 179).
[3] È questa la parola dell’anno scelta dagli Oxford dictionaries per il 2016, periodo nel quale sono state proposte numerose pubblicazioni relative al tema.
[4] Piero Bertolini (1993) è considerato un apripista in questa linea di pensiero.
L’autore
Raffaele Beretta Piccoli (raffaele.berettapiccoli@supsi.ch) insegna filosofia dell’educazione alla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi) ed è docente di storia ed educazione alla cittadinanza nella scuola media del Canton Ticino (Svizzera).
Foto di Giorgia Montanari.