Insegnare la filosofia o le filosofie? | Teaching philosophy or philosophies?
A. Vigilante, Insegnare la filosofia o le filosofie?, in “Educazione Aperta” (www.educazioneaperta.it), n. 9 / 2021.
PDF: DOI 10.5281/zenodo.5167239
Le indicazioni ministeriali
Le Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento concernenti le attività e gli insegnamenti compresi nei piani degli studi previsti per i percorsi liceali (Decreto 7 ottobre 2010, n. 211) tratteggiano come segue l’obiettivo generale dell’insegnamento della filosofia nei Licei:
Al termine del percorso liceale lo studente è consapevole del significato della riflessione filosofica come modalità specifica e fondamentale della ragione umana che, in epoche diverse e in diverse tradizioni culturali, ripropone costantemente la domanda sulla conoscenza, sull’esistenza dell’uomo e sul senso dell’essere e dell’esistere; avrà inoltre acquisito una conoscenza il più possibile organica dei punti nodali dello sviluppo storico del pensiero occidentale, cogliendo di ogni autore o tema trattato sia il legame col contesto storicoculturale, sia la portata potenzialmente universalistica che ogni filosofia possiede.
La parte che ho evidenziato in corsivo riconosce senza alcuna possibilità di equivoco che la filosofia è una pratica universale e non esclusivamente occidentale, che appartiene alla ragione umana e che trova diverse espressioni nelle varie tradizioni culturali. Il problema è come interpretare quell’inoltre. Si può intendere che, dopo una trattazione sul carattere appunto universale della filosofia, si passerà allo studio del pensiero occidentale, oppure che lo studio di quest’ultima avverrà sempre nel più ampio orizzonte della filosofia come pratica universale. Nel primo caso resterebbe da chiedersi come mai, se la filosofia è una pratica universale, a questa universalità non si dedichi nulla più di una premessa. Di fatto, si tratta in effetti di nulla più di una premessa quasi beffarda, perché di questa universalità non v’è traccia alcuna nelle indicazioni concrete riguardanti gli autori e le correnti raccomandati: da Socrate, Platone ed Aristotele ad pensiero cristiano, poi Cartesio, Hume, Locke, Rousseau, Kant, Hegel, fino a Heidegger e l’ermeneutica. Non un solo cenno a pensatori non europei, nemmeno di sfuggita, nemmeno come premessa, appunto, allo studio del pensiero occidentale. E non si può fare a meno di chiedersi in che modo lo studente possa raggiungere quell’obiettivo generale dopo aver studiato per tre anni solo la filosofia occidentale.
Uno sguardo ai manuali
In un saggio del 1998 il compianto Paolo Vicentini osservava: “È sorprendente che nel ventunesimo secolo si continuino a scrivere testi di storia della filosofia che in realtà concernono solamente la storia della filosofia europea”. A distanza di più di vent’anni tocca constatare – con sorpresa accresciuta – che ben poco è cambiato. I manuali scolastici continuano ad ignorare l’esistenza di una filosofia non occidentale o dedicano ad essa nulla più che qualche cenno. E se spesso l’omissione non merita nemmeno una spiegazione, in qualche caso gli autori si soffermano ad illustrare le ragioni di una tale scelta con argomentazioni sulle quali sarà interessante soffermarci. Considererò, per ragioni di spazio (e di pazienza del lettore) solo i manuali più diffusi.
Nella Storia della filosofia di Giovanni Reale e Dario Antiseri la questione è risolta con l’affermazione perentoria che la filosofia è una “creazione del genio ellenico” che “non soltanto non ha l’identico corrispettivo presso i popoli orientali, ma nemmeno qualcosa che analogicamente, dal punto di vista metodologico, ammetta il paragone con la filosofia dei Greci o la prefiguri in modo inequivoco”. Senza questa eccezionalità non si coglie, insistono gli autori, il fatto che l’Occidente “abbia preso, sotto la spinta dei Greci, una direzione completamente diversa da quella dell’Oriente”, e nemmeno si comprende “perché la scienza sia potuta nascere appunto solamente in Occidente e non in Oriente”. Certo, osservano, alcuni orientalisti hanno avanzato la tesi di una derivazione della filosofia dall’Oriente, ma si tratta di una tesi che oggi è possibile rigettare con argomentazioni “incontrovertibili”, e cioè: 1. di una derivazione dall’Oriente non fanno cenno storici e filosofi greci dell’età classica; 2. è “storicamente dimostrato” che i popoli orientali con cui i greci vennero a contatto possedevano una “sapienza” fatta di “convinzioni religiose, miti teologici e ‘cosmogonici’”, ma non una scienza filosofica “basata sulla pura ragione”; 3. non siamo a conoscenza di alcuna utilizzazione greca di scritti orientali o di traduzioni; 4. se anche si potesse dimostrare “che alcune idee dei filosofi greci hanno antecedenti nella sapienza orientale, e che da questa siano potute derivare”, ciò non cambierebbe granché, perché la Grecia, anche quando accoglieva contenuti da “altre forme di vita spirituale”, dava loro “una strutturazione rigorosamente logica”.
La ricerca del pensiero di Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero, versione aggiornata di quello che per molto tempo è stato il più adottato ed autorevole manuale scolastico di filosofia, non sottovaluta la questione, analizzando in modo non superficiale il dibattito tra orientalisti e occidentalisti, pur parteggiando per questi ultimi. Ed è questa conclusione ad apparire superficiale. Scrivono gli autori: “se la sapienza orientale è di tipo religioso e tradizionalistico poiché è privilegio e patrimonio della casta sacerdotale, e dunque ancorata a una tradizione ritenuta sacra e immodificabile, la sapienza greca si presenta invece, in quanto filosofia, come una ricerca razionale che nasce da un atto di libertà di fronte alla tradizione, al costume e a qualunque credenza accettata come tale”. Una affermazione che colpisce perché solo qualche pagina prima gli autori hanno presentato in modo non sbrigativo il Buddhismo. Ora, chiunque conosca un po’ il Buddhismo sa che esso nasce in reazione alla tradizione esistente, nega la sacralità dei testi sacri, i Veda, la validità dei sacrifici religiosi e l’autorità della casta sacerdotale (i brahmani); e per segnare la distanza rispetto a quella tradizione i testi buddhisti vengono tramandati in una lingua diversa dal sanscrito, il più popolare pāli. Se dunque la filosofia è caratterizzata da un “atto di libertà di fronte alla tradizione”, allora quella buddhista è senz’altro filosofia. Ma non solo: come vedremo, il Buddha non era solo in questa ribellione alla tradizione. Non sorge nemmeno il sospetto che considerare le civiltà indiana e cinese, per richiamare solo le maggiori, come una secolare ripetizione di una tradizione sotto il segno di un incontrastato dominio sacerdotale sia il risultato di una particolare miopia, più che una realtà storica e culturale.
In Pensiero in movimento, un manuale che sta ottenendo un rapido successo anche grazie alla fama dell’autore, Maurizio Ferraris spiega l’esclusione di qualsiasi filosofia non occidentale con la similitudine, non felicissima ma significativa, degli alieni. Immaginiamo, scrive, di trovarci in un pianeta di un’altra galassia e di scoprire che le creature che lo abitano – gli alieni, appunto – conoscono un gioco nel quale si lancia la palla dentro il canestro della squadra avversaria. Potremmo affermare che quegli alieni conoscono la pallacanestro? Sì, perché quel gioco assomiglia alla nostra pallacanestro, ma al tempo stesso no, perché la pallacanestro è un gioco che ha una sua storia. Ed è questa la ragione per la quale non possiamo considerare i ragionamenti che si sono sviluppati al di fuori dell’Occidente la stessa cosa della filosofia. Possiamo immaginare che a un certo punto dell’evoluzione diversi individui “abbiamo sviluppato ragionamenti e discorsi simili a quelli che oggi sono considerati filosofia, ma in maniera autonoma dalla storia della filosofia occidentale”, ma non possiamo considerare questi ragionamenti come filosofia, perché quest’ultima, “al pari della pallacanestro, si riconosce in una sua storia unitaria, come un albero che si sviluppa nel tempo con le sue radici, il suo tronco e le sue ramificazioni. Non vi possono essere rami che crescono staccati dall’albero e le sue radici: per quanto somiglianti all’albero, non ne sono davvero parte”.
Il ragionamento di Ferraris è naturalmente inattaccabile nella sua banalità: è ovvio che le filosofie orientali non sono parte della filosofia occidentale, per quanto sia tutt’altro che ovvio, invece, affermare l’assoluta autonomia della filosofia occidentale, che invece si inserisce – e non potrebbe essere diversamente – in una rete di influenze e di scambi culturali, senza i quali non sarebbe la stessa. Il viaggio in Africa o in Oriente è, secondo la testimonianza di Diogene Laerzio, un elemento comune della biografia dei primi filosofi occidentali. È ben noto che Pirrone seguì Alessandro in India “fino a giungere ad avere rapporti con i Gimnosofisti in India e con i Magi” ma secondo Diogene i contatti dei filosofi greci sono ben precedenti: Pitagora fu in Egitto e poi presso i Caldei e i Magi, Platone “passò in Egitto, presso i profeti”, mentre dovette rinunciare ad un ulteriore viaggio per incontrare i Magi, così come Democrito “fu discepolo di alcuni Magi e Caldei”. Difficile accertare l’elemento di verità di questa testimonianza, ma il fatto stesso che si sia creata la leggenda di questi viaggi indica che era diffusa la convinzione che l’Oriente fosse depositario di qualche originaria verità. Lo stesso Diogene Laerzio riferisce, pur contestandola, la tesi secondo la quale la filosofia è nata presso “i barbari”, termine che include tanto i Magi quanto i Caldei e i Gimnosofisti e i Druidi.
Se consideriamo la filosofia come un’espressione particolarmente vivace dello spirito greco, non possiamo fare a meno di considerare anche che questa vivacità è a sua volta stata alimentata dai frequenti scambi culturali tra la Grecia e tutta l’aria mediorientale, a sua volta in contatto con l’Oriente persiano ed indiano. Le contaminazioni erano frequenti anche quando la facilità di contatti della nostra società globalizzata era semplicemente impensabile; viaggiavano le merci, viaggiavano le persone e viaggiavano le idee.
La questione della originalità o meno della filosofia appare poco rilevante. Il punto è un altro. Per quale ragione non dovremmo studiare i ragionamenti di altri popoli, che pure riconosciamo essere simili a quelli della filosofia? Perché dovremmo farlo, se gli stessi filosofi antichi hanno mostrato sempre il più vivo interesse per quello che hanno pensato gli altri popoli? Non è questo un atteggiamento antifilosofico? Dovremmo farlo solo perché, come afferma Ferraris, non rientrano nella storia unitaria – che poi unitaria non è, come vedremo – della filosofia europea? L’argomento, si badi, prescinde dalla qualità dei ragionamenti che sono stati sviluppati al di fuori dell’Europa. Non si afferma che questi ragionamenti non ci interessano perché sono puerili, immaturi, non all’altezza di quelli europei; si afferma che non interessano perché sono altri.
Dallo stesso ragionamento di Ferraris si deduce che esiste un esercizio del pensiero che possiamo considerare universale, espressione di un bisogno umano di riflessione e di problematizzazione, di cui la filosofia non è che una espressione locale. Possiamo fare la similitudine dell’architettura. Abitare è un bisogno umano universale. La costruzione di dimore è espressione universale del genio umano. In Occidente essa ha preso una direzione precisa, con una successione di stili che rendono ben riconoscibili un tempio greco, una chiesa cristiana, un palazzo rinascimentale. Si è sviluppata una disciplina che si occupa della progettazione degli spazi abitati, l’architettura. Al di fuori dell’Europa esistono dimore altre, non inferiori per complessità e bellezza, espressione di diversi criteri estetici e di diverse concezioni dell’abitare, ma che scaturiscono dallo stesso bisogno universale di abitare un luogo. Anche al di fuori dell’Europa la costruzione di dimore complesse richiede conoscenze tecniche e teoriche avanzate, benché non esista, per ovvie ragioni, la parola architettura, che è di origine greca come la parola filosofia. Si obietterà che in questo caso esiste però una continuità pratico-teorica. Con tecniche diverse, i costruttori di dimore in Cina, in India, in Mesopotamia e in Grecia fanno sostanzialmente la stessa cosa, sì che la loro azione può rientrare in uno stesso concetto – non locale ma universale – di architettura, cosa che non è possibile per la filosofia, perché pensatori greci e indiani o cinesi fanno cose diverse.
Consideriamo allora un’altra attività umana: la religione. La parola religione viene dal latino ed indica una serie di esperienze che da un lato esprimono una realtà universale, che possiamo chiamare bisogno del sacro, e dall’altra è particolare, propria delle società europee. Al di fuori dell’Europa lo stesso concetto occidentale di religione, come sfera particolare di esperienza, separata da altre sfere come la politica o la stessa filosofia, è sconosciuto. Si prenda il termine sanscrito dharma. Si tratta di una parola complessa, che può indicare la legge, la verità, il dovere, ma anche il singolo fenomeno. Ciò che in Occidente chiamiamo Buddhismo è il Buddhadharma, il dharma del Buddha, mentre lo Hinduismo è Sanātanadharma, il dharma eterno. Possiamo dire per questo che il Buddhismo e lo Hinduismo non sono religioni? Potremmo negare che siano religioni tutte quelle non occidentali, dal momento che il concetto di religione è occidentale? E uno studioso di religioni potrebbe non occuparsene? Evidentemente no. Perfino nell’insegnamento della religione cattolica, che è un insegnamento confessionale, non si manca di offrire una panoramica sulle religioni orientali.
Nel caso della religione è avvenuto uno slittamento semantico. La parola, che in senso stretto indica l’esperienza religiosa occidentale, è stata estesa fino ad abbracciare qualsiasi esperienza del sacro, comprese forme lontanissime dalle religioni europee. Il termine è al tempo stesso locale e universale, e nessuno discute espressioni come religione indiana o religione cinese. Lo stesso slittamento sta avvedendo di fatto anche per il termine filosofia. Espressioni come filosofia indiana e filosofia cinese sono ormai in uso da tempo, mentre la filosofia comparata, che si fa iniziare con Objet et méthode de la philosophie comparée (1911) di Paul Masson-Oursel, ha più di cent’anni.
Si potrebbe obiettare che in campo religioso, nonostante la evidente diversità di pratiche, ci sono tuttavia elementi comuni importanti, come la credenza in Dio e forme di devozione o la presenza di libri sacri, mentre non si può dire lo stesso delle espressioni del pensiero. Si torna al problema: filosofi occidentali e pensatori orientali fanno cose diverse. Ma è davvero così? I pensatori orientali fanno cose diverse dai filosofi? E cosa fanno, esattamente, i filosofi occidentali? Fanno una sola cosa o fanno cose diverse?
Filosofi occidentali e non occidentali fanno cose diverse?
Consideriamo la prima questione. I filosofi non occidentali fanno davvero cose diverse da quelli europei? Si tratta di un pregiudizio che, come ogni pregiudizio, nasce dall’ignoranza. Ricorrente è la visione di ogni filosofia orientale come mistica e dunque come irrazionalismo. Come misticismo è liquidata tutta la storia della filosofia indiana, che invece ha al suo interno fin dalla più remota antichità correnti materialistiche, scettiche, atee. Come è noto, il pensiero indiano classico ha sviluppato sei punti di vista (darśana) diversi: il Sāṃkhya, il più antico sistema filosofico, che si può definire dualistico, affermando la tensione tra un principio spirituale, il puruṣa, e un principio materiale, la natura o prakṛti; lo Yoga, che sviluppa i temi del Sāṃkhya nella forma di una tecnologia del sé molto complessa; il Nyāya, la scuola logica e gnoseologica; il Vaiśeṣika che procede ad una attenta classificazione dei fenomeni, con una impostazione realista ed ateistica; la Mīmāṃsā, la scuola che, concentrandosi sulla esatta esecuzione dei rituali vedici, ha sviluppato la riflessione nella direzione dell’esegesi e dell’ermeneutica; il Vedānta, l’insieme di scuola filosofiche che sviluppano le tematiche delle Upaniṣad. Come è stato notato, ognuno di questi darśana “affronta in maniera sistematica tutti o molti dei problemi che anche in Occidente formano il terreno privilegiato della filosofia: quali sono le sostanze reali, come si conosce e attraverso quali mezzi efficaci, qual è la natura del linguaggio.” L’India, ridotta alle sue pratiche religiose, si mostra ora come un continente che nei secoli è stato attraversato dal materialismo, dall’ateismo, dallo scetticismo, che fin dall’antichità ha riflettuto sulla molteplicità dei punti di vista e sulla sua necessità di armonizzarli, e così via. Ma non solo. Esiste anche una antica corrente materialistica, la scuola Cārvāka o Lokāyata, considerata blasfema e osteggiata esattamente come il materialismo ateistico in Occidente; lo stesso pensiero buddhista sostiene l’irrilevanza della questione di Dio e in generale delle domande metafisiche. Contemporanei del Buddha erano il materialista Ajita Keshakambalin, per il quale dopo la morte il corpo si dissolve negli elementi materiali, Makkhali Gosala, determinista e negatore del libero arbitrio, Sanjaya Belathiputta, scettico ed agnostico, oltre a Mahāvīra, fondatore del Jainismo. Proprio i sutra buddhisti ci restituiscono il quadro di una civiltà caratterizzata da una estrema vivacità intellettuale, nella quale saggi di diverso orienamento si incontrano periodicamente, e pubblicamente, per dispute filosofiche con vincitori e vinti.
L’India mistica e spirituale è la caricatura occidentalistica di una cultura caratterizzata fin dall’antichità dalla molteplicità delle interpretazioni del mondo e dalla vastità di interessi teoretici, che comprendono l’ermeneutica, la linguistica e semiotica, la psicologia (si pensi all’Abhidhamma buddhista, la sezione del Canone che contiene una raffinata psicologia finalizzata alla liberazione dalla sofferenza psicologica, con l’attenta distinzione tra stati mentali salutari e non salutari) e così via.
Se consideriamo l’altro grande grande continente culturale orientale, quello cinese, cade anche il pregiudizio e l’alibi del misticismo. “Confutii honores religiosae adorationis nihil habere videntur”, scriveva ammirato Leibniz quando la conoscenza del pensiero confuciano cominciava a farsi strada nell’Europa colta. Il pensiero di Confucio in effetti colpisce per la sua laicità, per la concretezza delle tematiche di cui si occupa, prevalentemente etiche e politiche, per la postura dialogica (per quanto si tratti di un dialogo diverso da quello socratico) e non dogmatica. Il Taoismo, pur avendo più evidenti tratti religiosi, ha una profondità filosofica che consente letture parallele con diversi momenti della filosofia occidentale, da Eraclito a Spinoza fino ad Heidegger. Al di là delle figure, note ai più, di Confucio, Lao-Tzu e Chuang-Tzu, il pensiero cinese antico è ricco di monenti sorprendentemente attuali. Si pensi al dibattito sulla bontà della natura umana: da un lato Mencio che afferma che “tutti gli uomini hanno un cuore che non tollera le sofferenze altrui”, affermazione che dimostra con l’esperimento mentale del bambino e del pozzo (nessuno resterebbe indifferente vedendo un bambino che sta per cadere in un pozzo), dall’altro Hsün Tzu (Xunzi) che sostiene che “La natura umana è malvagia: ogni bene umano è acquisito con uno sforzo cosciente”. Anche questo un dibattito che ha punti di contatto significativi con il pensiero occidentale, così come molto vicina alla riflessione politica occidentale è la critica in Mencio della violenza strutturale causata dal potere politico, il cui fine dev’essere il bene comune:
Il re Hui di Liang disse: ‒ L’uomo di scarsa virtù volentieri desidera ricevere i tuoi insegnamenti. ‒ V’è qualche differenza ‒ domandò Mencio ‒ tra l’uccidere la gente col bastone e l’ucciderla con la spada? ‒ Non v’è differenza ‒ rispose il re. ‒ Con la spada o con il governo, v’è qualche differenza? ‒ Non v’è differenza. ‒ Nelle tue cucine hai carni grasse ‒ disse Mencio ‒ e nelle scuderie hai grassi cavalli, (mentre) il popolo ha il viso della fame e nei campi incolti giacciono i morti d’inedia. Questo è condurre gli animali a mangiare gli uomini: (eppure) l’uomo ha in orrore (perfino) che le bestie si divorino fra loro. Se colui che è il padre e la madre del popolo governa senza evitare di condurre gli animali a mangiare gli uomini, in che modo è il padre e la madre del popolo? Chung-ni disse: “Colui che per primo fece dei fantocci (da seppellire insieme ai morti) non meritò di restare senza posterità?” (Disse così) perché colui aveva raffigurato l’immagine dell’uomo e ne aveva usato (a quello scopo). E che si dovrebbe fare a chi riduce il popolo a morire di fame?
È solo l’inizio di una riflessione filosofica che nei secoli si è sviluppata in una molteplicità e complessità di punti di vista di cui poco o nulla sa l’occidentale colto.
La contrapposizione tra un Occidente razionale e filosofico e un Oriente mistico e religioso è solo frutto di un pregiudizio non più tollerabile. Ad uno sguardo onesto, l’Occidente appare mistico, irrazionale e religioso (e tutti questi aspetti rientrano senza difficoltà nei nostri manuali di storia della filosofia) non meno dell’Oriente, così come i diversi mondi che compongono ciò che chiamiamo Oriente mostrano un esercizio della ragione, anche scientifica, degno di rispetto e di attenzione.
I filosofi occidentali non fanno sempre la stessa cosa
La convinzione che i filosofi non europei facciano cose diverse implica la considerazione della filosofia occidentale come percorso lineare e caratterizzato da una forte identità: la “storia unitaria” di cui parla Maurizio Ferraris. Ma è davvero unitaria, questa storia?
Come è noto, il primo filosofo occidentale e definirsi tale è stato Pitagora. Riferisce Diogene Laerzio:
Sosicrate, nelle Successioni dei filosofi, informa che, quando gli venne richiesto da Leone, tiranno di Fliunte, chi fosse, rispose: “Un filosofo”. Era solito assimilare la vita a una festa con le gare: come, infatti, alcuni vi partecipano per prendere parte alle competizioni, altri per fare commercio, altri invece, i migliori, com~ spettatori, così nella vita, a suo avviso, gli uni si rivelano schiavi, quelli che vanno a caccia di fama e di guadagno, gli altri, invece, filosofi, che vanno a caccia della verità. E così stanno le cose.
Ora, l’orizzonte del pensiero di Pitagora – che era una figura con tratti divini per i suoi discepoli, e non mancava di compiere miracoli – è esattamente lo stesso del pensiero indiano antico. “Dicono che costui per primo abbia dichiarato che l’anima, percorrendo un ciclo stabilito da necessità, si vincoli ora ad alcuni viventi, ora ad altri”, riferisce ancora Diogene Laerzio. L’anima è presa in un ciclo di rinascite, legata alla materia ed imprigionata in essa, e potrà liberarsi solo grazie alla conoscenza filosofica. Questa concezione della filosofia si ritrova nel Fedone platonico, dove Socrate spiega che compito della filosofia è liberare l’anima dalla prigione del corpo in cui si trova a causa della sua ignoranza (Fedone, 82E-83B). Così intesa, la filosofia è una pratica di liberazione dal mondo, che si distingue dalla religione – ma stretti sono i legami con la tradizione orfica – per il ruolo attribuito alla conoscenza e all’indagine, e che si può leggere in continuità con un sistema filosofico indiano come il Sāṃkhya.
Se il Socrate platonico è la figura suggestiva che mostra con la sua stessa morte la nobilità della filosofia come pratica di liberazione – la convinzione che l’anima sia altra dal corpo e che la morte consenta di affrancarsi dalla prigione del mondo materiale è ciò che consente di affrontare con dignità la morte – quello che compare nella pagine dei Memorabili di Senofonte è un uomo che cala la saggezza nella vita quotidiana, teso più ad orientarsi nel mondo che a liberarsi da esso. Per questo Socrate il “conosci te stesso” è la via per avere successo sfruttando nel modo migliore i propri talenti, così come è importante la cura del corpo per mantenerlo in buona salute ed il lavoro, anche manuale, per superare situazioni di difficoltà, ma più di ogni altra cosa è importante l’enkrateia, l’autodominio che ci consente di sottrarci alla schiavitù delle passioni. In questo Socrate, come nell’Aristotele dell’Etica Nicomachea, ed in Epicuro e poi in molti altri nei secoli a venire, la filosofia è una pratica di adattamento al mondo, ci indica la via per vivere la nostra vita in questo mondo affrontando la sofferenza e cercando efficacemente la felicità.
Una terza concezione della filosofia compare alle soglie dell’età moderna, prima con il naturalismo rinascimentale e poi con il pensiero filosofico legato agli sviluppi della scienza. Piuttosto che adattarsi e cercare di minimizzare la sofferenza in un mondo minaccioso e instabile, è possibile cercare di dominare questo stesso mondo, di addomesticarlo, di plasmarlo secondo le nostre esigenze. Quello che filosofi come Campanella, Telesio, Giordano Bruno pensano di poter fare ricorrendo a un sapere magico, Francesco Bacone annuncia di poterlo fare attraverso la conoscenza sperimentale. Questo pratica di dominio tecnico del mondo è una via della filosofia che, a ben vedere, interpreta in modo diverso una sua antica aspirazione. Si può dominare il mondo trasformandolo effettivamente con la tecnica, ma anche inquadrandolo concettualmente, facendoli rientrare in schemi e categorie, ordinandolo con il pensiero. In Platone c’è anche questo: il mondo, sfuggente e minaccioso, è anche però la copia – la migliore copia possibile, stando al Timeo – di un ideale mondo perfetto, e da questo rispecchiamento metafisico trae stabilità e forma. Aristotele aggiungerà il concetto di sostanza, vero fondamento della stabilità del mondo occidentale, almeno fino alla soglia del mondo moderno.
“I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo.” L’annuncio della undicesima Tesi su Feuerbach di Marx apre una nuova via della filosofia: la filosofia, appunto, come pratica trasformativa della realtà sociale, o filosofia della prassi. Si tratta in realtà di una pratica che segue lo stesso principio del dominio tecnico: la differenza è che non riguarda la natura esterna ma la realtà sociale ed economica. Ma è anche, nella sua pars destruens, espressione di una delle anime più antiche della filosofia: quella critica, corrosiva verso l’ordine sociale vigente, verso le tradizioni e le convinzioni religiose. Una via che va dai Sofisti e i Cinici fino ai libertini e al curato Meslier, per giungere alla Scuola di Francoforte e ai rappresentanti della cosiddetta teoria critica.
Uscita dal mondo, ricerca della vita buona, dominio tecnico della natura, ricerca di una società giusta, critica della tradizione e della cultura dominante sono alcune delle cose diverse, anche se spesso legate tra loro e compresenti, che è stata ed è la filosofia occidentale.
Se prendiamo in analisi il metodo dobbiamo constatare una uguale diversità. Affermare che la filosofia è una ricerca razionale non vuol dire nulla, perché della tradizione filosofica fa parte anche la critica della ragione. La ragione dei filosofi analitici non è, oggi, la stessa cosa della ragione dei filosofi cosiddetti continentali. Lo stesso stile di scrittura filosofica comprende cose diversissime tra di loro. Gli scritti di Nietzsche, che hanno influenzato e ancora influenzano profondamente la filosofia europea, agli occhi di un sostenitore della filosofia come scienza rigorosa quale era Edmund Husserl appaiono nulla più che “letteratura filosofica”, ma nessuno negherebbe che Nietzsche sia stato un filosofo (magari dubitando della sua grandezza). Il trattato sistematico non è che una delle forme che ha preso in Occidente la scrittura filosofica; sappiamo che i primi scritti dei filosofi occidentali avevano un carattere poetico, e uno dei maggiori filosofi europei del Novecento come Martin Heidegger individuava nella poesia l’essenza stessa del linguaggio e la via dello svelamento della verità.
Cos’è, dunque, la filosofia?
La filosofia è dunque cose diverse: diversi fini, diversi linguaggi, diverse visioni del mondo, diverse idee di ragione. Cos’è, allora, la filosofia? Cosa tiene insieme tutte queste diversità? In che modo distinguere ciò che è filosofia da ciò che non lo è? Non è facile rispondere a questa domanda. Ci si può approssimare a una risposta considerando cosa non è filosofia. Non è filosofia qualsiasi verità o visione del mondo che si pretenda rivelata, che si ponga come indiscutibile e che pertanto si sottragga al confronto ed alla problematizzazione. C’è filosofia se, e solo se, c’è confronto e discussione. C’è filosofia se c’è molteplicità, diversità. Nessuna visione unica è compatibile con la filosofia. La filosofia è forse la pratica del confronto sulle questioni che riguardano il senso della nostra vita e del mondo.
Se questa definizione non è errata – e sarebbe ben strano se non fosse discutibile: sarebbe una definizione non filosofica della filosofia – allora insegnare solo la filosofia europea, in una società che è ormai globalizzata e consente un confronto tra le diverse culture mondiali, è una cosa profondamente antifilosofica.
L’interculturalità filosofica
La scuola italiana giunge alle sfide della società pluriculturale largamente impreparata. Al di là delle dichiarazioni di principio, quella italiana è di fatto una scuola monoculturale, di cui il crocifisso alle pareti è un simbolo eloquente. La presenza, sempre più significativa, di studenti stranieri non è valorizzata come occasione di arricchimento culturale, ma costituisce un problema che si cerca di affrontare colmando le loro mancanze. Per lo più lo si fa organizzando dei corsi di italiano; nel migliore dei casi – ma sono casi rari – ricorrendo alla figura del mediatore culturale. Ma dovrebbe essere la scuola stessa una istituzione che opera per la mediazione culturale, che fa dialogare i mondi, che moltiplica le domande e le possibilità di incontro.
In mancanza di una mediazione, le culture tendono a chiudersi ed a contrapporsi ideologicamente. Nel dibattito sul multiculturalismo si compie spesso l’errore, denunciato da Marco Aime, di considerare le culture come degli insiemi monolitici, compatti, piuttosto che come aree culturali e sistemi simbolici complessi. Identificare una cultura con il suo aspetto religioso aumenta questo rischio di considerare l’altro in modo riduttivo, che è un atteggiamento di cui si avvantaggiano peraltro i diversi fondamentalismi. L’importanza di considerare, conoscere, valorizzare le filosofie degli altri si fa qui evidente. Perché se c’è una caratteristica comune dell’atteggiamento filosofico, ovunque si presenti, è la problematizzazione, la messa in discussione, la moltiplicazione dei punti di vista. Quando lo spirito della filosofia si fa presente in una società, essa diventa complessa, esposta al dubbio, capace di criticare sé stessa. Vista sub specie philosphiae, la cultura altra non è un blocco identitario, ma un campo di esperienza aperto, esattamemente come lo è il nostro. Enfatizzare l’aspetto religioso – e dunque rituale, istituzionale, dogmatico – delle culture significa enfatizzarne la compattezza, la staticità, l’identità. Il dialogo filosofico tra culture scopre invece in esse l’altro aspetto: quello della discussione e della molteplicità interna, del pluralismo e del dubbio. Se l’enfasi sulla religione porta al multicultualismo, alla convivenza tra culture chiusa ognuna nella sua identità, il riconoscimento filosofico dell’altro è intrinsecamente interculturale, crea al tempo stesso fratture e connessioni, attraversa i confini, consuma pregiudizi ed identità e tende verso l’orizzonte di una sola umanità che problematizza sé stessa e le sue espressioni culturali.
Come fare?
Resta una obiezione pratica. Come insegnare anche la filosofia non europea, se già seguire lo sviluppo del pensiero occidentale nelle poche ore a disposizione per la disciplina (tre o due ore settimanali, a seconda del tipo di Liceo) è difficile? Naturalmente non è possibile aggiungere alla trattazione della storia della filosofia europea una trattazione parallela della filosofia cinese, indiana, giapponese, islamica, né è utile trattarle a mo’ di appendice. L’approccio non può che essere tematico. Per una didattica interculturale della filosofia occorre spezzare il procedere rigidamente storico con nuclei tematici che diventano finestre interculturali. I nessi in qualche caso saranno quasi naturali, tali sono le affinità tanto tematiche quanto cronologiche. È il caso dell’era assiale di Karl Jaspers, quel periodo particolarmente fertile per la storia dell’umanità e per molti versi fondante che comprende i primi filosofi greci, la Scuola confuciana e il Taoismo in Cina, il Buddhismo e le Upaniṣad in India, Zarathustra in Iran, i profeti ebrei. È possibile studiare in parallelo il pensiero di Socrate, quello del Buddha e quello di Confucio come risposte diverse, ma con non pochi punti di contatto, alle domande sulla vita buona. Il collegamento può essere sincronico, tra pensatori significativi apparsi più o meno contemporaneamente in diverse aree geografiche, o tematico, mettendo a confronto pensatori anche di epoche diverse, opportunamente contestualizzati. Il tema del potere, ad esempio, può essere indagato legando il realismo occidentale come Machiavelli ed Hobbes all’Arthaśāstra ed alla Muqaddimah di Ibn Khaldun. Il nesso può essere, ancora, di semplice affinità, per cui si può affrontare il Sāṃkhya in parallelo con il sistema platonico o la negazione dell’essere in Gorgia con la Prajñāpāramitā buddhista. Importante è che i diversi percorsi consentano una conoscenza non superficiale delle concezioni in qualche modo fondanti delle diverse civiltà (tale è indubbiamente, per quanto riguarda la Cina, il Confucianesimo), di far conoscere i principali temi di discussione delle culture non europee e, soprattutto, di dare il senso di un patrimonio culturale che, come quello occidentale, può essere esplorato per tutta la vita traendone gioia, orientamento intellettuale ed alimento spirituale. Occorre avere ben chiaro che l’insegnamento della filosofia non può limitarsi all’acquisizione più o meno ampia di nozioni e contenuti culturali. Dietro la pratica millenaria e mondiale della filosofia c’è lo sforzo umano – forse destinato al fallimento, ma strettamente legato alla stessa dignità umana – di dare un senso alla vita. E questo stesso sforzo dev’essere dietro lo stesso studio della filosofia. La quale è interale, per usare un termine coniato da Luigi Vero Tarca (si potrebbe dire che è olistica, se il termine non fosse stato risucchiato dalla galassia New Age). Pensare, vivere filosoficamente vuol dire considerare la nostra esistenza nel suo complesso e mirare a una conoscenza del tutto (una conoscenza, aggiungo, che può anche cogliere il tutto come conflittuale e scisso). Se questa è la vocazione della filosofia, allora il suo insegnamento non può fare a meno di abbracciare l’umanità stessa come un intero, di trarre alimento, nella difficile opera di interpretazione del qui ed ora della nostra esistenza, dalle interpretazioni che sono state tentate in altri tempi e in altri luoghi, che pure ci appartengono.
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Antonio Vigilante è docente di Filosofia e Scienze Umane presso il Liceo “Piccolomini” di Siena. Si occupa di pedagogia, nonviolenza, filosofia morale e interculturale. Tra i suoi libri: Il Dio di Gandhi (2009), La pedagogia di Gandhi (2010), Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci (2012), L’educazione è pace. Scritti per una pedagogia nonviolenta (2014), A scuola con la mindfulness (2017), Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore (2018), Aldo Capitini in dialogo con Nishitani Keiji, Enrique Dussel e Murray Bookchin (2019) e Le dimore leggere. Saggio sull’etica buddhista (2021).
MIUR, Decreto 7 ottobre 2010, n. 211, Allegato C. Corsivo mio.
P. Vicentini, Il problema dei rapporti fra filosofia greca e orientale negli attuali manuali di storia della filosofia, in “Quaderno dell’Associazione Filosofica Trevigiana”, anno XIX, m. 2, 1998, ora in Id., La tessitura della saggezza. Tra Oriente e Occidente, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 145.
Unica eccezione è la Storia del pensiero umano di Ernesto Balducci, uscita nel 1986 e purtroppo non più ristampata. Nella Prefazione del primo volume Balducci spiegava le ragioni del suo lavoro con parole forti ma pienamente condivisibili: “Come è possibile, mi andavo domandando da tempo, trasmettere nella scuola la porzione piu preziosa dell’eredità culturale del passato, quella filosofica, senza che questa significhi rendere un servizio all’eurocentrismo, che e stato la premessa ideologica di tanti crimini compiuti in nome della civilta? Non esiste, infatti, soltanto un razzismo etnologico, esiste, come suo risvolto latente, un razzismo intellettuale, che consiste nella identificazione, teorica o pratica, tra il pensiero occidentale e il pensiero senza aggettivi. Si continua ad insegnare la filosofia, perfino nelle università e a pubblicare storie della filosofia col sottinteso che altre filosofie non si danno se non quella nata sulle sponde della Ionia e giunta a piena maturazione nella spazio euroatlantico” (E. Balducci, Storia del pensiero umano, vol. 1, Cremonese, Firenze 1986, p. XI).
Si tratta della classica tesi hegeliana delle Lezioni sulla storia della filosofia sulla cui linea si pone Eduard Zeller (La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico, edizione italiana a cura di R. Mondolfo, Firenze, La Nuova Italia, 1932-1961). Il pregiudizio eurocentrico di questa posizione è denunciato da molti studi, tra i quali Atena nera di Martin Bernal, che sottolinea il contributo dei fenici e degli egiziani alla nascita della filosofia (Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, traduzione di L. Fontana, Parma, Pratiche editrice, Parma 1992) e, per quanto riguarda i rapporti con l’Oriente, La filosofia greca arcaica e l’Oriente, di M. West (il Mulino, Bologna 1993).
G. Reale, D. Antiseri, Storia della filosofia, vol. 1, La Scuola, Milano 2021, p. 19.
E la cosa sarebbe davvero singolare, visto che i testi del Tipitaka, il Canone buddhista in lingua pāli, ad esempio, sono stati messi per iscritto soltanto nel I secolo a.C.
Ivi, p. 20.
N. Abbagnano, F. Fornero, La ricerca del pensiero, vol. I, Paravia, Milano 2014, p. 9.
M. Ferraris e Laboratorio di Ontologia, Pensiero in movimento, vol. 1A, Pearson, Milano-Torino 2019, pp. 8-9.
Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006 (seconda edizione), p. 1103.
Ivi, pp. 944-945.
Ivi, p. 313.
Ivi, p. 1069.
Ivi, p. 9.
G. Boccali, C. Pieruccini, Induismo, Electa, Milano 2008, p. 206. Per una approfondita panoramica del pensiero indiano si veda D. Rossella, Induismo. Religiosità, pensiero, letteratura, Guerini e Associati, Milano 2017.
La complessità dell’India è rivendicata da Amartya Sen in *L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana, Mondadori, Milano 2005.
G.G. Leibnitii, Opena Omnia, tomus quartus, Apud Fratres de de Tournes, Genevae 1768, p. 82. Cfr. G.G. Leibniz, La Cina, Spirali, Milano 1997.
Sulla razionalità confuciana si veda F. Jullien, Il saggio è senza idee o l’altro della filosofia, Einaudi, Torino 2002.
Per una interpretazione del Taoismo nell’ottica della filosofia comparata si veda G. Pasqualotto, Il Tao della filosofia. Corrispondenze tra pensieri d’Oriente e d’Occidente, Luni, Milano 2016.
Mencio, Libro II, 29 in Testi confuciani, traduzione di F. Tomassini, UTET, Torino 1974, pp. 306-307.
Xunzi, 23, 1a, in J. Knoblock, Xunzi. **A translation and study of the complete works, Stanford University Press, Stanford 1988, vol. 3, p. 150.
Mencio, Libro I, 4, in Testi confuciani, cit., pp. 272-273.
“La Cina è quella grande porzione di umanità e di civiltà che resta ancora essenzialmente sconosciuta al mondo occidentale, senza aver cessato di suscitarne la curiosità, i sogni, gli appetiti – dai missionari cristiani del XVII secolo agli uomini d’affari di oggi, passando per i filosofi dei Lumi e gli zelatori del maoismo”, osserva Anne Cheng (Storia del pensiero cinese, vol. 1, Einaudi, Torino 2000, p. 5).
D. Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, cit., p. 949.
Ivi, p. 955.
Senofonte, Memorabili, IV, 2, 24-30, in Senofonte, Tutti gli scritti socratici, a cura di L. de Martinis, Bompiani, Milano 2013, pp. 553-557.
Memorabili, III, 12, 2-8, ivi, pp. 519-521.
Memorabili, II, 7, 1-11, ivi, pp. 407-415.
“Perché dio volendo che tutte le cose fossero buone e, per quant’era possibile, nessuna cattiva, prese dunque quanto c’era di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente, e lo ridusse dal disordine all’ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello. Ora né fu mai , né è lecito all’ottimo di far altro se non la cosa più bella”. Timeo, 29d-30b. Platone, Opere, Laterza, Roma-Bari 1974, vol. 2, p. 479.
K. Marx, Tesi su Feuerbach. Cito dalla traduzione di Palmiro Togliatti in F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Editori Riuniti 1950, pp. 77-80.
E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1989, p. 40. “Al posto della filosofia vivente in modo unitario, non abbiamo che una letteratura crescente all’infinito quasi priva di connessione; al posto di una seria meditaziuone tra le teorie in contrasto, che pur nel loro opporsi manifestano un’intima solidarietà, in quanto convengono assieme nelle loro convinzioni fondamentali e nutrono una fede sicura nella vera filosofia, non troviamo che pseudoesposizioni e pseudocritiche, mere apparenze di un filosofare comunitario e collaborativo”.
M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004.
La denuncia di questo rischio è tra gli aspetti più interessanti del libro di Cinzia Sciuto Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 2018.
Si potrebbe anche obiettare che i docenti di filosofia italiani sono ampiamente impreparati per una didattica interculturale della filosofia. Le Università italiane sono in effetti, con poche eccezioni, chiuse alla filosofie altre, e la stessa filosofia interculturale è poco presente. Ma una buona formazione filosofica di base offre quel rigore intellettuale e quella flessibilità mentale che consentono al futuro docente di costruire da sé il proprio profilo intellettuale e professionale.
K. Jaspers, Origine e senso della storia, Comunità, Milano 1965.
L. Vero Tarca, Una vita pensata: la filosofia come forma di vita, in Aa. Vv., Insegnare filosofia. Modelli di pensiero e pratiche didattiche
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