Il corpo malato della modernità: "Hind Swaraj" nella pandemia | The sick body of modernity: “Hind Swaraj” in the pandemic
Molti commenti pubblicati nelle settimane cruciali della pandemia si sono soffermati sulla crisi della modernità e su come il virus abbia messo e metta in discussione le basi del nostro sistema economico, politico, sociale, formativo, ecc. “Nulla sarà come prima”, abbiamo letto e ascoltato sui media: con toni a volte speranzosi o più spesso minacciosi. Alcuni ricorderanno la perentoria affermazione del sociologo e antropologo Bruno Latour: “la modernità è finita”[1]. Ovviamente non è la prima volta che la “modernità” contemporanea vacilla per effetto di una presunta collisione fra uomo e forze primigenie. Guardando alla storia recente, il disastro nucleare di Chernobyl fu una delle prime “emergenze sanitarie” globali. Sebbene in scala ridotta il trauma generato dal quell’evento ricorda molto l’attuale situazione. Ivi compresa la stupita constatazione, a posteriori, della “riscossa della natura” (nelle foreste intorno a Chernobyl, ancorché radioattivi, sono tornati i lupi, ecc.). Ma sebbene la tragedia ucraina rivelò le enormi falle del sistema tecno-politico, alla fine tutti cedemmo alla narrazione ufficiale di un’apocalisse, tutto sommato, circoscritta. Il mondo era ancora felicemente dualista: di qua noi, i buoni, di là loro, i cattivi. L’Unione Sovietica non era l’Occidente e da noi non sarebbe mai successo. E così, dopo la grande paura (in quel caso il cancro), la “normalità” tornò più baldanzosa che mai.
L’altro malato protagonista indiscusso delle odierne discussioni è il capitalismo, anche nelle varianti del conflitto (?) stato-economia, pubblico-privato. ecc. Al capezzale del capitalismo sono corsi tutti gli intellettuali del pianeta, chi per celebrarne (un po’ affrettatamente) la fine, chi per annunciarne (un po’ avventatamente) il rilancio. Fra tutti ho trovato particolarmente significativi due interventi, quello della sociologa Eva Illouz e quello del critico e cineasta Ángel Luis Lara:
Netanyahu e orde di politici di tutto il mondo hanno trattato la salute dei cittadini con una leggerezza intollerabile, non riuscendo a capire l’ovvio: senza salute non ci può essere economia. Il rapporto tra la nostra salute e il mercato è ormai diventato dolorosamente chiaro. Il capitalismo come l’abbiamo conosciuto deve cambiare. (…)I capitalisti hanno dato per scontate le risorse fornite dallo Stato ‒ istruzione, sanità, infrastrutture ‒ senza mai rendersi conto che le risorse di cui privavano lo Stato li avrebbero alla fine privati del mondo che rende possibile l’economia. Tutto questo deve finire. Per prosperare l’economia ha bisogno di un mondo.[2]
Non c’è normalità alla quale ritornare quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto a quel che oggi abbiamo. Il problema che affrontiamo non è solo il capitalismo in sé, ma anche il capitalismo in me. Chissà che il desiderio di vivere non ci renda capaci della creatività e della determinazione per costruire collettivamente l’esorcismo di cui abbiamo bisogno.[3]
“Per prosperare abbiamo bisogno di un mondo” e “la normalità è il vero problema”. Ci siamo quasi. Tuttavia né questi né (a quanto ne so) altre e altri intellettuali hanno ricordato una delle critiche alla modernità più radicali che siano state mai scritte: Hind Swaraj. Il testo di Gandhi, scritto sotto forma di dialogo, rappresenta una delle riflessioni più spietate sul “grande malato” figlio dell’occidente. Oggi, come ai tempi di Gandhi, la malattia del corpo (cioè della materia) rischia di offuscare lo sguardo sulle ragioni profonde della crisi. Le spaventose immagini di Bergamo o New York non ci dovrebbero far dimenticare chi muore e di che cosa oggi nel mondo. Oltre alle guerre in corso, ogni anno nel mondo muoiono dai dieci ai sedici milioni di persone a causa di patologie cardiache, mentre una delle principali cause di malattie sul pianeta è il mancato accesso all’acqua potabile[4]. Secondo i dati OMS le malattie respiratorie sono al quarto posto per causa di morte e centinaia di migliaia di persone muoiono di influenza e soprattutto polmonite – sono più di ottomila l’anno in Italia[5]. Tutto ciò non vuol dire negare la grave emergenza. Occorre però fare uno sforzo e concentrarci sugli effetti di tutto ciò. Giacché sulle cause specifiche probabilmente noi comuni mortali non sapremo mai la verità: pipistrelli? Virus da laboratorio? Complotto geopolitico della Cina contro gli USA? Degli USA contro la Cina?
Valutando gli effetti invece potremmo iniziare a capire qualcosa, forse, anche sulle cause. A tale proposito si rimane colpiti da quattro livelli collegati: 1) gli effetti economici devastanti che in quasi ogni paese del mondo colpiranno soprattutto i più deboli (a livello sia di classe sociale sia di territori e paesi)[6]; 2) la progressiva perdita delle libertà individuali, accompagnata da una militarizzazione dello spazio, sia fisico sia virtuale (un processo iniziato dopo l’11 settembre); 3) la frammentazione sociale e l’aumento della distanza fra le persone e dunque la difficoltà o impossibilità a organizzarsi anche dal punto di vista sociale e politico; 4) l’estendersi e rafforzarsi del capitalismo della sorveglianza, cioè di tutti quegli strumenti che servono a controllare i cittadini e ad arricchire ulteriormente quattro o cinque società della Silicon Valley (anche questo un processo iniziato dieci anni fa)[7]. A questo potremmo aggiungere un altro “bonus” per i padroni del pianeta: la trasformazione di scuole e università in centri di “erogazione di servizi formativi online”, con il conseguente allontanamento dei docenti dagli studenti. Come conseguenza dei futuri e inevitabili tagli “lacrime e sangue”, l’insegnamento online, per molte strutture (specie nei paesi più colpiti), potrebbe diventare la norma[8]. L’effetto finale del combinato disposto distanziamento sociale/formazione online sarà quello di depotenziare la carica eversiva del rapporto docente-allievo. Meglio evitare contagi da persona a persona – soprattutto se di idee. In cambio di tutti questi regali è probabile che avremo (forse) un po’ più di sanità pubblica, più sicurezza, più economia “verde”[9]. E per chiudere il cerchio del dominio biopolitico, forse un reddito universale.
Gandhi aveva previsto e descritto tutto questo. Non nei dei dettagli, ovviamente, ma identificando il cuore del problema: “Gandhi sentì che l’ideologia della scienza moderna veniva appoggiata dall’ideologia della tecnologia moderna. (…) La questione della moderna tecnologia è anche la questione della moderna tecnocrazia – il dominio degli esperti che hanno il “diritto” tecnologico e il “diritto” tecnico di governare il settore organizzativo all’interno del quale gli esperti operano”[10].
Tuttavia, conclude Ashis Nandy nel suo saggio, “La visione di Gandhi dell’Occidente non era quella di un estraneo all’Occidente, né il suo rigetto della modernità fu la reazione viscerale di un luddista. Egli fu uno dei pochi pensatori non-occidentali che ebbe cura di leggere e assimilare l’esperienza occidentale e fu uno dei pochissimi tra i leader nazionalisti del terzo mondo a vedere la piena implicazione del patto faustiano dell’Occidente con la modernità”[11].
Eppure, anche nel momento in cui un virus attacca la nostra sostanza vitale, il prānṇa (il respiro), il mondo occidentale non riesce ancora a vedere e comprendere che cosa sia e da dove provenga la sua asfissia. Anche all’epoca in cui Hind Swaraj fu composto (1909) pochi compresero – si pensi alla successiva polemica con Nehru – il significato del rifiuto della civiltà occidentale. Molti accusarono Gandhi di essere contro il progresso tout court: la medicina, l’industrializzazione, gli avvocati, le città, la (falsa) democrazia britannica, le ferrovie, la lingua inglese (sic)… Nulla si salva dalla decostruzione gandhiana, tantomeno la scienza e la tecnologia. Proprio loro, l’ultima ancora di salvezza del nostro mondo ridotto a celebrare virologi pop, installare app risolutive e attendere il Messia Vaccino. Gandhi non era certo contro la ricerca scientifica, ma giudicava la scienza occidentale senza etica, schiava degli interessi economici e dedita al puro assoggettamento della natura. Egli aveva compreso non solo che la presunta modernità era un veleno che avrebbe perpetuato ed esteso lo sfruttamento (anche in occidente), ma ne aveva intuito l’intrinseca fragilità. La “ricetta della modernità”, secondo lui, non sarebbe andata bene né per l’India né per molti altri. Né potevano esistere una modernità buona e una cattiva (capitalismo e comunismo), perché essa comunque implicava una sistematica manipolazione delle coscienze e la distruzione dell’ambiente, delle culture e tradizioni indigene, ecc. Rabindranath Tagore, nel suo Judgement, un saggio del 1925, distillò l’intuizione del Mahatma in un pensiero fulminante: la modernità è assimilabile alla verità[12]. Dunque non c’è via di scampo.
È più di un secolo che il potere ha unificato vinti e vincitori nel nome di questa Verità, assegnandole molti epiteti trionfanti, fra cui il relativamente recente “globalizzazione”. Pensiamo alle nostre città (le “trappole” di cui parla Gandhi): che cosa ci raccontano le strade semivuote, popolate di sparuti abitanti dal volto semicoperto? La civiltà urbana è nata e si è diffusa a partire da determinate condizioni storiche, sociali, economiche, ecc. All’origine, fra le tante ragioni, il desiderio e l’esigenza di “mettere in comune” per rafforzare e migliorare le condizioni di vita. Successivamente le grandi metropoli, dalla Roma imperiale a New York, da Persepoli a Parigi, hanno incarnato, ciascuna con il suo progetto universalista, lo splendore della civiltà umana su questo pianeta. L’attacco alle Torri gemelle di New York fu volutamente un attacco sferrato al cuore della modernità occidentale e alla dittatura inappellabile del suo splendore[13]. La reazione dei media, che riflettono sempre il pensiero dominante, non fu solo di terrore, dolore, sdegno e paura. Fu la reazione dei sacerdoti di fronte all’empia profanazione del Tempio. Ma come si poteva pensare solo di scalfire il Tempio d’Occidente? Impensabile. La vendetta fu terribile – e segna il ground zero dell’attuale ciclo. L’ex agente della National Security Agency, Edward Snowden, ha scritto nel suo libro-autobiografia Errore di sistema (Milano, Longanesi, 2019), che i programmi di sorveglianza globale (quelli che l’attuale emergenza sanitaria rilancia[14]), nacquero in risposta a quel trauma. La paura è l’ostetrica della modernità. Ricordiamoci la biblica definizione data dal governo USA all’operazione militare di vendetta: infinite justice. Che non è l’equivalente di “Dio è con noi”, come hanno fatto tanti nella storia, ma è un salto di qualità: “Io sono Dio”. Tagore, un secolo prima, riassunse questo cortocircuito dell’Ego (Paura/Io-Sono-Dio) così: “Non vi rendete conto che siete diventati una terribile minaccia per l’uomo. Noi abbiamo paura di voi.”[15] Fra le tante immagini che rappresentano questo cortocircuito potremmo scegliere quella di Papa Francesco che prega da solo in una Piazza San Pietro cupa e livida. Anche Roma, prima nella genealogia degli imperi universali, ha paura.
Chiese, moschee, sinagoghe e templi chiusi (compresa la Mecca) sono il simbolo della resa del potere spirituale al potere temporale. La salute delle anime è subordinata alla tutela dei corpi. Accettando di chiudere i luoghi di culto e lasciando aperti i supermercati il mondo ha sancito definitivamente l’irrilevanza del sacro: primus vivere, deinde orare. La questione del “corpo” e dell’estensione del suo dominio (o della sua cura) sull’uomo è dunque centrale, come avevano già teorizzato molti intellettuali occidentali (da Foucault a Pasolini) e senza tuttavia indicare una via d’uscita.
Corpi e città sono collegati, anche se in questo momento osserviamo questo legame in forza di una negazione. Walter Benjamin immortala Parigi e il flâneur, il tipo umano che incarna e riflette lo spirito della “capitale del XIX secolo”: “Chi cammina a lungo per le strade senza meta viene colto da un’ebbrezza. A ogni passo l’andatura acquista una forza crescente; la seduzione dei negozi, dei bistrot, delle donne sorridenti diminuisce sempre più e sempre più irresistibile si fa, invece, il magnetismo del prossimo angolo della strada”[16]. La città è un magnete che attrae, indirizza, seduce i corpi.
Ebbene, osserviamole ora, queste regine della modernità. Pensiamo all’immensa influenza che hanno avuto sulla costruzione delle nostre identità e dei nostri desideri. Parigi, Berlino, Londra, New York, Roma, Madrid. Capitali di imperi economici come estetici, militari, tecnologici, religiosi. Smagnetizzate dalla quasi assenza di movimento, esse tremano: il loro corpo è malato. Non è più immortale. Io-sono-Dio, è morto.
Abbiamo osservato con tenerezza molti giovani, sedotti da quasi un secolo di propaganda dell’invincibile anglofonìa, attendere con ansia che un volo li rimpatriasse in Italia per riunirsi alle loro famiglie. La paura del virus ha mostrato la fragilità delle aspirazioni (meridionali) a una realtà più performante e più adeguata all’immagine vincente della modernità (settentrionale). Fu così anche per Gandhi che su spinta dei suoi familiari partì per Londra per diventare avvocato e che in quella città iniziò le sue riflessioni critiche sullo stile di vita occidentale. Questa città cosmopolita ha rappresentato per due secoli il luogo di attrazione più potente per i “giovani corpi” di tutto il mondo. Ma il mantra borghese “Sa, mia figlia lavora a Londra” si è rovesciato nella fuga impazzita dal Nord al Sud, rivelando che i flussi dell’economia sono spesso agli antipodi di quelli degli affetti e del calore umano. Così come anche i flussi di solidarietà di medici e operatori sanitari, dal Sud al Nord, da Cuba e Albania all’Italia, rovesciano il luogo comune: ci aiutano a casa nostra. La fuga dai luoghi di lavoro (e spesso dalla solitudine) del centro verso i margini, come avvenuto a Parigi[17] e in altre metropoli, ha assunto dimensioni bibliche in India, dove, come ha scritto Arundhati Roy, le persone, uomini, donne, vecchi, bambini, sani o malati, a centinaia di migliaia, si sono messe in fila per prendere un bus e tornare ai loro villaggi, in cerca se non di riparo o cibo, di affetto e calore[18]. Chissà che queste migrazioni al contrario non abbiano aperto gli occhi a “noi” e a “loro”: fratelli e sorelle nella fuga da un misterioso incubo comune.
Come ha scritto il poeta e storico William Irwin Thompson, “quando qualcuno crede in una visione alternativa della storia… esce fuori dalla città. I profeti hanno abbandonato la città per insistere su una visione delle cose più grandi.” Ma, prosegue Thomson, “l’abbandono della città per il deserto è anche un gesto di follia”[19]. Gandhi stesso a conclusione del Programma costruttivo, il suo talismano e la sua guida a un mondo alternativo, scrisse: “Questa, almeno, è la mia visione delle cose. Può essere quella di un pazzo”[20].
Il virus ha trasformato le città in temporanei deserti, dove tutti siamo potenzialmente nomadi e “folli” in quarantena. Negando gli spazi esteriori e alterando il tempo interiore ha aperto un varco momentaneo. È una occasione unica. Ma dobbiamo fare attenzione a non trasformare questo colpo all’ego in un colpo al cuore. Se non vogliamo subire impotenti l’ultra-moderna convergenza fra l’autoritarismo asiatico e il neoliberismo occidentale (una convergenza, questa sì, potenzialmente apocalittica), dobbiamo immediatamente mettere mano al corpo dei nostri desideri e dei nostri sogni[21]. Oggi abbiamo capito e visto che il costo di quei sogni e desideri, soprattutto se moltiplicati per il numero dei corpi materiali abitanti il pianeta, è forse insostenibile.
Il corpo e la sua caducità, lo spirito e la materia, gli affetti, l’amore e persino le anime tornano prepotentemente al centro della storia – di tutto il mondo:
Il fatto che ci siano così tanti uomini vivi al mondo dimostra che esso è basato non sulla forza delle armi, ma sulla forza dell’amore. Quindi, la prova maggiore e più indiscutibile del successo di tale forza si trova nel fatto che, nonostante le guerre del mondo, esso continua a esistere. (…) La storia è, in realtà, la registrazione di ogni interruzione del regolare operato della forza dell’amore o dell’anima. [22]
Bibliografia
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Domenico Fiormonte è ricercatore in Sociologia della comunicazione presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre. Si occupa di digitalizzazione della conoscenza, rapporti fra cultura e tecnologia, geopolitica della rete, teoria e didattica della scrittura e Digital Humanities. Dal 2008 è impegnato con progetti sul campo sulle tematiche della formazione interculturale e collabora a progetti educativi e culturali in India e Nepal con la Onlus Centro Studi Platone (www.ilmondodelleidee.it). Nel 2014 ha conseguito il diploma di insegnante Yoga della tradizione di T.K.V. Desikachar. Ha curato il volume La coscienza. Un dialogo interdisciplinare e interculturale (Istituto di Studi Germanici 2018). Il suo ultimo libro è Per una critica del testo digitale. Letteratura, filologia e rete (Bulzoni 2018).
[1] Cfr. B. Latour, Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 2018.
[2] E. Illouz, Storie virali. L’insostenibile leggerezza del capitalismo per la nostra salute, in “Atlante Treccani”, 26 marzo 2020, url: http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/L_insostenibile_leggerezza_del_capitalismo.html.
[3] Á. L. Lara, Covid-19, non torniamo alla normalità. La normalità è il problema, in “Il Manifesto”, 5 aprile 2020, url: https://ilmanifesto.it/covid-19-non-torniamo-alla-normalita-la-normalita-e-il-problema/.
[4] Si vedano i dati forniti dal Global Health Observatory dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: https://www.who.int/gho/mortality_burden_disease/causes_death/top_10/en/
[5] Se vedano i dati ISTAT: http://www.assis.it/dati-istat-sui-decessi-da-influenza/.
[6] Secondo la Internationl Labor Organization “a causa della crisi economica creata dalla pandemia, quasi 1,6 miliardi di lavoratori dell’economia informale (che rappresentano i più vulnerabili sul mercato del lavoro), su un totale mondiale di due miliardi e una forza lavoro globale di 3,3 miliardi, hanno subito danni massicci alla loro capacità di guadagnarsi da vivere. Ciò è dovuto alle varie misure di lockdown che hanno coinvolto le loro attività e/o al fatto che lavorano nei settori più colpiti”. https://www.ilo.org/global/about-the-ilo/newsroom/news/WCMS_743036/lang–en/index.htm.
[7] Cfr. D. Bharthur, The Valley and the Virus, “Bot Populi”, 3 aprile 2020. https://botpopuli.net/big-tech-covid19-corona-silicon-valley.
[8] N. Perugini, Contro la didattica di quarantena, 8 aprile 2020. https://www.lavoroculturale.org/contro-la-didattica-di-quarantena/.
[9] Sulle conseguenze ambientali e geopolitiche dello sfruttamento delle materie prime necessarie alla cosiddetta green economy (e in generale all’industria high-tech) si veda l’illuminante ricerca di G. Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, Roma, LUISS University Press, 2019.
[10] A. Nandy, Dall’esterno dell’impero. Una critica radicale alla modernità, in M.A.K. Gandhi, Vi spiego i mali della modernità. Hind Swaraj, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, 2009, p. 150.
[11] Ivi, p. 172.
[12] R. Tagore, L’anima dell’Occidente. Un giudizio, Roma, Castelvecchi 2013, p. 5.
[13] A proposito di questo evento Scrive René Girard: “Al momento dell’11 settembre c’era stato quanto meno un soprassalto, che però si è immediatamente placato. È balenato un lampo di coscienza, durato qualche frazione di secondo: si è sentito che stava accadendo qualcosa. Ma una cappa di silenzio è scesa a proteggerci contro l’incrinatura che si è aperta nelle nostre rassicuranti certezze. Il razionalismo occidentale agisce al pari di un mito: ci ostiniamo a non voler vedere la catastrofe, non possiamo né vogliamo riconoscere la violenza per quello che è. (…) Più gli eventi ci sovrastano, più si rafforza il nostro rifiuto a prenderne coscienza.” René Girard, Portando Clausewitz all’estremo, Milano, Adelphi 2008, p. 307.
[14] Fra i molti articoli usciti su questo argomento ne segnalo due: E. Morozov, The tech ‘solutions’ for coronavirus take the surveillance state to the next level, in “The Guardian”, 15 aprile 2020. https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/apr/15/tech-coronavirus-surveilance-state-digital-disrupt. E. Crivellaro, Autoritarismo digitale e capitalismo della sorveglianza: il mondo (distopico) che ci attende, 16 aprile 2020. https://awarepec.com/internazionale/autoritarismo-digitale-e-capitalismo-della-sorveglianza-il-mondo-distopico-che-ci-attende/.
[15] R. Tagore, L’anima dell’Occidente, cit. p. 38.
[16] W. Benjamin, I “passages” di Parigi. Opere complete IX. Torino, Einaudi, p. 465.
[17] Cfr. Fuga da Parigi, migliaia di persone in partenza per l’emergenza coronavirus, in “Il Messaggero”, 3 aprile 2020. https://www.ilmessaggero.it/video/mondo/coronavirus_parigi_macron_emergenza_francia-5116465.html.
[18] A. Roy, The pandemic is a portal, in “Financial Times”, 3 aprile 2020. https://www.ft.com/content/10d8f5e8-74eb-11ea-95fe-fcd274e920ca.
[19] W. I. Thompson, At the Edge of History: Speculations on the Transformation of Culture, New York, Harper Colophone, 1972, pp. 214-215. Riprendo la citazione sempre dal saggio di A. Nandy, cit., p. 139..
[20] M.K. Gandhi, Il programma costruttivo. Suo contesto e significato, Pisa, Centro Gandhi Edizioni, p. 81.
[21] Vorrei riprendere qui alcune parole poste a conclusione di un denso saggio di Antonio Vigilante su Tagore: “Questa concezione della trascendenza come Unità, o meglio Non-Dualità, è alla base di diversi attraversamenti, di concreti atti esistenziali (…). Vuol dire non considerare l’identità personale come un dato assoluto, l’io come un orizzonte ultimo, un confine da difendere e fortificare; ed attraversare dunque la cultura, la nazione, l’identità collettiva, che è una estensione dello stesso atteggiamento di difesa egoica.” A. Vigilante, L’umanesimo transculturale di Rabinadranath Tagore, in “Educazione Aperta”, 2, Estate 2017. Url: http://educazioneaperta.it/archives/965.
[22] Hind Swaraj, cit., p. 92.