Il sistema laboratoriale e l’esempio De Bartolomeis | The laboratory system and the De Bartolomeis example 

PDF: DOI 10.5281/zenodo.7573927

Abstract

The contribution focuses on the methodology of the "laboratory", seen as a place of research in which to design, elaborate and experiment with the subject, and its implementation by Francesco De Bartolomeis, starting from the 70s. Advocate and scholar of the "laboratory system", the pedagogist and art critic, considers this training approach "a favorable ground for developing creative skills" and an essential factor of education, since it offers the student the opportunity to observe with "and learn via a path of doing ”which applies direct observation, imagination, perception and contact.

Key Words: De Bartolomeis, Laboratory System, Art Education.

Il contributo si sofferma sulla metodologia del “laboratorio”, visto come un luogo di ricerca in cui progettare, elaborare e sperimentare con la materia, e la sua attuazione da parte di Francesco De Bartolomeis, a partire dagli anni ‘70. Fautore e studioso del “sistema dei laboratori”, nella formazione degli educatori, il pedagogista e critico d’arte, considera questo approccio formativo “terreno favorevole a sviluppare capacità creative” e un fattore essenziale dell’educazione, poiché offre all’allievo la possibilità di osservare, apprendere e conoscere mediante un percorso del “fare” che si applica con l’osservazione diretta, l’immaginazione, la percezione ed il contatto.

Key Words: De Bartolomeis, Sistema dei Laboratori, Didattica dell’arte..


La parola “laboratorio” fa parte del lessico dell’educazione attiva fin dalle sue origini. Uno degli esempi più eclatanti fu sicuramente la “scuola-laboratorio”, la scuola elementare annessa all’università che John Dewey aveva voluto e sperimentato a Chicago a partire dal 1896, il cui scopo era: “creare le condizioni che permettano e incoraggino la libertà di investigazione e che offrano le garanzie che importanti fatti non vengano sottratti alla ricerca” (Dewey, 1971, p.71). Dewey, filosofo e pedagogista, militante dell’attivismo didattico, fu uno dei primi studiosi ad affermare l’importanza, nella riflessione pedagogica, dell’azione come base della conoscenza e della formazione degli allievi, formulando le sue ipotesi anche riguardo l’arte come esperienza. Nell’opera Democrazia ed educazione del 1916 con l’espressione learning by doing indicava ogni metodologia basata sul concetto di “imparare facendo”, metodo attivo di didattica che permette di imparare, capire, comprendere e non solo memorizzare in maniera mnemonica, grazie al docente che stimola, orienta e facilita il percorso. Da questi concetti nasce l’idea di laboratorio educativo, il cui fulcro della ricerca è l’esperienza e il rapporto tra l’ambiente e la società.

Il pensiero di Dewey e la nuova elaborazione della didattica, che considerava lo studente al centro del metodo di apprendimento, ben presto furono recepiti e divulgati dagli intellettuali e dagli educatori italiani. Nel dopoguerra protagonista di questo nuovo attivismo fu Ernesto Codignola che iniziò un’opera di divulgazione attraverso la casa editrice La Nuova Italia, la rivista “Scuola e città”, quest’ultima inaugurata nel 1950, e le lezioni universitarie. Basti ricordare che Codignola nel 1946 pubblicò Le scuole nuove e i loro problemi dove presentava l’americano come “il maestro dell’attivismo”. La scoperta di Dewey comportò il proliferare di opere critiche, traduzioni e approfondimenti: Lombardo Radice fa pubblicare Scuola e società e studiosi come Lamberto Borghi[1], tra gli anni Sessanta e Settanta, rileggono i suoi studi e cercano un sistema per applicarli alla realtà italiana. Borghi conobbe in maniera diretta il pedagogista americano dopo essersi rifugiato negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni razziali. Tornato in Italia diventò coordinatore della “scuola di Firenze”, già guidata precedentemente da Ernesto Codignola, e ambiente in cui gravitavano Visalberghi, Laporta, De Bartolomeis.

Francesco De Bartolomeis teorizza un nuovo significato di laboratorio: un sistema di laboratori. Allievo di Ernesto Codignola, appassionato di psicanalisi, di scienza e del pensiero di Marx, si avvicina alla pedagogia intesa come “filosofia in azione o filosofia d’intervento”, vicina “all’esistenzialismo come mutamento sociale”[2]. Studia le teorie pedagogiche di John Dewey ma si sofferma, in particolare, sul rapporto tra didattica e arte visiva, riprendendo il pensiero sull’arte, considerata il mezzo più indicato per utilizzare, in maniera costruttiva, l’energia creativa racchiusa nel bambino dal momento che stimola l’osservazione, il potenziamento dell’immaginazione e delle abilità comunicative. Già in Art as experience, saggio sulla didattica dell’arte a scuola e al museo, l’americano ribadiva l’importanza, nel rapporto con le opere, dell’esperienza, unico sistema per sperimentare, reinventare ed elaborare in simboli i linguaggi dell’arte. Pertanto l’esperienza estetica a scuola, che si configura sempre più come un processo e un’interazione linguistica tra le informazioni esterne, risulta, sia “sapere” che “fare” ed è intesa come tutte quelle strategie che coinvolgono educazione e arte, emozione e cognizione.

La ricerca di De Bartolomeis e del suo sistema di laboratori parte da questi concetti ma comunica con il tessuto culturale italiano: il pedagogista considera la scuola attiva un sistema per rispondere alle esigenze sociali di acculturazione e modernizzazione dell’Italia flagellata dalla guerra. Già negli anni giovanili[3] è attento alla società in continuo cambiamento: scrive nella rivista di economia e politica “Il ponte” fondata da Piero Calamandrei e collabora con la rivista “Comunità” del noto imprenditore Adriano Olivetti. Successivamente, dopo un’esperienza di insegnamento in Toscana (nelle Università di Pisa e Firenze), dal 1956 al 1988 avrà la cattedra di Pedagogia presso l’Università degli Studi di Torino.

Le sue esperienze nella formazione degli educatori si sintonizzano con un momento in cui si aprono nuove finestre di opportunità per attività laboratoriali a scuola e nei sistemi locali di servizi culturali e sociali, tanto che promuove un’accezione peculiare del termine stesso “laboratorio”: parla di “sistema dei laboratori”. Il pedagogista vede nell’approccio laboratoriale un fattore essenziale dell’educazione poiché “laboratorio” è luogo di ricerca, spazio della comprensione e del fare dedicato alla visione, dotato di strumenti e materiali, attrezzato e strutturato in relazione al linguaggio espressivo, secondo una matrice educativa in cui l’attività creativa ed espressiva non è “asservita” all’apprendimento e viceversa. Il sistema dei laboratori è quindi l’ossatura stessa della scuola, non una semplice attività.

Le idee e la “scuola attiva e laboratoriale” che teorizza De Bartolomeis non possono essere comprese pienamente senza aver posto l’attenzione ai cambiamenti culturali, politici e sociali dell’Italia del dopoguerra e soprattutto al suo impegno nel Partito comunista italiano (dal 1975), alla sua attività come professore, a quella di traduttore dei maggiori pedagogisti stranieri (con la casa editrice Loescher). Nasce in questo contesto l’idea secondo cui la pedagogia sia una scienza solo se “basata su una ricerca che dà dei risultati che vanno verificati”[4]. La pedagogia si sviluppa anche grazie agli apporti delle altre discipline e grazie ai legami nella scuola stessa e fuori di essa, attraverso un sistema formativo integrato, non è isolata, anzi si interfaccia con la realtà economica e professionale ed è coadiuvata dalle attività culturali del territorio. Tra tutti si pensi alle istituzioni museali[5], che offrono la possibilità di studiare i manufatti da vicino e conoscerne le caratteristiche[6]. Ma il rapporto tra scuola e beni culturali spesso si limita a sporadiche visite guidate e sono insufficienti i musei che hanno messo a disposizione degli studenti locali attrezzati. In Fare scuola fuori della scuola, De Bartolomeis osserva l’importanza di svolgere attività all’esterno della scuola e, al contempo, di “guardare” la scuola dall’esterno per rivitalizzarla rispetto alle altre istituzioni (De Bartolomeis, 2018.). Il libro[7], nasce all’inizio degli anni ‘80 (De Bartolomeis, 1980) in un periodo in cui – come dichiara lo studioso nell’intervista che funge da preambolo della nuova edizione – “c’era grande fermento educativo: scuola a tempo pieno, scuola e territorio, necessità di rinnovare i contenuti culturali con la collaborazione di esperti esterni” (ivi, p.21), anni in cui “c’era una forte solidarietà e il bisogno di cambiare” (Ibidem). Il sistema dei laboratori, in un momento cruciale per la lotta ai diritti, che ha caratterizzato gran parte degli anni Sessanta e Settanta, contribuisce anche a dare un contenuto metodologico alla nascente scuola a tempo pieno.

De Bartolomeis mira attraverso il laboratorio a un rinnovamento della scuola ordinaria, quindi insiste sulla necessità di “attuare un sistema formativo allargato” (ivi, p.22) per progettare buone pratiche che agiscono sia dentro che fuori la scuola seguendo la triade programmazione, ricerca e documentazione. Il sistema formativo allargato[8] infatti richiede una preliminare individuazione delle problematiche reali, una ricerca dettagliata e una documentazione di verifica poiché “va collegato a ricerche su problemi a dimensione reale, sul mondo del lavoro, sulle realtà culturali, sui servizi, sull’ambiente” (De Bartolomeis, 2018, p.22).

Propone la sua idea di laboratorio nel 1969 e la realizza nell’Università di Torino nel 1972. Chi frequentava i suoi corsi accademici, in via Maria Vittoria, oltre a seguire le lezioni e studiare su testi e manuali, aveva l’opportunità di frequentare laboratori pratici in cui si progettava, si dipingeva, e in cui, come sottolinea lo stesso De Bartolomeis, “ci si sporcava le mani”. Successivamente il sistema dei laboratori fu sperimentato nella nuova scuola a tempo pieno. Una trattazione sistematica si trova nel saggio del 1978 Sistema dei laboratori.

La novità di questo libro sta nel fatto che secondo De Bartolomeis il laboratorio non è considerato come un fatto isolato ma come un sistema. Un sistema laboratoriale che non va a coadiuvare il servizio educativo e didattico ma una scuola programmata e strutturata soltanto in laboratorio. All’interno della sede scolastica modifica l’organizzazione degli spazi (dalle luci, all’arredamento, all’acustica, alle dimensioni) in favore di ambienti mobili e strutturati in maniera polifunzionale adattabili secondo la tipologia di scuola.

Nei primi laboratori attuati “c’erano, oltre la biblioteca, sale per le riunioni di gruppi, un laboratorio misto (ferro, legno, materiali plastici), un forno ceramico professionale, un gabinetto per la fotografia, una cinepresa, una fotocopiatrice, un elementare computer (siamo in anni precedenti gli sviluppi dell’informatica). Per attività che non trovavano competenze interne, si ricorreva a esperti esterni di sicuro valore”[9]. Superato il gruppo classe, secondo il pedagogista, lo spazio per la scuola dell’infanzia dovrebbe essere protettivo, per la primaria mobile e relazionale e per la secondaria specialistico.

Il laboratorio fornisce non solo strumenti e materiali ma anche condizioni per l’apprendimento per ripensare in maniera critica alla dimensione ludica, in favore di creatività, scoperta, progettazione, elaborazione, sperimentazione con la materia ma soprattutto lavoro individuale e di gruppo.

Il terreno di formazione della teoria è proprio la pratica, anche se non c’è da aspettarsi che da questa emerga automaticamente la teoria. Occorre un’attenzione particolare e deliberata per una metodologia flessibile di teorizzazione che a livello didattico consideri non solo gli aspetti cognitivi ma anche quelli emotivi e personali. […] è importante capire che la teorizzazione consiste non nel riflettere sull’esperienza ma nello sviluppare esperienza. Quindi ci sono cose nuove da fare e traguardi nuovi da raggiungere. (De Bartolomeis, 1978, p.253)

Il laboratorio così: “fornisce tutte le condizioni materiali, strumentali, di competenza, di tempo, per fare veramente ricerca e, a seconda delle esigenze, definisce delle situazioni specifiche all’interno della scuola tanto che va assunto come una modalità generale di condurre l’apprendimento e quindi di affrontare i problemi” (De Bartolomeis, 1987).

Il conduttore del laboratorio, l’insegnante, che può essere coadiuvato da professionisti, è colui che progetta le varie attività, programma le finalità, procede alla strutturazione degli spazi e verifica, sia in itinere che alla fine del percorso, che si siano raggiunti gli obiettivi prefissati. De Bartolomeis chiarisce che chi progetta il laboratorio dovrebbe “averne fatto personale esperienza[10]”. Quindi l’insegnante o il professionista “deve aver fatto esperienze creative; se vuole curare i rapporti interpersonali deve aver lavorato in gruppo nei periodi della sua preparazione o nei corsi di aggiornamento” (De Bartolomeis, 1976, p.213).

Alla sua attività di pedagogista De Bartolomeis ha sempre affiancato quella di critico e studioso d’arte e di educazione artistica attraverso la curatela di mostre, organizzazione di eventi, pubblicazioni e approfondimenti sull’arte contemporanea, dai grandi dell’Ottocento agli artisti delle Avanguardie del Novecento. Quindi nei suoi scritti pedagogici dedica ampio spazio ai laboratori di storia dell’arte, specialmente contemporanea[11], secondo un metodo caratterizzato dalla interazione tra conoscenza dell’arte e produzione artistica in situazione di laboratorio.  De Bartolomeis nel 1972 si esprimeva così pensando appunto al rapporto tra didattica e arte visiva:

il crescente interesse della pedagogia per l’espressione grafico-figurativa e plastica, la valorizzazione degli scarabocchi possono far pensare che il problema dell’educazione artistica abbia ormai ricevuto soluzioni più avanzate e che esse siano largamente presenti nel processo educativo. In realtà l’attività espressiva dell’allievo è apprezzata nei limiti di una occupazione ludica (considerata come transitoria e marginale e perciò da permettere quando non si può chiedere sempre un impegno di apprendimento). Ma non manca la tendenza a farla divenire una cosa in certa misura seria. E così dopo il periodo permissivo dello scarabocchio grafico e del pasticciare con i colori della casetta, degli alberi e del sole, delle figure che violano ogni proporzione al loro interno e nei loro rapporti, l’insegnamento sollecita verso la figurazione pseudo realistica perseguendo il grande ideale della rappresentazione grafica: chi prima ci arriva è più bravo. A causa di questi limiti è retorica la proclamazione del valore dell’arte. (De Bartolomeis, 1972, pp.92-93)

De Bartolomeis teorizza un laboratorio che sia un percorso “serio” e del “fare”, uno spazio di ricerca per maturare riflessioni, costruire una relazione dialogica con l’opera d’arte e l’artista e rielaborare quanto appreso, in maniera personale, con la materia. Un laboratorio che non insegna a spiegare ma a reinventare un nuovo linguaggio, come quello artistico.

Lo studioso si sofferma sul valore dell’esperienza estetica a scuola che prende vita dentro il laboratorio, come luogo per percepire, sentire e produrre il bello attraverso la sperimentazione. Lo studente è coinvolto grazie all’osservazione diretta, alla ricerca, all’immaginazione, alla percezione e al contatto con l’ambiente.

I laboratori di arte differiscono tra loro per ambiti di ricerca, metodologia e finalità ma tutti sono progettati secondo un’idea esperienziale che privilegia la componente espressiva e relazionale. Tra gli obiettivi si ricordano: conoscere il bello, il patrimonio artistico e le tecniche, sperimentare con le tecniche ed i linguaggi artistici, creare con materiali diversi, educare allo sviluppo sostenibile, integrare le conoscenze e le abilità attraverso l’interdisciplinarietà didattica, valorizzare le capacità personali (autonomia, autenticità, autostima, collaborazione, cooperazione) e le diversità, osservare i manufatti, le situazioni, i fatti e i fenomeni, sviluppare capacità espressive, comunicative, logico-operative, fantasia e immaginazione, lavorare in gruppo, acquisire nuove conoscenze nel disegno, nell’uso dei colori, nelle tecniche pittoriche, nella decorazione, nella scultura, nell’installazione, utilizzare in modo consono il materiale, comunicare quanto appreso attraverso le immagini. Il linguaggio delle immagini, nello specifico, permettere non solo di trasmettere ma anche di elaborare determinate informazioni tramite il segno e i simboli, inventare e costruire qualcosa di inedito.

In particolare, i laboratori di storia dell’arte destinati alla scuola dell’infanzia e primaria, offrono ai più piccoli la possibilità di osservare, apprendere, conoscere e un percorso “del fare”, per raggiungere obiettivi formativi e specifici di apprendimento che esplorano le aree: espressivo-corporea, scientifica, logico-cognitiva, linguistica, artistica. Si potrebbe concludere affermando che il laboratorio artistico che teorizza De Bartolomeis fornisce strumenti, materiali e condizioni idonee e adatte per l’apprendimento, stimola le relazioni attraverso il lavoro individuale e di gruppo, e diventa un luogo dell’esperienza dove far confluire il rapporto tra l’uomo e l’ambiente. È metacostruttivo perché i processi cognitivi sono multidisciplinari, strutturati su diversi livelli e stimolano la metacognizione. Per questi presupposti, e anche perché lo studente agisce in prima persona tramite l’esperienza attiva, l’apprendimento sarà più duraturo e sicuramente più efficace.

Riferimenti bibliografici

De Bartolomeis F., La pedagogia come scienza, La nuova Italia, Firenze 1953.

De Bartolomeis F., Cultura, lavoro e tempo libero, Edizioni di Comunità, Milano 1965.

De Bartolomeis F., La ricerca come antipedagogia, Feltrinelli, Milano 1969.

De Bartolomeis F., Scuola a tempo pieno, Feltrinelli, Milano 1972.

De Bartolomeis F., Il sistema dei laboratori, Feltrinelli, Milano 1978.

De Bartolomeis F., Scuola e territorio, La nuova Italia, Firenze 1983.

De Bartolomeis F., L’esperienza dell’arte, La Nuova Italia, Firenze 1989.

De Bartolomeis F., Il colore dei pensieri e dei sentimenti. Nuove esperienze di educazione artistica, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1990.

De Bartolomeis F., Girare intorno all’arte, La Nuova Italia, Firenze 1997.

De Bartolomeis F., Nuove esperienze di educazione artistica, Edizioni Junior, Bergamo 1997.

De Bartolomeis F., Entrare nell’arte contemporanea, Junior, Bergamo 2000.

De Bartolomeis F., La tridimensionalità nell’arte contemporanea, Hopefulmonster, Torino 2002.

De Bartolomeis F., L’arte per tutti. Conoscere e produrre, Edizioni Junior, Bergamo 2003.

De Bartolomeis F., Fare scuola fuori dalla scuola, a cura di E. Bottero, ristampa di Aracne Editrice, Roma 2018.

Dewey J., Il mio credo pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1954.

Dewey J., L’arte come esperienza, nuova edizione a cura di G. Matteucci, Aesthetica, Palermo 2020.

Dewey J., Scuola e società. Traduzione italiana (1950), La Nuova Italia, Firenze 1989 (edizioni Conoscenza, riedizione).

Note

[1]  A tale proposito, scrive Borghi: “L’educazione è il laboratorio nel quale le distinzioni filosofiche divengono concrete e vengono saggiate. La filosofia elabora teoreticamente i valori che educazione cerca di porre a fine dello sviluppo delle capacità naturali […]. La filosofia risponde al tempo stesso all’esigenza di integrare i vari interessi in conflitto nella vita in un atteggiamento totale, di comporre in armonia i vari interessi spirituali dell’uomo (per esempio quello scientifico con quello religioso, oppure quello economico con quello scientifico o con quello estetico, come esemplifica Dewey stesso) e di elaborare concettualmente quella visione della vita in cui una tale conciliazione sia possibile. Il suo sapere è veramente prospettico”. In Borghi, 1954, cit., pp. 31-32.

[2]  Intervista a Francesco De Bartolomeis realizzata da Enrico Bottero nel 2018 a cura dell’Associazione “Gessetti Colorati”.

[3]  Nel 1944 viene notato da Benedetto Croce grazie al saggio Idealismo e Esistenzialismo, scritto nei mesi di marzo e aprile di quello stesso anno e pubblicato presso l’editore salernitano Ricciardi. 

[4]  Intervista a De Bartolomeis realizzata da “La tecnica della Scuola” nel 2018.

[5]  “Perché chi visita un museo o una mostra possa vivere l’esperienza in modo soddisfacente c’è necessità di operatori didattici sensibili all’arte contemporanea, competenti, ricchi d’esperienza culturale legata a quest’ambito, che non si limitino a trasmettere nozioni di storia dell’arte ma che sappiano conciliare nel loro insegnamento i problemi legati alla produzione artistica contemporanea con l’esigenza di comunicare come un approccio all’arte possa diventare una chiave di lettura del mondo e della propria esistenza”. In De Bartolomeis, 1989, cit., p.23.

[6]  “Nell’esperienza con l’arte si è sollecitati innanzi tutto da emozioni ma anche da dubbi o curiosità, ma la valutazione non può avanzare molto se si fa conto solo sulla propria sensibilità, non disponendo di conoscenze che prospettino l’arte come prodotto storico, realtà fatta di tecniche e materiali, ricca di simboli e stili”. F. De Bartolomeis, L’esperienza dell’arte, Firenze 1989, cit., p.19.

[7] Il testo pubblicato nel 2018, a cura di Enrico Bottero, Fare scuola fuori dalla scuola è quello pubblicato da De Bartolomeis nel 1983 a Firenze da La Nuova Italia. Il libro, uscito con il titolo Scuola e territorio era un’edizione ampliata del volume Fare scuola fuori dalla scuola edito da Stampatori, a Torino, nel 1980. Per volontà dello stesso pedagogista, l’edizione più recente porta il titolo originale poiché più esplicativo dei contenuti trattati.

[8]  De Bartolomeis, 1982. All’interno si legge: “censire le realtà istituzionali e produttive, le risorse e le opportunità di ogni tipo esistenti sul territorio al fine di utilizzarle a favore della scuola nella direzione di un sistema formativo allargato, diventa un modo per cogliere anche il significato intrinseco dell’essere scuola dentro il territorio e quindi per ricalibrare l’assetto formativo di cui essa dispone”. Cit., p.117.

[9]  De Bartolomeis, Il sistema formativo si rinnova, quaderno n. 11, 1912 del Museo A come Ambiente.

[10]  “Un principio di sconcertante banalità balza subito agli occhi nell’iniziativa da cui è nato il sistema dei laboratori per le attività sperimentali dell’istituto di pedagogia: per insegnare qualcosa (ma più propriamente si trattava di mettere gli allievi in condizione di apprendere e di produrre) bisogna averne fatto personale esperienza. Quindi l’insegnante per introdurre la ricerca deve avere egli stesso condotto delle ricerche adoperando gli strumenti necessari secondo modalità che ne garantiscono la validità”. In De Bartolomeis, 1978, cit., p.73.

[11]  L’arte contemporanea ha un grado elevatissimo di variabilità e solo un radicale sconvolgimento dei criteri di valutazione può assegnare al campo dell’arte prodotti che sembrano avere perso ogni contatto con esso. Sono inevitabili effetti disorientanti, ma da questi bisogna partire per impossessarsi a poco a poco di strumenti che consentano di muoversi su un terreno del tutto nuovo, di farsi idee personali, di sottrarsi a sbrigativi rifiuti che sono segno di incomprensione”. In De Bartolomeis, 1991, cit., pp .33-34.

L'autrice

Valentina Certo (1989) è dottoranda di ricerca in Scienze Cogntive presso il Dipartimento Cospecs dell’Università degli Studi di Messina. Presso lo stesso Dipartimento è cultore della materia “Arte e Musei”. Dal 2019 al 2022 è stata professoressa a contratto di Tecniche Espressive ed Educazione all’Immagine presso la Lumsa, sede di Palermo. Tra le sue pubblicazioni monografie di storia dell’arte e di didattica dell’arte e libri per bambini e ragazzi.