Il bello della diretta | The beauty of being live
DOI: 10.5281/zenodo.8156120 | PDF | Educazione Aperta 13/2023
Intervista ad Alessandra Riccio
“Il bello della diretta” diceva Gianni Minà, ed era una frase che rappresentava bene il suo stile da jazzista del giornalismo, capace di improvvisare su una preparazione culturale straordinaria. Alessandra Riccio, direttrice con Gianni Minà della rivista “Latinoamerica e tutti i sud del mondo”, ci offre una testimonianza di come il grande giornalista sia stato capace di rompere gli schemi di una cultura preconfezionata ed andare a scoprire l’inedito. Un modo di fare cultura che oggi fa fatica a trovare spazio e per cui lo stesso Minà è stato spesso isolato.
Con Gianni Minà hai diretto per oltre dieci anni la rivista Latinoamerica: che esperienza è stata?
Facevamo una rivista a Roma con professori universitari e giornalisti che si chiamava già Latinoamerica, ma la segretaria di redazione e suo marito, che erano i maggiori animatori, si ammalarono. Latinoamerica viveva del nostro sforzo volontario. Gianni si offrì di rivelarla e mi volle come condirettrice – io ero stata precedentemente direttrice. Ha iniziato alla grande. Dopo ha dovuto fare i conti anche con questioni editoriali ed economiche. Ma abbiamo avuto quindici anni di pubblicazioni meravigliose. Lui aveva un metodo particolare perché anche quando avevamo chiuso un numero, se riceveva una comunicazione, riapriva e rimpastava tutto. Ad esempio, chiamò Adolfo Maria Pérez Esquivel che voleva fare una comunicazione particolare, e Gianni Minà fu capace di rielaborare tutto il numero della rivista. Io mi arrabbiavo anche, ma capisco che era capace di cogliere l’imprevisto e dargli spazio.
Proprio questa apertura all’imprevisto fa di lui un giornalista di cultura non predeterminata, ma sorprendente, spiazzante…
Come si sa bene, Gianni Minà ha iniziato come giornalista sportivo, di box. Uno sport molto popolare, nel senso del popolo: di palestra di periferia, io non ho mai visto nel centro di Napoli una palestra di box, ad esempio. E poi, la canzone popolare. Da tutto questo, ha cominciato ad avvicinarsi al sud, alla realtà dei popoli subalterni, che fanno emergere sportivi valenti, creativi, musicisti, cantanti… a poco a poco ha visto e intuito tutta questa vivacità di intelligente, di estro, creatività, di cui siamo campioni. La grande virtù è stata quella di mettersi di fronte al suo intervistato, all’oggetto di cui si interessa non come giudicante, ma facendo emergere, tirando fuori tutto il possibile, tutto quello che lui vede di originale, di particolare nei fatti. Come a dire: dei Beatles non interessa tanto la moda a caschetto, ma l’estro che ha subito presa e diventa “popolare” nel senso che tutti lo recepiscano senza bisogno di spiegarglielo. E così anche per il calcio, sport in cui si trova a suo agio, non solo per ragioni familiari - mi pare che il padre fosse un arbitro ed anche il fratello si occupasse di calcio - ma per la partecipazione della folla, il gruppo, la squadra che lavora, il talento che lo incuriosisce e in certi momenti, lo commuove.
Come si avvicina all’America Latina?
Arrivano in Italia degli esuli come Toquinho, Chico Buarque: gente estrosa, simpaticissima, geniale che fugge da eventi drammatici, dalle dittature. Storie e persone con cui si può ridere e piangere insieme. Minà avverte subito questo. Poi andò ai campionati di calcio in Argentina nel 1978 nel pieno di una feroce dittatura militare, ed ebbe il coraggio o forse l’ingenuità di chiedere dei “desaparecidos”: i suoi colleghi più avvertiti lo tirarono per la giacchetta (- “ma che fai, Gianni?). Non è chiaro se fosse critica politica o una certa direi innocenza in quella domanda: fatto sta che specialmente chi lavora nei giornali e in tv o sgomita o non esiste, ma lui è riuscito a mantenere questa innocenza che ad esempio ci fa sentire la grande attrazione per Maradona. Lui di Maradona capisce tutto, non giudica. E capisce – non per affinità – Gianni non era tentato da avventure estreme, ma per il fatto di non giudicare. Le Olimpiadi di Roma sono state un momento profondo del suo racconto: l’eritreo Bikila che vince la maratona scalzo, ed anche del trionfo di Berruti. Un’Italia e una Roma degli anni Sessanta uscita dalla guerra, con un grande entusiasmo per sportivi e artisti che vengono fuori dal popolo. Lo sport è stata una grande palestra giornalistica per Gianni perché come mi diceva Saverio Tutino, i giornalisti sportivi sono i più preparati di tutti, devono sapere, conoscere, memorizzare. Infatti, uno dei suoi più grandi maestri è stato un giornalista sportivo: Marino Barendson – tra l’altro napoletano, perché Gianni diceva che i suoi grandi maestri di giornalismo sono stati napoletani.
E poi l’intervista a Fidel Castro…
Minà fa una televisione dove va a scovare le novità, aspetti inediti, come ad esempio nelle chiacchierate con Gianni Minoli. Frequenta l’America Latina e la Napoli che vive uno dei periodi alternativi: Massimo Troisi, Pino Daniele, James Senese, Maradona, gli scudetti. Minà sa stare nello spirito napoletano, è in piena sintonia col popolo napoletano così come con l’America Latina. Io l’ho incontrato a Cuba e lui aveva sposato in primo matrimonio una cubana in esilio in Messico di una famiglia prerivoluzionaria importante. Attratto dalla musica cubana – ha prodotto dischi che non hanno mai sfondato e invece poi venne fuori Buena Vista Social Club prodotto da una grande impresa discografica. Mentre si dedicava alla musica cubana, cercò di intervistare Fidel Castro. Era molto difficile che un giornalista italiano riuscisse a intervistare Fidel. Eppure, ci è riuscito con una grande tenacia. Si dice che Gianni Minà conosceva tutti, ma erano conoscenze che si è costruito col tempo. Non è che glie li presentavano. Diventava amico non solo dell’intervistato, ma anche di chi gli stava vicino. L’intervista a Fidel Castro è stata una testimonianza straordinaria: un documento storico, lunghissimo. Gli costò i commenti malevoli di suoi colleghi che dicevano che era un Gianni Minà in ginocchio di fronte al grande tiranno, violatore dei diritti umani, una cosa vergognosa nei suoi confronti e di Fidel. Ha quindi dovuto fare una seconda intervista: chiedendo a Fidel se lui avesse voluto Il “Che” morto, e delle carceri cubane ed è riuscito ad avere da Fidel altre dieci ore di intervista. Minà non è mai stato un politico, a lui interessa capire la persona in quel contesto storico in cui viene fuori la storia di Cuba che inonda il mondo.
Più che dirigere l’intervistato, lo ascolta, lo fa esprimere
Ha una curiosità enorme, lo capisce e lo lascia parlare, non lo dirige, non lo manipola, non lo falsifica. Diventa internazionalmente molto conosciuto perché fa documenti storici. Intanto abbandona un po’ la musica, abbandona lo sport. In America Latina avvenivano grandi cambiamenti che nessuno seguiva e si mette in testa di fare cinque interviste ai presidenti emergenti che, purtroppo, non è riuscito a completare: Lula in Brasile, che era già un leader, Kirchner in Argentina. A Chavez in Venezuela, il più demonizzato dai nostri sistemi comunicativi, fece un’intervista lunghissima, ma nessuno la comprò perché Minà non la volle accorciare. Voleva intervistare Correa ed Evo Morales. Se Minà voleva un contatto, un’intervista, era capace di attendere ore e di sfondare porte. Valicava la polizia presidenziale. Lui non si fermava e a non fermarsi era la sua grande curiosità. Ma Gianni non aveva un metodo definito. Lui lasciò parlare, ad esempio Chavez, che stava proponendo un socialismo del XXI secolo: lavorava in maniera non metodica, sapendo che non ha la teoria in mano, ma rotula l’esperienza. Lascia esprimere l’intervistato su cosa vuole fare, realizzare e questa disposizione necessita di tempo: proprio il tempo è il nemico della modernità attuale. Ad esempio, Fidel Castro nei suoi discorsi ti spiegava il perché, il come, dove bisogna andare, quali errori sono stati fatti nei dettagli. Ma il discorso lungo non è più moderno e questo ha nociuto tanto a Minà giornalista-documentarista di successo. Hanno cominciato a chiedergli di accorciare le interviste e lui si rifiutava. Lui fece una serie di interviste ai dissidenti cubani a casa mia a Cuba che a mio avviso erano quattro gatti impreparati. La RAI non le ha volute. Quando le notizie erano preparate, falsificate, organizzate le vogliono, ma documenti raccolti senza un format predefinito invece no.
Ovviamente vendeva il proprio lavoro, ma non ha mai venduto la sua essenza, e per questo non si è visto più Minà. Adesso, invece, è un diluvio di affetto. I grandi si sono fatti intervistare da lui perché si impegnava davvero a non modificare, a ridurre a qualunque costo. Nessuno oggi fa questo lavoro. in un giornalismo monocorde su target già preparato. Lui in questo è stato davvero controcorrente.