Il fattore speranza nel contesto di un continente in trasformazione | The Hope Factor in the Context of a Continent in Transformation

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Abstract

Con il Manifesto del Grido degli Esclusi, nel 2002, dal continente latinoamericano venne lanciato un appello pubblico affinché il nascente XXI secolo fosse un millennio senza esclusioni. Quegli anni coincidono con il forte processo di mobilitazione contadina e di popolazioni indigene che insorgevano per chiedere giuste legittimazioni socio-culturali. Qualcosa stava crollando sotto il peso delle proprie contraddizioni. Assistevamo al tramonto generalizzato delle buie dittature militari in tutto il continente. Una ad una quelle giunte militari caddero, grazie al fattore speranza incarnato nella pressione degli esclusi, dei discriminati e dei perseguitati e dell’impoverita classe media continentale. Chiuso il ciclo autoritario, nel continente latinoamericano si apre una nuova era, assolutamente inedita: fioriscono quasi dappertutto governi che assumono come priorità fondamentale la questione sociale, quindi, l’implicito riconoscimento della dignità della persona tramite lo strumento della lotta contro ogni tipo di esclusione e/o di discriminazione per motivi economici, sociali, etnici, culturali, religiosi, ecc. In questo scenario e nel corso di pochi anni, il continente subisce una frattura geopolitica ma anche ideologica tra governi progressisti e governi che vi si oppongono. Dopo più di una decade di governi progressisti, di investimenti economici nel sociale per accorciare le distanze tra arricchiti e impoveriti, qualcosa iniziò a rompersi nel rapporto tra questi tipi di governi e l’universo degli, ora, inclusi e legittimati. In ogni caso e malgrado le criticità, gli errori e i limiti della prima fase del ciclo progressista, possiamo dire che, comunque, quella prima fase è stata un’epoca guadagnata. Dopo la parentesi dei governi ultra neo-liberisti, le proteste popolari hanno ripreso forza e tutto punta a considerare che ci troviamo di fronte all’alba di una seconda ondata progressista nel continente.


Introduzione

Nei primissimi anni del nascente XXI secolo, precisamente nel 2002, è stato pubblicato in America Latina il Manifesto del Grido degli Esclusi[1], un documento di grande spessore di riflessione con il quale si lanciava un appello alla classe dirigente continentale e mondiale affinché il secolo che iniziava fosse, per tutti gli abitanti dell’area – incluso i Carabi – un millennio senza esclusioni.

I firmatari di quel manifesto lanciavano, allora, un grido di protesta contro le disuguaglianze e le ingiustizie del mondo che abbandonava il XX secolo per entrare in una nuova fase della storia dei popoli.

“Siamo tutti passeggeri della stessa nave: il nostro pianeta. Eppure viaggiamo in condizioni disuguali. Nella prima classe, una minoranza sociale usufruisce di tutti i privilegi. Nei magazzini malsani, gravati da fame, malattie, violenza e sfruttamento, si affolla la maggior parte della popolazione mondiale. Il nostro è un grido di indignazione, ma è anche un grido di speranza.”[2]. Questa era l’essenza del Manifesto. Non è stato un caso, infatti, che nella prima decade del XXI secolo l’America Latina venisse definita anche come “Continente della Speranza”.

Preparando il terreno: gli anni 60-70

Cosa era successo in quel frangente di tempo perché quella realtà del pianeta si meritasse tale evocativa definizione? In realtà, il processo di trasformazione continentale veniva da lontano in modo silenzioso, sotterraneo e, per certi versi, snobbato dai mass-media ma anche da alcuni degli analisti più ascoltati in materia di vicende latinoamericane.

Ci riferiamo agli anni 60-70 che, con l’uscita alla luce delle opere del grande pedagogista brasiliano, Paulo Freire, e i potenti risultati ottenuti con l’alfabetizzazione di vasti settori di esclusi, grazie all’applicazione dei suoi innovativi approcci pedagogici, prepararono il terreno per innescare un vasto processo di coscienza/resistenza socio-culturale, che spinse a parlare di speranza in tutto il continente, nonostante gran parte di esso si trovasse sotto il controllo di feroci e consolidate dittature militari.

Quelli anni, infatti, coincidono con il forte processo di mobilitazione contadina che chiedeva riforme agrarie ovunque e di popolazioni indigene che insorgevano per chiedere giuste legittimazioni socio-culturali ma anche riconoscimento giurisdizionale delle delimitazioni delle loro terre.

Sempre in quelli anni, gruppi dei più diversi paesi e dei più diversi interessi si univano per protestare contro una logica economica intrinsecamente escludente e discriminatoria; irrompevano in quasi tutti i paesi del continente i movimenti popolari organizzati che reclamavano cambiamenti profondi nelle strutture istituzionali interne, a partire dalle Costituzioni allora vigenti in quelle realtà nazionali. Da lì al sorgere della Teologia della Liberazione il passo fu breve perché anche la Chiesa latinoamericana ebbe un ruolo importantissimo nella costruzione di quel progetto di orizzonte distinto in cui era entrata tutta quella realtà continentale.

Il salto di qualità: gli anni 80-90 e il fattore speranza

Gli anni 80-90 videro un complessivo incremento della mobilitazione organizzata di massa e una maggiore attenzione da parte della pubblica opinione mondiale: qualcosa stava crollando sotto il peso delle proprie contraddizioni e delle profonde esclusioni che tali contraddizioni avevano generato. Assistevamo al tramonto generalizzato delle buie dittature militari in tutto il continente, insieme allo sgretolamento delle elitarie forme organizzative dei partiti politici tradizionali che tentavano di mantenersi a galla in quei paesi dove vigevano sistemi più o meno tolleranti, ma non democratici dal punto di vista sostanziale (erano sistemi politici tolleranti ma profondamente escludenti e classisti, quindi, ingiusti. E le ingiustizie difficilmente vanno mano nella mano con la democrazia).

Una ad una quelle giunte militari e quelle escludenti forme partitiche tradizionali caddero, grazie al fattore speranza incarnato nella pressione degli esclusi, dei discriminati e dei perseguitati; dell’impoverita classe media continentale ma anche della sensibilizzata opinione pubblica mondiale. Insomma, i residenti nelle realtà più arricchite del mondo non potevano più continuare ad ignorare ciò che stava accadendo in America Latina dal punto di vista politico, sociale, economico e culturale. Un pesante e orrendo ciclo arrivava al capolinea.

Il tramonto delle dittature militari nel continente ebbe inizio con la cacciata, mediante una rivoluzione popolare armata, di Anastasio Somoza Debayle (Nicaragua, 1978). Da lì crollarono in ordine cronologico – grazie alla pressione popolare e all’importante sostegno  della pubblica e sensibilizzata opinione mondiale – Francisco Morales Bermudez (Perù, 1980), Reynaldo Bignone (Argentina, 1983), Efraìn Rios Montt (Guatemala, 1983), João Baptista de Oliveira Figueiredo (Brasile, 1985), Juan Maria Bordaberry (Uruguay, 1985), Dési Bouterse (Suriname, 1988), Napoleòn Duarte (El Salvador, 1989), Manuel Noriega (Panama, 1989), Alfredo Stroessner (Paraguay, 1989), Augusto Pinochet Ugarte (Cile, 1990) e, infine, Raoùl Cédron (Haiti, 1994). Quest’ultimo era l’erede diretto di una delle dittature più sanguinarie di tutto il continente: quella di François “Papa Doc” Duvalier e di suo figlio Jean-Claude, detto anche “Baby Doc” (ambedue furono protetti e sostenuti dalla Francia, nonostante il risaputo terrore dei Tonton Macoute, la temutissima polizia segreta haitiana al servizio di quella dinastia di dittatori).

Il nuovo millennio e l'alba del ciclo progressista

Chiuso il ciclo autoritario, nel continente latinoamericano si apre una nuova era, assolutamente inedita: fioriscono quasi dappertutto governi che assumono come priorità fondamentale la questione sociale, quindi, l’implicito riconoscimento della dignità della persona tramite lo strumento della lotta contro ogni tipo di esclusione e/o di discriminazione per motivi economici, sociali, etnici, culturali, religiosi, ecc., ecc. In altre parole, parliamo di sistemi includenti e di legittimazione sociale degli esclusi ed emarginati.

Indipendentemente dal nome con cui ciascun paese dell’area caratterizzò il proprio processo di trasformazione interna, il fattore comune poggiava su un aspetto politicamente rilevante: lo sforzo consapevole di voler accorciare lo scandaloso divario tra arricchiti e impoveriti: è l’alba dei cosiddetti “governi progressisti” caratterizzata dalla presenza al potere di volti nuovi, anche se con riconosciute esperienze di lotta politica, sociale, sindacale, ecc.

In Centroamerica già si assisteva all’esperienza popolare del governo sandinista in Nicaragua e, qualche tempo dopo, a quello del Fronte Farabundo Martì (FFMLN) in Salvador, arrivato al potere mediante libere elezioni (dopo il frustrato tentativo di assalto popolare armato, sull’onda dell’esperienza nicaraguense).

Ma è con la vittoria elettorale del “Movimento V Repubblica” (MVR) in Venezuela e l’arrivo al potere del super carismatico ex-militare, Hugo Chavez Frias, che il mondo intero cominciò a chiedersi se il continente latinoamericano non cominciasse a sperimentare una svolta progressista – di stile moderato in alcuni casi o decisamente spinto in altri –, dato il forte supporto popolare che i nuovi governanti e i loro “modelli di governo” ricevevano.

Dopo Hugo Chavez, infatti, arrivano Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile, Rafael Correa in Ecuador, Evo Morales in Bolivia, Néstor Kirchner in Argentina e José “Pepe” Mujica in Uruguay. L’eccezione è stata l’esperienza dell’Honduras, dove il presidente legittimamente eletto, Manuel Zelaya, subì un golpe militare “tecnico”, cioè, ordinato dalla Corte Suprema del paese centroamericano, perché egli, appunto, stava cercando di unirsi al coro dei governi progressisti del continente.

In questo scenario e nel corso di pochi anni, il continente subisce una frattura geopolitica ma anche ideologica tra governi progressisti e governi che vi si oppongono. Nascono, così, da una parte, l’ALBA, cioè la grande associazione di governi progressisti dell’area e, dall’altra, l’Alleanza del Pacifico, realtà filo-nordamericana composta dal Messico, il Cile, la Colombia e il Peru. Il Mercosur rappresentò un tentativo di far conciliare ambedue queste realtà opposte. Ma l’idea, di fatto, non prosperò.

Come è andata a finire è, ormai, risaputo: dopo più di una decade di positive esperienze dei governi progressisti, di grandi e azzeccati investimenti economici nel sociale per accorciare le distanze tra arricchiti e impoveriti, qualcosa iniziò a rompersi nel rapporto tra questi tipi di governi e l’universo degli, ora, inclusi e legittimati.

A mio parere, la determinante di questa frattura relazionale può essere riscontrata in tre fattori critici: da un lato, la scarsa attenzione dei governi progressisti al necessario e capillare lavoro culturale in seno agli ex-esclusi ed ex-discriminati (pilastro fondamentale di ogni autentica trasformazione sociale); dall’altro, la sottovalutazione dell’appropriazione strumentale del concetto di libertà da parte di gruppi d’interesse, personalità influenti (vedi Mario Vargas Llosa) e partiti di orientamento liberista che contrastavano il ruolo dell’ambito pubblico nella società e nell’economia. 

Il terzo fattore rimanda alla criticità più seria di ciò che potremo caratterizzare come la “prima fase del ciclo progressista” vale a dire, la mancanza di coraggio per spostare confini; per volare veramente alto piuttosto che gestire l’esistente mediante l’introduzione di cambiamenti timidi, anche se sinceri. In altre parole, la prima fase del ciclo progressista commise l’errore di aver confuso il ruolo attivo e protagonistico dei settori sociali svantaggiati e che si cercava di includere e legittimare. Cioè, è stata incentivata la partecipazione ma non il coinvolgimento. Il risultato è stato un paternalismo di Stato e, per converso, una passività dei settori interessati. Si trattava, invece, di giocare la carta del coinvolgimento per responsabilizzare le persone, sia dal punto di vista soggettivo, sia da quello comunitario. Altra musica sarebbe suonata.

In ogni caso e malgrado le criticità, gli errori e i limiti qui rilevati, possiamo dire che, comunque, la prima fase del ciclo progressista (2000 – 2017) è stata una fase che possiamo definire come “un’epoca guadagnata”, visto il grande sforzo messo in campo per diminuire l’impoverimento, la discriminazione e l’esclusione in cui versava più del 65% della popolazione del continente. Questo risultato è assolutamente indiscutibile.

Toccherà alla seconda fase, che esploderà con forza in questa terza decade, far tesoro dell’esperienza della prima fase e attrezzarsi per agire secondo la logica del coinvolgimento e della responsabilizzazione delle persone e delle comunità. Tale è l’orizzonte in cui converrà posizionarsi nei prossimi anni. Al riguardo, il contesto globale in questa terza decade sembra essere favorevole alla proiezione di quest’orizzonte.

Con il graduale ma deciso superamento globale della pandemia di Covid-19, infatti, il modello economico capitalista sembra subire delle piccole trasformazioni finora impensabili ovvero, sembra che le imprese non dirigano la loro attenzione soltanto verso l’esclusivo ambito del profitto ma anche, e in senso ampio, verso la sicurezza dei loro lavoratori, verso i consumatori e perfino verso le comunità dove queste imprese sono istallate.

Insomma, il post-Covid-19 sembra che abbia innescato l’emergere di qualcosa di inedito che potremo definire “capitalismo degli stakeholder”: l’intenzione di voler distribuire vaccini a basso costo (la Cina, per esempio, si è spinta perfino a dichiarare la volontà di regalare al mondo il vaccino contro il Covid-19, in caso dovesse fabbricarlo per prima e in grande scala); la propensione ad aumentare lo stipendio al proprio personale o l’idea di investire di più nella sicurezza sul posto di lavoro sono la prova di questo cambiamento di atteggiamento nei confronti del personale, dei consumatori e dei territori dove queste imprese operano.

Ebbene, questa leggera trasformazione che osserviamo nell’attuale e prevalente modo di produzione e consumo; questa tendenza innescata dall’esigenza di gestire al meglio il post-Covid-19 potrebbe contenere delle ricadute favorevoli al rafforzamento di alcuni aspetti non indifferenti nella seconda fase del ciclo progressista in America Latina. Vediamo.

La terza decade e oltre: il nuovo ciclo progressista e l'eredità dell'ultra neo-liberismo

La rimonta neoliberale e restauratrice nel continente, iniziata con la sconfitta elettorale del kirchnerismo in Argentina (2015), l’empeachment contro Dilma Rousseff (2016), la prigionia dell’ex presidente Lula Da Silva, la profonda crisi del Venezuela e, infine, l’arrogante estromissione di Evo Morales, fanno pensare al tramonto definitivo del ciclo progressista nel Continente della Speranza.

Infatti, la vittoria elettorale di Mauricio Macrì in Argentina, di Jair Bolsonaro in Brasile, del blocco economico contro il Venezuela e la cacciata di Morales in Bolivia furono presto salutati come la prova che le cose iniziavano ad andare nella direzione del ritorno delle destre nel continente e, in particolare, nei paesi più importanti dell’area. Ma era davvero così? La risposta potrebbe essere… neanche tanto.

Le vittorie elettorali di Andrés Manuel López Obrador in Messico (2018) e di Alberto Fernández in Argentina (2019), unite alle disastrose gestioni governative del brasiliano Jair Bolsonaro, del cileno José Piñera, dell’ecuadoregno Lenin Moreno e del colombiano Iván Duque (oltre alla profonda crisi istituzionale che vive il Peru), fanno pensare che il ciclo progressista non sia al tramonto. Anzi, esso mantiene la sua vigenza (vedi l’aumento delle proteste popolari che si estendono dall’Honduras all’Haiti a Porto Rico; dalla Colombia al Cile, passando per Brasile ed Ecuador) e i profeti del post-progressismo dovranno rimangiarsi le loro analisi e loro auspici.

Le proteste popolari, infatti, hanno ripreso forza e all’interno di quei paesi e tutto punta a considerare che, effettivamente, ci troviamo di fronte all’alba della seconda ondata progressista nel continente.

Ovviamente, le condizioni socio-economiche e politico-istituzionali non saranno più le stesse della prima ondata. Dopo il passaggio del ciclone ultra neo-liberista, il contesto regionale è cambiato in peggio, molto in peggio.

Oggi il continente si trova ad affrontare un fattore esterno e non previsto: gli effetti disastrosi della pandemia del Covid-19, ma anche fattori interni determinati da decisioni governative ben precise: la forte campagna xenofobica promossa da alcuni dei governanti della regione nei confronti degli stessi latinoamericani che si sono spostati all’interno dell’area alla ricerca di migliori condizioni di vita (vedi il caso dei venezuelani in Colombia, Perù, Ecuador, Cile o dei peruviani e boliviani in Cile).

Unito a quei fattori esterni ed interni, la realtà continentale deve fare i conti con  la spaventosa fuga di capitali dalla regione, con il crollo degli investimenti diretti provenienti dall’estero, calcolato in – 19% nel 2018, e che, negli ultimi quattro anni ha provocato una voragine di risorse equivalente a 149 miliardi di USD (Brasile e Colombia, per esempio, hanno smesso di percepire investimenti esteri diretti per 59 miliardi e 11 miliardi rispettivamente, cioè, quasi il 50% del totale complessivo continentale); con la caduta vertiginosa del prezzo delle materie prime, l’impennata della disoccupazione e dell’economia informale e il conseguente aumento degli impoveriti e degli affamati; il gravissimo deterioramento della legittimità delle istituzioni fondamentali (basti pensare ciò che sta capitando in Cile, Ecuador e Brasile, dove la gente, malgrado la quarantena, esce a protestare perché ha fame e non ricevere l’aiuto necessario da parte delle autorità competenti in materia) e, infine, il ritorno al forte indebitamento pubblico con il Fondo Monetario Internazionale (vedi Argentina ed Ecuador).

La combinazione di tutti questi fattori costituiscono elementi di rabbioso rifiuto dei governi ultra neo-liberali e alle intromissioni degli USA nelle politiche interne di alcuni paesi dell’area. Questo rifiuto viene determinato dal fatto che la gente è preoccupata perché si rende conto che sta ricadendo nella condizione in cui si trovava precedentemente al primo ciclo progressista e la cosiddetta classe media e medio-alta vede diminuire il suo accesso al sistema di consumo internazionale e alla mobilità sociale e fisica. Tutto questo si sta traducendo in una profonda sfiducia verso i sistemi di rappresentazione istituzionale, mass-mediatico e politico (il Cile rappresenta, oggi come oggi, l’interessante epicentro di questa esplosiva situazione sociale, politica e istituzionale).

Insomma, l’ultra neoliberismo lascia una pesantissima eredità alla terza decade di questo secolo e con quella pesante eredità dovranno fare i conti le nuove offerte politiche del secondo ciclo progressista che s’intravede. Non sarà facile né semplice perché queste nuove offerte politiche dovranno fare i conti anche con un nuovo ostacolo, molto potente ed esteso: le sette o “chiese” evangeliche appartenenti alla Teologia della Prosperità, vale a dire un approccio religioso che promuove le aspirazioni del neo-liberismo, sul piano economico; sul piano sociale una solidarietà che gira intorno al proprio nucleo familiare o all’esclusiva comunità religiosa di appartenenza e, sul piano politico, una drastica riduzione del ruolo dello Stato nella società e nell’economia (in Brasile, per esempio, un terzo dei ministri dell’amministrazione Bolsonaro è evangelico. Lo stesso Bolsonaro lo è).

In conclusione, e malgrado la pesante, preoccupante e disastrosa eredità che il periodo ultra neo-liberista ci lascia, la dinamica socio-politica e culturale dell’America Latina è testarda. Parafrasando Aquiles Nazoa, lo scrittore, poeta e umorista venezuelano, ho fiducia nei poteri creatori dei popoli. Il fattore speranza sarà sempre lì a supportare questa capacità creatrice dei popoli in rivolta. Insomma, il Continente della Speranza continuerà il suo dignitoso processo di trasformazione, anche se non sempre in maniera lineare.

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Edgar J. Serrano. Di origine venezuelana e con cittadinanza italiana, dottore in Pedagogia, Master in Scienze Politiche ed esperto di cooperazione internazionale, Edgar Serrano vive e lavora attualmente a Padova dove è impegnato come Manager Didattico della Laurea Magistrale Internazionale in Local Development – Università di Padova.

 

[1] Aa. Va., Manifiesto del Grito de los Excluidos en el 12 de Octubre, 2002, http://www.hic-gs.org/articles.php?pid=1843.

[2] Ibidem.