Il Manifesto di Educazione Democratica

La democrazia, scriveva John Dewey in Democrazia ed educazione, ha una vera e propria devozione per l’educazione, e ciò per due ragioni. La prima è che un governo che dipende dal voto dei cittadini non può essere un buon governo, se coloro che lo eleggono non sono educati. La seconda, più profonda, è che la democrazia non è soltanto una forma di governo; essa «è prima di tutto una forma di vita associata, di esperienza continuamente comunicata»1. Una società nella quale gli stimoli sono molti, i contatti ampi, i mutamenti costanti ha bisogno di educare i suoi membri affinché non vengano sopraffatti da una realtà così complessa, situazione che genererebbe la confusione generale di cui si avvantaggerebbero in pochi.

La democrazia, poco dopo le speranze dell’ ’89, quando in tutto il mondo sembrava affermarsi una potente spinta dal basso per la libertà e l’autodeterminazione, si è trasformata in un marchio dei paesi occidentali da esportare se necessario con la guerra, ed è contemporaneamente entrata in una profonda crisi che è sotto gli occhi di tutti − particolarmente acuta in Italia, ma palese anche nel resto del mondo. Una crisi della rappresentanza, certo − della democrazia come la descriveva Schumpeter, come competizione delle élites − ma anche della partecipazione, della fiducia, della capacità di costruire attraverso la discussione pubblica rappresentazioni e volontà comuni.

Le cose vanno anche peggio se si considera il secondo aspetto, quello che Dewey considera più profondo, del legame tra democrazia ed educazione. Come non comprende la politica, così il cittadino medio non comprende la realtà che lo circonda, i meccanismi sociali ed economici, le trasformazioni culturali. L’impressione è appunto quella di una grande confusione sulla quale operano forze semplificatrici che fanno ricorso al pregiudizio, allo stereotipo, allo stigma verso chi è diverso. Il mondo, complesso e globalizzato, torna a farsi semplice grazie a nuovi miti collettivi, a pericolose derive irrazionalistiche, a contrapposizioni ideologiche che prendono la forma di vere e proprie guerre di religione. I nuovi partiti politici nascono sul modello aziendale, il successo elettorale si costruisce come una qualsiasi campagna di marketing  – come la pubblicità, gli slogan politici fanno leva sulle paure, sulle debolezze, perfino sulle meschinità del consumatore-elettore. In una società disgregata tramontano i valori autenticamente politici per il venir meno del senso stesso della polis. Valore politico diventa ciò che rappresenta un vantaggio per l’individuo e per la sua famiglia. L’interesse privato sostituisce la solidarietà, una malintesa sicurezza prende il posto della giustizia, la licenza di chi può permettersi di sottrarsi alle regole comuni si insedia al posto della libertà.

Il modo migliore per affrontare la crisi della democrazia è quello di affermare un ideale democratico più pieno, più ampio, più umanamente autentico di quello corrente; pensare la democrazia non solo come quel sistema nel quale i cittadini, formati ed informati, eleggono i propri rappresentanti, ma come una società nella quale tutti hanno potere. Una democrazia è autentica e sicura di sé quando le persone hanno un potere effettivo ad ogni livello della vita sociale e politica; quando c’è la possibilità di influire effettivamente sulle decisioni che riguardano il bene comune, controllando la classe politica; quando è possibile disporre di una informazione libera, che metta in grado di valutare le questioni pubbliche con serenità e consapevolezza; quando i cittadini contano quanto i grandi potentati economici ed i gruppi di interesse; quando ogni cittadino ha la stessa importanza, lo stesso riconoscimento, gli stessi diritti, lo stesso peso politico, indipendentemente dal titolo di studio, dalla condizione sociale ed economica, dall’appartenenza di genere; ed in una società democratica la stessa cittadinanza non è uno strumento per negare diritti a chi cittadino non è.

Una società democratica si segnala per la sua inclusività: è una società nella quale tutti sono riconosciuti nella pienezza della loro umanità. Si sente spesso ripetere che la democrazia è il sistema politico in cui prevale la volontà della maggioranza. Ma una maggioranza può anche essere violenta, dittatoriale, antidemocratica. Più correttamente, si potrebbe caratterizzare la democrazia come quel sistema in cui le maggioranze governano nel rispetto rigoroso dei diritti delle minoranze e dei portatori di diversità. Un test efficace per valutare la democraticità di un sistema è quello di considerarlo partendo dalla condizione di chi ne occupa simbolicamente la periferia. Come stanno gli stranieri? Come stanno i poveri? Come stanno i malati? Come stanno gli omosessuali? Come stanno le donne? Si può considerare democratica una società che discrimina gli omosessuali, che considera le donne come corpi da comprare e vendere, che crea per gli stranieri la categoria pericolosa, anzi omicida del clandestino, che sgombera i campi rom, che costringe i poveri nelle baracche e nega ai malati il diritto alla salute? No, non lo è. In una società democratica c’è un movimento incessante che va dal centro alla periferia, per includere, riconoscere, valorizzare. Una società che al contrario erige muri tra il centro e la periferia è una società nella quale la democrazia è solo un alibi, un espediente retorico, una vacua autorappresentazione.

In una società democratica tutti sono uguali. E tra uguali i rapporti non possono che essere, appunto, ugualitari, vale a dire simmetrici. Impegnarsi per una autentica democrazia vuol dire portare la simmetria a tutti i livelli della vita sociale e politica. La democrazia autentica è il sistema politico nel quale è possibile per tutti la più ampia esperienza possibile dell’umano. Poiché favorire uno sviluppo piano, ampio, armonico dell’umano è il fine ultimo dell’educazione, l’autenticità della democrazia è affidata all’autenticità dell’educazione.

Chiamiamo educazione democratica dunque un’educazione autentica. L’aggettivo sarebbe superfluo, essendo la democrazia l’unico sistema politico compatibile con una espressione piena dell’umano, se non esistessero concezioni e soprattutto prassi educative che relativizzano la dimensione politica dell’essere umano, favorendo di fatto quell’individualismo irresponsabile che sta erodendo le società avanzate. È quanto avviene nelle scuole, che presentano spesso una concezione utilitaristica della cultura e sono strutturalmente caratterizzate da rapporti asimmetrici ed ancora fondamentalmente autoritari. Nella misura in cui questa asimmetria non viene messa in crisi dall’effettiva prassi educativa dei docenti, la scuola non favorisce, ma ostacola l’autentica democrazia. Il cittadino che ha imparato a scuola ad uniformarsi ad un’autorità – o a seguire un docente autorevole – difficilmente, fuori dalla scuola, riuscirà a combattere le logiche inferiorizzanti ed a lottare per il riconoscimento pubblico della sua dignità e della sua condizione di eguaglianza.

L’educazione democratica parte dalla relazione tra docente ed alunno per ripensarla a fondo come relazione simmetrica. Essa supera il concetto di autorità con quello di cooperazione nella ricerca della verità e nella crescita comune. Il docente non è un modello, il termine fisso del processo evolutivo degli studenti, ma una persona impegnata insieme ai suoi studenti in un percorso comune di crescita. In questo percorso, la sua condizione è quella di chi guida una spedizione in una terra solo parzialmente conosciuta. Perché nessuno, per quanto grande siano la sua cultura e la sua spiritualità, può considerarsi nulla più che un umile esploratore della complessa realtà che l’uomo e le sue possibilità rappresentano. Nell’educazione democratica scompare la classe intesa come gruppo di persone che, senza comunicare e collaborare tra di loro, ascoltano la lezione. La struttura adeguata all’ideale dell’educazione democratica è il gruppo di ricerca, un insieme di persone che costruiscono conoscenza valorizzandosi reciprocamente, comunicando in modo profondo, impiegando in modo creativo le proprie competenze, sotto la guida di un docente che non trasmette conoscenze, ma coordina ed orienta il lavoro comune. Se l’educazione istituzionale ha un programma definito, un sistema di sapere da trasmettere, l’educazione democratica non può che essere aperta sia nei contenuti che nei metodi; se nell’educazione istituzionale il programma è definito a livello centrale e l’attività didattica è programmata dal docente, nell’educazione democratica la definizione degli argomenti di studio è partecipativa e tiene conto della libertà di apprendimento non meno che di quella di insegnamento.

L’educazione democratica è caratterizzata dall’apertura all’esperienza. L’educazione istituzionale individua un campo dell’esperienza umana, quello corrispondente ai valori, alla cultura, allo stile di vita della classe dominante, come l’unico valido; tutto ciò che non rientra in quel campo lo squalifica. È una educazione di classe, nella quale non trovano posto il lavoro manuale, le capacità pratiche, la cultura materiale.

L’educazione istituzionale serve. La cultura è presentata, in modo più o meno consapevole, come uno strumento valido per l’affermazione individuale. L’educazione democratica ha una concezione della cultura come ricerca comune aperta, libera e liberante dell’umano; non cerca di imporre una visione di uomo, una presunta essenza umana inevitabilmente ideologica, ma rispetta l’esistenza dei singoli ed il loro diritto di cercarsi e costruirsi liberamente, esplorandosi in molte dimensioni.

Il sistema economico capitalistico, che a livello mondiale produce dolorosi squilibri tra paesi ricchi e paesi poveri, tra persone che vivono nel lusso e persone cui non è consentita la semplice sopravvivenza, è fondato su una logica della competizione che penetra nella stessa educazione, corrompendola irrimediabilmente. Tutto il meccanismo scolastico dei voti, delle pagelle, delle promozioni e delle bocciature, è funzionale a questo sistema. La logica della competizione e della selezione si presenta come assolutamente razionale, l’unica di fatto possibile. Si tratta invece di una logica che limita fortemente la crescita individuale, indebolendo al tempo stesso i legami comunitari.

L’educazione democratica lavora per la trasformazione sociale ed economica. Il potere, la violenza ed il conflitto sono le sue tematiche centrali. Essi rappresentano i tre principali ostacoli a quella libera ricerca di sé in cui consiste l’educazione. Vale la pena di esplorare la possibilità di convertire – nell’educazione e attraverso l’educazione – il potere di alcuni in potere di tutti, la violenza in forza, il conflitto distruttivo in confronto aperto e costruttivo, la ricerca della distinzione attraverso l’istruzione nella costruzione paziente di una società di uomini liberi ed eguali grazie allo studio, al lavoro, alla comunicazione autentica.

Educazione Democratica è una rivista di pedagogia politica. Questa espressione, cui ricorre  Paul Ricoeur in un saggio su Mounier per indicare una pedagogia della vita comunitaria legata a un risveglio della persona2, non è molto usata.  L’essenza della pedagogia politica, così intesa, è l’analisi del rapporto che c’è tra cambiamento individuale e cambiamento sociale. In realtà, l’espressione può risultare pleonastica, poiché ogni forma di educazione ha un inevitabile carattere politico.

Parlando di pedagogia politica sembra che si voglia gettare la pedagogia nelle braccia dell’ideologia, proprio quando essa cerca di fondarsi come scienza. Non si può tuttavia negare che anche la riflessione pedagogica più fredda e distaccata abbia un preciso aspetto politico, vada nella direzione della realizzazione di un certo tipo di società. Il problema di pedagogia politica della nostra rivista è il seguente: quale tipo di educazione è coerente fino in fondo con l’ideale democratico? Poiché la democrazia è quel sistema politico nel quale è possibile una piena realizzazione dell’umano, questo problema si risolve in quello più generale, proprio della pedagogia: quale è il miglior modo di educare? Metodologicamente, questa ricerca terrà conto del legame indissolubile tra mezzi e fini. Se il fine dell’educazione è una società di uomini liberi ed uguali, il mezzo non potrà essere che un’educazione che rispetti nel modo più rigoroso la libertà e l’uguaglianza; se il fine è una società nella quale tutti abbiano potere, l’educazione migliore non potrà essere che quella che abitua gradualmente, concretamente all’esercizio del potere.

Le direttrici culturali lungo le quali si svilupperà la ricerca di Educazione Democratica sono quattro:

–  la tradizione della pedagogia antiautoritaria e libertaria, dall’esperimento di Jasnaja Poljana di Tolstoj fino alle proposte della descolarizzazione di Illich e Reimer, ed oltre;

– la tradizione della pedagogia laica e democratica, da Dewey e Paulo Freire ai nostri Lamberto Borghi e Piero Bertolini;

– la tradizione della pedagogia della nonviolenza, in particolare quella dei maestri italiani: Aldo Capitini, Danilo Dolci, don Lorenzo Milani;

– l’attuale movimento internazionale per la democratic education ed i molteplici tentativi di scuole alternative, dalla Subdury Valley Schools alla scuola democratica di Hadera in Israele.

Nel solco di queste tradizioni ci muoveremo con atteggiamento antidogmatico, aperto, critico, cercando di valorizzare tutte le esperienze innovative, che vadano nella direzione di un’educazione progressista ed antiautoritaria, a livello nazionale ed internazionale. Per le ragioni già spiegate, particolare attenzione riserveremo ai soggetti marginali ed alle pratiche inclusive.

Ogni numero di aprirà con un approfondimento dedicato a fenomeni politici o sociali, analizzati in generale e dal punto di vista educativo, o ad autori o esperienze legati alle linee di ricerca di cui s’è detto. Lo stile culturale è quello di una critica pedagogica completata da una critica della critica, per così dire; vale a dire da una analisi disincantata delle stesse proposte alternative.

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Note

1 J. Dewey, Democrazia e educazione (1916), tr. it, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 110.

2 P. Ricoeur, Emmanuel Mounier: un philosophe personaliste, in Id., Histoire et Vérité, Seuil, Paris 1955, pp. 137-138.