Finestre interculturali. Aprire la didattica della filosofia al pensiero cinese | Intercultural Windows. Opening the teaching of philosophy to Chinese thought 

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PDF: DOI 10.5281/zenodo.7573808

Abstract

After analysing the question of the existence of an Eastern philosophy, still denied today by various scholars - a denial that justifies the almost total absence of non-Western philosophies in the teaching of philosophy in Italian schools - the paper dwells on the possibility of a comparative and intercultural teaching of philosophy, reasoning on the objectives and method. Therefore, five paths are proposed to include authors and themes of Chinese thought in the teaching of philosophy, grasping analogies and differences with European thought: the good life (Socrates and Confucius), evil (Plato and Mencius and Xunzi), tyrannicide (Thomas Aquinas and Mencius), political realism (Machiavelli and Hobbes and the Lord of Shang) and joy (Spinoza and Taoism).

Keywords:  didactics of philosophy, intercultural philosophy, intercultural education, chinese philosophy.

Dopo aver analizzato la questione dell’esistenza di una filosofia orientale, ancora oggi negata da diversi studiosi – una negazione che giustifica l’assenza presso che totale delle filosofie non occidentali nella didattica della filosofia nella scuola italiana – l’intervento si sofferma sulla possibilità di una didattica comparata e interculturale della filosofia, ragionando sugli obiettivi e il metodo. Quindi vengono proposti cinque percorsi per inserire nella didattica della filosofia autori e temi del pensiero cinese, cogliendo analogie e differenze con il pensiero europeo: la vita buona (Socrate e Confucio), il male (Platone e Mencio e Xunzi), il tirannicidio (Tommaso d’Aquino e Mencio), il realismo politico (Machiavelli e Hobbes e il Signore di Shang) e la gioia (Spinoza e il taoismo).

Parole chiave:  didattica della filosofia, filosofia interculturale, educazione interculturale, filosofia cinese.

Dalla filosofia alle filosofie

Esiste una filosofia non occidentale? I sistemi di pensiero indiani, cinesi, giapponesi sono filosofia? Benché esistano ancora non poche resistenze nel mondo accademico, espressioni come filosofia cinese o filosofia indiana sono entrate nell’uso comune da tempo e si stanno gradualmente sviluppando (nel nostro Paese meno che altrove) discipline come la filosofia comparata e la filosofia interculturale, che confrontano sistemi filosofici appartenenti a culture diverse e li fanno dialogare.

Nella scuola italiana, tuttavia, la chiusura nei confronti delle filosofie altre è totale. Propriamente nei licei italiani non si insegna filosofia, ma storia della filosofia; ed è una storia della filosofia occidentale. Questa chiusura nei confronti delle filosofie non occidentali è ordinariamente giustificata in modo più o meno sbrigativo con argomenti che rivelano un certo imbarazzo. Un manuale recente può servire da esempio. In Sophìa, di Luigi Ronga, Gianni Gentile e Mario Bertelli, si legge l’ammissione che “secondo l’attuale storiografia filosofica” esiste una filosofia orientale. Si può parlare “a buon diritto” sia di una filosofia indiana che di una filosofia cinese, scrivono. Ma poi proseguono:

Ma mentre in Occidente la filosofia aveva come obiettivo il “sapere cosa”, cioè il concetto (ad esempio: che cosa sono il bene e il male?), quella cinese aveva come obiettivo il “sapere come”, cioè l’azione (ad esempio, come deve comportarsi l’uomo per vivere bene?). (Ronga, Gentile, Bertelli 2022, pp. 10-11)

E proseguono affermando che questa caratteristica si trova tanto nel confucianesimo quanto nel taoismo e nel buddhismo, incluso lo zen. La filosofia occidentale e quella orientale[1] hanno avuto sviluppi indipendenti e rapporti sporadici. E concludono: “La filosofia, dunque, fu un’invenzione greca”, come dimostra il fatto che il termine filosofia non ha un corrispettivo nelle altre lingue e resta intraducibile (ivi, p. 11). Affermazione, quest’ultima, davvero singolare, dal momento che poche righe prima gli autori hanno ammesso che in India il termine darśana significa “visione della verità attraverso argomentazioni razionali”; (ivi, p. 10) con una traduzione peraltro piuttosto generosa, perché il termine sanscrito rimanda all’atto di vedere, a dunque si può tradurre con “punti di vista” o semplicemente “dottrine”. Vero è però che tutti queste dottrine implicano una elaborazione razionale spesso molto raffinata. Così come è evidente che non ha alcun senso da un lato ricondurre sistemi di pensiero diversissimi tra di loro sotto l’unica categoria dell’azione (altri invece ritengono che tutto l’oriente sia misticismo e contemplazione), dall’altro considerare non filosofico, o poco interessante dal punto di vista filosofico, il problema dell’azione. Se anche tutto il pensiero orientale non facesse davvero che chiedersi come dobbiamo comportarci per vivere bene, perché mai esso non dovrebbe interessarci? Non è, questo, un problema genuinamente filosofico?

Non c’è nessuna ragione per escludere le filosofie orientali dallo studio scolastico della filosofia. Comunque si consideri la filosofia occidentale – ed è superficiale ritenere che la storia complessa della filosofia occidentale si possa ricondurre anch’essa a una formula –, è chiaro che essa ha una precisa corrispondenza in altri contesti culturali.

Cos’è filosofia? Qualunque risposta restrittiva, come quella del manuale che abbiamo appena considerato, rischia di tagliar fuori buona parte della stessa tradizione filosofica occidentale. Gli aspetti fondamentali del pensiero filosofico, tolti i quali non si può parlare di filosofia, sono, mi sembra, quattro.

Il primo è la problematizzazione dell’esistenza e dell’essere. La filosofia nasce quando l’esistenza, il fatto di esserci e il fatto che ci sia per noi un mondo, si fa problema, diventa una domanda che richiede una risposta. O almeno il tentativo di dare una risposta.

Il secondo è una presa di distanza dalla tradizione religiosa e culturale. Le domande sul senso dell’esistenza e del mondo sono alla base anche dalla religione; la filosofia nasce nel momento in cui le risposte religiose vengono anch’esse problematizzate. Questo non vuol dire che la filosofia sia necessariamente anti-religiosa. L’Occidente riconosce come filosofi non pochi santi del cristianesimo, da Agostino a Tommaso. Quello che importa è che la verità della religione non sia un dato immediato, ma sia filtrata dalla ragione.

Da questo secondo aspetto discende il terzo. Fino a quando la nostra vita è incardinata in una tradizione, in una visione del mondo culturale, il problema dell’azione non si pone. Viviamo secondo i valori, le norme, gli stili della nostra cultura. Il problema si pone, ed è pressante, quando la presa della cultura si fa meno forte, quando i cambiamenti economici e sociali richiedono diversi punti di vista, cambiamenti nei valori e negli stili di vita. Si pensi, per fare solo un esempio, alla riflessione nell’India antica sul sistema delle caste e sui sacrifici animali, da parte di movimenti di pensiero come il buddhismo e il jainismo, che si allontanano dalla tradizione vedica. Se è un errore ricondurre tutta la filosofia all’azione – come fa certa filosofia della prassi – certo è difficile immaginare un pensiero filosofico che non sia anche riflessione sull’azione, sui valori e sui fini della vita umana. Che non sia, cioè, anche filosofia pratica.

Anche il quarto aspetto è legato al secondo. C’è filosofia quando si cerca una risposta attraverso il ragionamento e l’argomentazione. Le forme di questa argomentazione variano nella stessa tradizione occidentale: il ragionamento di Nietzsche ha un andamento diversissimo dal ragionamento di Wittgenstein; l’argomentazione filosofica, nello stesso Occidente, può richiedere anche il ricorso al mito, come accade in Platone, ma si tratta di un mito filosofico, inserito in una analisi razionale. Una teoria filosofica si regge tuttavia solo sulla potenza dell’argomentazione, non fa ricorso ad alcuna autorità divina né ad alcun testo sacro.

Non è difficile riconoscere l’universalità della questione fondamentale della filosofia. Si può discutere se i popoli non occidentali siano riusciti a dare ad essa una risposta filosofica e non religiosa. Ad uno sguardo superficiale, la differenza sembra essere questa. Non sono il buddhismo, il taoismo e il confucianesimo visioni religiose? Bisognerebbe chiedersi, qui, cos’è una religione. In Cina esistono templi dedicati a Confucio, e nessuno negherà il carattere religioso del buddhismo. Ma se la religione implica la concezione di un Dio personale, la sua rivelazione, la presenza di un testo sacro – tutte cose incluse nel concetto occidentale di religione – allora la categoria occidentale di religione coglie imperfettamente tanto il confucianesimo quanto il buddhismo, inteso come insegnamento del Buddha storico. Quest’ultimo si inserisce nel movimento degli śramana, pensatori che discutono le concezioni mitico-religiose del tempo (Dio, il karma, la rinascita ecc.) con posizioni che vanno dal materialismo allo scetticismo. Il Dharma del Buddha non si presenta come una verità indubitabile, ma come un sistema che deve essere verificato da sé (ehipassiko) e che ha una funzione meramente strumentale, serve ad ottenere la liberazione dalla sofferenza e null’altro (cosa che non ha impedito che il Dharma del Buddha si sviluppasse come un sistema di credenze, con templi, pratiche di culto, oggetti sacri e organizzazioni monastiche). E se in questo modo di presentare la dottrina si può scorgere un atteggiamento antifilosofico, perché la filosofia è ricerca della verità, mentre implicitamente il Buddha nega che il suo insegnamento sia vero, dandogli un valore strumentale, è da considerare anche la straordinaria attualità di un pensatore che invita a non legarsi ideologicamente alla sua stessa dottrina, intuendo il fanatismo e la chiusura mentale che ogni attaccamento ideologico genera.[2]

Problemi della comparazione filosofica

La filosofia comparata è una disciplina piuttosto giovane. Il suo atto di nascita è la pubblicazione, nel 1923, de  La philosophie comparée dell’orientalista francese Paul Masson-Oursel, anche se le pratiche di comparazione filosofica sono molto più antiche: si pensi alla Confluenza dei due oceani di Muhammad Dara Šikoh, pronipote del grande imperatore moghul Akbar, che mise a confronto la tradizione di pensiero del sufismo islamico con quella indiana (Dara Šikoh, 2011).

La filosofia comparata è costantemente minacciata da una posizione che rappresenta il corrispettivo speculare dello sciovinismo che abbiamo analizzato nell’apertura di questo articolo. Alla ricerca di punti di contatto tra Oriente ed Occidente, finiscono per passare sotto silenzio, in modo per lo più inconsapevole, le differenze, con una sorta di cherry picking filosofico. Un forma particolare di questo equivoco filosofico è quella corrente di pensiero, di cui René Guenon è un rappresentante particolarmente influente, secondo la quale esiste una Tradizione filosofico-religiosa che rappresenta una Verità transculturale, da riscoprire e da contrapporre polemicamente e politicamente allo smarrimento del mondo contemporaneo.

Esistono problemi filosofici universali? Si potrebbero considerare tali i problemi che sono legati alla natura umana. Si è tentati di considerare universali problemi come il senso della vita umana, il male e la sofferenza, la morte e l’eventuale vita dopo la morte, il potere e la sua giustificazione, eccetera. Ma sarebbe una ingenuità, perché ognuno di questi problemi può non presentarsi in particolati situazioni. Come specie, l’homo sapiens ha l’urgenza dell’adattamento all’ambiente e della sopravvivenza. L’unico problema universale è quello economico: come organizzarsi in modo da trarre dall’ambiente le risorse necessarie per la sopravvivenza. Ai fini della sopravvivenza le comunità umane creano anche sistemi culturali, che possono includere concezioni religiose e mitiche, all’interno delle quali le domande trovano una risposta prima ancora di essere formulate. Le questioni filosofiche affiorano solo in situazioni di frattura, quando i sistemi culturali rivelano qualche crepa e le risposte consuete hanno bisogno di essere problematizzate. In una società di cacciatori raccoglitori il problema del potere non si pone, ad esempio. Diventa urgente in una società con una complessa divisione del lavoro e una certa stratificazione sociale, ma solo quando la giustificazione tradizionale, per lo più mitico-religiosa, entra in crisi.

Possiamo considerare dunque universali quei problemi che tendono a proporsi ovunque, o comunque in culture diverse, in situazione di crisi.

Un problema non si presenta mai, però, senza una particolare connotazione culturale. Il problema del male e della sofferenza è universale, ma in ogni cultura assume una forma particolare, dovuta alle particolari concezioni in essa presenti. Per un cristiano esso è strettamente legato al tema del peccato, che rappresenta la particolare connotazione cristiana di quel tema universale; in un contesto indiano al peccato subentra il karma, e così via. Questo fa sì che le risposte alla domanda universale siano profondamente diverse nei due contesti.

Può anche accadere che la connotazione venga in primo piano. In questo caso il problema universale diventa un problema culturale, circoscritto e poco significativo per chi non appartiene a quel contesto culturale. La riflessione buddhista sulle cause psicologiche della nostra sofferenza, sugli stati mentali non salutari (akusala) che la generano, ha un interesse transculturale, benché sia inevitabilmente legata alla concezione del karma; il problema esclusivo di come ottenere una rinascita fortunata ha invece una dimensione meramente locale: è un problema culturale, che non ha molto da dire agli occidentali, a meno che non facciano propria (come avviene a chi si converte al buddhismo) anche la concezione del karma e della rinascita.

Perché fare didattica comparata delle filosofie?

Ma perché fare didattica comparativa della filosofia? Perché non lasciare la comparazione filosofica agli specialisti e concentrare la didattica nella scuola superiore sulla sola filosofia occidentale?

Per almeno tre ragioni.

La prima è che lo spirito di apertura alle culture altre e la curiosità per la diversità appartengono in modo essenziale alla filosofia. È questa apertura che ha portato verso Oriente filosofi greci come Pirrone (e c’è chi ritiene che il suo scetticismo non sia che la versione greca del buddhismo) (cfr. Kuzminski, 2008), ed è questa stessa apertura che ha fatto sì che i filosofi islamici salvassero il meglio del pensiero greco, comprendendo che in quella diversità c’era un valore da preservare. Una differenza importante tra la filosofia e la religione è questa: nel diverso la religione tende a vedere un infedele, mentre il filosofo scorge in lui un interlocutore, qualcuno con cui discutere o disputare, ma non di rado un maestro da cui imparare.

Ha molta ragione Giangiorgio Pasqualotto di osservare che la comparazione appartiene per essenza alla filosofia. Ragionare è giudicare, e giudicare è comparare; ed ogni filosofo si confronta con il pensiero di altri filosofi. Per Pasqualotto più che di filosofia comparata occorre parlare di filosofia come comparazine (Pasqualotto, 2008, cap. 2). Se le cose stanno così, allora fare una didattica comparata della filosofia non è altro che fare didattica della filosofia tout court. La differenza è che nella didattica normale ad uno studente si chiede di comparare i sistemi di Cartesio, Leibniz e Spinoza, mentre in questo caso la comparazione è aperta anche a Shankara e Nagarjuna.

La seconda ragione è che è un grave errore continuare a formare gli studenti secondo una prospettiva non solo eurocentrica, ma semplicemente limitata all’Europa, in una società che è invece globalizzata, e nella quale Paesi come l’India e la Cina sono sempre più protagonisti della politica e dell’economia mondiale.

La terza ragione, legata alla seconda, è che una didattica non comparativa alimenta lo sciovinismo europeo, la convinzione di essere i portatori di una civiltà superiore, come attesterebbe tra l’altro proprio la stessa filosofia, espressione originale e irripetibile del genio greco e dunque europeo.

Occorre precisare che queste ragioni non valgono solo per la filosofia. Abbiamo bisogno di una storia non eurocentrica, di una didattica che adotti la prospettiva della World History, anche perché isolare la storia europea dalla storia mondiale non consente nemmeno una reale comprensione della storia occidentale; si può mettere in dubbio il contatto tra pensatori occidentali ed orientali, ma nessuno può mettere in discussione i rapporti economici, commerciali, politici, bellici tra popoli europei ed extraeuropei. Così come abbiamo bisogno di mettere a contatto i nostri studenti con i grandi capolavori della letteratura mondiale, opere come il Mahabharata o il Genji Monogatari, e di far conoscere loro i fondamenti di concezioni estetiche diverse da quelle che si sono succedute in Europa (si pensi, per non fare che un esempio, al mono no aware giapponese). Una didattica comparativa della filosofia è un tassello di una scuola interculturale, aperta, che consideri risorsa tutto ciò che di valido ha creato l’umanità e valore il riconoscimento della pluralità culturale.

Fini della didattica comparata della filosofia

Le competenze generali attese alla fine dei percorsi liceali di filosofia sono indicate come segue dalle Indicazioni nazionali liceali (Miur 2010):

Grazie alla conoscenza degli autori e dei problemi filosofici fondamentali lo studente ha sviluppato la riflessione personale, il giudizio critico, l’attitudine all’approfondimento e alla discussione razionale, la capacità di argomentare una tesi, anche in forma scritta, riconoscendo la diversità dei metodi con cui la ragione giunge a conoscere il reale.

Naturalmente da un punto di vista filosofico tutte queste competenze possono essere problematizzate. Cos’è un pensiero critico? In questo breve passo sembra che vi siano due concezioni della filosofia, in tensione fra loro. La prima è quella della filosofia come argomentazione rigorosa, che si traduce in una didattica a carattere fondamentalmente logico-argomentativo, con pratiche come l’argument mapping e il Debate e una attenzione particolare alle fallacie logiche. La seconda è quella implicita nell’ammissione che esistono diversi metodi attraverso i quali la ragione giunge alla conoscenza della realtà. Questo vuol dire che la discussione razionale può non essere l’unica via della filosofia. La meditazione personale, silenziosa e profonda, di un testo filosofico può essere, ad esempio, una pratica ugualmente degna[3]. Ai fini del nostro discorso è importante soprattutto questo riferimento alla diversità. Se fare filosofia vuol dire, anche se non soprattutto, capire che il reale si può comprendere in modi diversi, non è allora inevitabile allargare lo studio anche alle filosofie non europee? Che senso ha porre dei confini geostorici a questa diversità?

Una didattica comparata della filosofia pone in primo piano proprio questa diversità. Confronta visioni del mondo, metodi, pratiche, sentieri diversi, pur mantenendo ferma – anzi: comprendendo – la distinzione tra ciò che rientra comunque in una indagine filosofico-razionale e ciò che invece appartiene al pensiero religioso o magico o è espressione culturale ma non ancora filosofica[4].

In un contesto diverso dal nostro, quello statunitense, Elisabeth Schiltz ha indicato le seguenti finalità di un corso di filosofia comparata:

  1. Mettere in grado gli studenti di “encounter and analyze the conceptual schemes that underlie discourses and practices in diverse world cultures”, in questo modo sviluppando le loro competenza come “global citizens”.
  2. Consentire agli studenti una migliore comprensione della stessa tradizione filosofica occidentale.
  3. Facilitare il passaggio degli studenti “from simply studying philosophy to truly doing philosophy” (Schiltz, 2014, pp. 217-218).

Si tratta di obiettivi validi anche per una didattica comparata della filosofia nella scuola italiana, anche se segue un approccio storico e non  tematico. Di particolare interesse appare il secondo punto. Come nota Schiltz, “many of the non-Western traditions start with conceptual schemes so different from well-known Western approaches that they easily cast a light on our own frameworks” (ivi, p. 217). È vero, anche se non sempre. Ed è realmente formativo sul piano filosofico accorgersi della possibilità di vedere in modo radicalmente diverso anche gli aspetti più consueti della nostra esperienza, così come è formativo riflettere sul legame tra pensiero e linguaggio (la stessa ipotesi di Sapir-Whorf può essere oggetto di un lavoro didattico).

Un ultimo punto mi sembra importante. La presenza, in una società globalizzata, di persone appertenenti a tradizioni religiose e culturali diverse impone il problema della loro coesistenza. Una soluzione è il multiculturalismo: riconoscere ogni cultura nella sua specificità, pensando la società come un insieme di sfere culturali con un nucleo di valori comuni. Questa impostazione pone non pochi problemi, legati appunto alla difficile mediazione tra i valori condivisi e i valori di questa o quella cultura; si pensi alla difficoltà di conciliare il valore riconosciuto dell’uguaglianza di genere con l’usanza del velo. Il multiculturalismo può sfociare in una società nella quale ogni cultura si sclerotizza, per così dire, pensando sé stessa in un’ottica di mera rivendicazione di riconoscimento (cfr. Sciuto, 2018). Una posizione che è antifilosofica, perché abbiamo visto che tra gli aspetti essenziali di qualsiasi filosofia c’è la postura critica verso la tradizione. Fare didattica comparata delle filosofie significa dunque portare a scuola gli aspetti critici e riflessivi delle diverse culture, i momenti di rottura, di crisi, di ripensamento. Dev’essere chiaro che la comparazione non è tra le culture, ma tra quei momenti di critica e rielaborazione delle culture che sono le filosofie.

La pratica

La volontà generosa di liberare la didattica della filosofia dall’impostazione meramente eurocentrica sembra scontrarsi con una obiezione piena di buon senso: come fare? Se già la normale didattica della filosofia, con la sua prospettiva rigorosamente storica, risulta difficile, per la nota mancanza di tempo, come si può pensare di poter aggiungere addirittura la storia della filosofia cinese e indiana?

Una storia della filosofia realmente universale è stata tentata da Ernesto Balducci con la Storia del pensiero umano, uscita in tre volumi nel 1986. Nella Prefazione Balducci scriveva:

Un lavoro immane, condotto per anni e anni, in quasi totale solitudine, per obbedire a un’esigenza nata già durante la mia lunga pratica di insegnamento e poi maturata nel confronto vivo con la cultura dei nostri giorni. Come è possibile, mi andavo domandando da tempo, trasmettere nella scuola la porzione più preziosa dell’eredità culturale del passato, quella filosofica, senza che questa significhi rendere un servizio all’eurocentrismo, che e stato la premessa ideologica di tanti crimini compiuti in nome della civiltà? Non esiste, infatti, soltanto un razzismo etnologico, esiste, come suo risvolto latente, un razzismo intellettuale, che consiste nella identificazione, teorica o pratica, tra il pensiero occidentale e il pensiero senza aggettivi. (Balducci 1986, vol. I, p. XI)

L’impostazione scelta da Balducci, in quella che resta un’opera pressoché unica nel suo genere, è quella di una giustapposizione di storia del pensiero occidentale, islamico ed orientale, che è evidente soprattutto nel primo volume, dedicato al pensiero antico, mentre nei due volumi successivi i riferimenti al pensiero orientale si fanno meno puntuali. Balducci ne era evidentemente consapevole se, nella stessa Prefazione, scriveva: “Ora che ho portato a termine un’impresa cosi impegnativa e cosi rischiosa, mi rendo perfettamente canto dei limiti che non sono riuscito a superare. Mi pesano alcune lacune e, qua e la, certe sproporzioni del disegno” (ivi, p. XIII).

Una storia realmente approfondita della filosofia mondiale richiede qualcosa di più del lavoro appassionato e protratto per anni di un solo autore, sia pure della levatura di Ernesto Balducci. Richiede inevitabilmente l’impegno di una équipe di studiosi specializzati nei singoli campi. Ma soprattutto, una tale opera sarebbe di scarsa utilità nella scuola secondaria, per l’evidente sproporzione tra la quantità dei materiali e la disponibilità di tempo.

Come impostare allora una didattica comparativa? Balducci parla di “porzione più preziosa dell’eredità culturale del passato”. Bisognerebbe partire da quel concetto di porzione. Ci sono momenti e autori del pensiero non europeo che costituiscono un oggettivo patrimonio dell’umanità, che dovrebbero far parte della formazione di qualsiasi persona colta e che sono importanti per gli effetti che continuano ad avere sulle società orientali, ma anche sullo stesso Occidente. Proviamo a rovesciare la prospettiva. La Divina Commedia è un capolavoro della letteratura italiana ma, benché sia espressione della società tardo-medioevale, e dunque di una visione del mondo che non è più la nostra, la consideriamo un’opera d’arte ancora viva e dal valore universale. Non riteniamo che debba essere studiata solo dagli italiani o dagli europei. Essendo un capolavoro universale, ignorarla sarebbe per chiunque una perdita – come sarebbe una perdita non sapere nulla di Michelangelo o di Leonardo. Ma questo vale anche per capolavori della letteratura, dell’arte e del pensiero non europei. Un approccio non superficiale al pensiero del Buddha o di Confucio, al sistema Samkhya o al Vedanta Advaita, al Taoismo o al Sufismo, consente allo studente di entrare a contatto con alcuni dei vertici dell’esperienza dell’umanità; e non sarebbe forse azzardato parlare di un diritto dello studente alla loro conoscenza. Che peraltro è necessaria anche per superare il fraintendimento e la strumentalizzazione che si verificano quando momenti o pratiche della spiritualità orientale si diffondono in Occidente. Si pensi allo Yoga. Nato sulla base del sistema Samkhya, è una pratica filosofico-religiosa volta al conseguimento della liberazione dalla condizione fenomenica attraverso il trascendimento dell’ego. In Occidente è da decenni una disciplina fisica che mira al benessere psico-fisico. In comune con la sua origine ci sono solo le asana, le posizioni dell’Hata Yoga (che è solo una delle correnti dello Yoga). Le origini religiose sono del tutto rimosse, anche se qualche problema emerge quando i genitori ritengono che essi promuovano fedi non cristiane, come accade negli Stati Uniti (Wong, 2018).

Una didattica interculturale della filosofia è dunque possibile aprendo finestre comparative. Se lo studio della filosofia europea segue un criterio storico e cronologico, queste finestre potranno essere sincroniche, associando pensatori e movimenti dello stesso periodo, o tematiche, facendo dialogare pensatori di epoche diverse che hanno affrontato uno stesso problema, con soluzioni affini o diverse.

C’è un rischio in questa impostazione. Come esempio di didattica comparata della filosofia Elizabeth Schiltz indica un percorso sul tema, assolutamente importante, dell’identità dell’io (“Who am I”). Il lavoro didattico mette a confronto i seguenti testi: il Fedro di Platone, Sull’anima di Ibn Sina (Avicenna), il saggio Eniyan: The Yoruba concept of a person di Segun Gbadegesin, la Katha Upanishad, una scelta di testi buddhisti, un testo di Derek Parfit e il Mengzi (Schiltz, 2014, p. 221). Si tratta di un percorso estremamente affascinante: ma quanto praticabile? Cioè: quanto praticabile in modo non superficiale? Ognuno di questi testi richiede, per non essere equivocato, uno studio approfondito non solo del testo in sé o dell’autore, ma anche del contesto. Il rischio è che si perda in profondità quello che si guadagna in ampiezza; che, cioè, si smarrisca la pazienza analitica che è una qualità – o competenza, come si preferisce dire oggi – indispendabile della comprensione del testo filosofico. Bene è dunque che la comparazione avvenga tra pochi testi, autori e movimenti di pensiero, evitando una molteplicità di stimoli che può generare confusione.

Condivisibile è invece la centralità, appunto, del testo. Le citate Indicazioni nazionali per i licei indicano lo studio diretto dei testi come metodologia che si affianca allo studio degli autori, senza tuttavia alcuna enfasi particolare. Nei manuali italiani, con rare eccezioni, i testi fanno da sfondo: collocati normalmente alla fine del capitolo, quasi a far da aggiunta. Nel coraggioso manuale interculturale di Balducci sono del tutto assenti. Se ne possono comprendere la ragione. La lettura diretta di un testo è una pratica lenta, faticosa, spesso frustrante per gli studenti; soprattutto, è pratica diversa dalla lezione, che ancora è la metodologia più usata dai docenti italiani, benché contestata da tempo. Una didattica della filosofia centrata sui testi chiede che si strutturi la classe come un laboratorio di lettura, dividendo gli studenti in gruppi intendi a leggere insieme, confrontando le interpretazioni, tentando di chiarire da soli i passaggi più difficili e poi analizzandoli con tutta la classe e con l’aiuto del docente.

È questo approccio ermeneutico che farà da sfondo alle proposte seguenti. Mosterò alcune finestre comparative tra pensiero occidentale ed indiano, con una sintesi teorica e il riferimento ai testi che è possibile usare.

La questione della lingua

Prima di passare ai percorsi didattici occorre considerare ancora una questione: quella della lingua. Non si può negare che esista un legame fondamentale tra una filosofia e la lingua in cui è pensata e scritta; come studiare il pensiero che è stato elaborato in una lingua che non si conosce? Il problema in realtà si pone, almeno in parte, anche per il pensiero occidentale. Che dalle sue origini attraversa almeno cinque lingue: il greco antico, il latino (antico, medioevale e moderno), l’inglese, il francese e il tedesco. Nella migliore delle situazioni, quella del Liceo Classico, lo studente è in grado di leggere il greco, il latino e l’inglese. Negli altri casi, conosce solo il latino e l’inglese. In ogni caso uno studente italiano non è normalmente in grado – fatta eccezione per alcune classi del Liceo Linguistico – di leggere il tedesco, la lingua della filosofia europea dopo il greco.

Questi limiti linguistici non impediscono di studiare Platone, Aristotele, Hegel ed Heidegger. È il docente che, di volta in volta, introduce lo studente anche nell’universo linguistico dell’autore, che spiega le sfumature del logos o dell’Ereignis.

Non va diversamente per il pensiero cinese. Con una differenza importante. Per quanto riguarda i testi della tradizione filosofica occidentale, le traduzioni variano, ma si tratta di variazioni limitate, anche se spesso significative. Diverse edizioni invece di un classico cinese possono essere talmente diverse da dare l’impressione di trovarsi davanti a testi diversi. E tradurre è sempre interpretare, lo è in massimo grado con i testi cinesi.

Questo, che sembra un problema, è in realtà un’opportunità di arricchimento formativo. Le traduzione a scuola sono di norma un vetro trasparente: non si bada ad esse, attenti al testo e al suo significato. Lo studio dei testi cinesi invece costringe a fare i conti con la traduzione stessa, rende per così dire visibile il vetro, e costringe a riflettere sullo stesso lavoro ermeneutico.

Vediamo dunque qualche percorso possibile.

La vita buona: Confucio e Socrate

Come è noto, Karl Jaspers ha introdotto il concetto di Achsenzeit, era assiale, per descrivere un’epoca particolarmente importante nella storia dell’umanità, che ha visto nel giro di pochi secoli l’apparizione, in diverse parti del mondo, di personalità eccezionali, in grado di influenzare prodondamente con i loro insegnamenti i rispettivi popoli. Questo asse è situato per Jaspers  “intorno al 500 a.C., nel processo spirituale svoltosi fra l’800 e il 200” avanti Cristo: “Lì si trova la più netta linea di demarcazione della storia. Allora sorse l’uomo come oggi lo conosciamo.” (Jaspers, 2014, pp. 19-20). È in questo periodo che compaiono in Confucio e Laoze, le Upanishad e il Buddha, Zarathustra, i profeti ebrei e, in Grecia, “Omero, i filosofi Parmenide, Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidide e Archimede” (ivi, p. 20). Stranamente, in questo noto sguardo d’insieme mancano i Sofisti e Socrate. Eppure si tratta di un passaggio di importanza fondamentale nella via del pensiero che va da Parmenide a Platone; ed è difficile dubitare che la figura di Socrate sia stata fondamentale per la creazione della concezione dell’uomo occidentale.

Certo colpisce il fatto che Confucio (Kǒng Fūzǐ, 孔夫子) e Socrate siano quasi contemporanei. Grazie alla cura cinese delle cronologie (ben diversa dall’indifferenza indiana per le date, che rende così difficile la collocazione storica di pensatori e movimenti), sappiamo che il filosofo cinese è nato nel 551 ed è morto nel 479 a.C. Socrate invece è nato nel 470 o 469 a.C. Il filosofo greco, dunque, nasce pochi anni dopo la morte di Confucio. Non è l’unico punto in comune. Entrambi sono vissuti in un periodo di grande difficoltà e confusione, cui hanno cercato di porre rimedio con la loro riflessione. Socrate vive nel periodo che vede il massimo splendore e poi la rapida crisi di Atene, Confucio durante il Periodo delle primavere e degli autunni, nel quale si intensificano le tensioni tra gli stati che daranno vita al successivo Periodo degli Stati Combattenti (che inizia nel 453 a.C.). Entrambi non hanno scritto nulla e il loro insegnamento è noto attraverso la testimonianza dei discepoli; entrambi sono maestri in dialogo, per così dire; entrambi credono, sia pure in forme diverse, nell’importanza fondamentale dell’educazione; ed entrambi si pongono un obiettivo politico: rispondere alla crisi con una nuova proposta etica.

La lente attraverso la quale l’occidente ha conosciuto Socrate è quella dei dialoghi platonici. Una lente però deformante: è difficile, se non impossibile, districare quello che è del Socrate storico e quello che è stato aggiunto dal suo discepolo più illustre. I Memorabili di Senofonte sono, al contrario, una fonte probabilmente più attendibile, ma dal momento che l’autore non era troppo dotato filosoficamente, c’è il rischio che gli siano sfuggiti gli aspetti più profondi del pensiero del suo maestro. Certo i due Socrate, quello platonico e quello senofonteo,[5] sono pensatori diversi. Il primo appartiene a quello che potremmo chiamare paradigma del ciclo spezzato, cui è legata in Grecia la nascita della filosofia: l’anima è imprigionata nel mondo e condannata a un ciclo di rinascite, dal quale potrà liberarsi solo attraverso la pratica filosofica (cfr. Vigilante, 2021, pp.17 segg.). Scopo della filosofia, spiega Socrate nel Fedone platonico, è liberare l’anima dalla prigione del corpo (82E). Una concezione che sviluppa il pensiero pitagorico (che a sua volta raccoglie l’eredità dei misteri eleusini) (Colli, 1987) e che ha profonde affinità con il sistema indiano Samkhya. L’altro, il Socrate senofonteo, insegna soprattutto l’enkrateia, il dominio di sé e delle passioni, fondamentale non tanto per liberare l’anima dalla prigionia del corpo, quanto per avere una vita buona.

La fonte principale per lo studio del pensiero di Confucio sono invece i Dialoghi o Analecta (Lùnyǔ 論語), una raccolta di detti e dialoghi compilata dai successori del Maestro. Prima di procedere con l’analisi è necessaria una premessa sul carattere particolare del pensiero di Confucio. In un passo dei Dialoghi si legge:

Quattro erano le condizioni da cui il Maestro rifuggiva: speculazione, pervicacia, inflessibilità ed egoismo. (Confucio, 2006, 9, 4, p. 95).

Ora, se Confucio rifuggiva dalla speculazione, si dirà, evidentemente non è il caso di considerarlo un filosofo. Il termine che nell’edizione citata Tiziana Lippiello traduce con “speculazione” è (意), che si può tradurre anche con “pensiero” o “idea”. Come è noto, è da questo passo che parte François Jullien per la sua preziosa esplorazione del pensiero cinese nel libro intitolato, appunto, Il saggio è senza idee. Cosa vuol dire che Confucio rifugge dalle idee? In che senso, e in che modo, un pensatore può rifuggire dalle idee? Vuol dire che non considerava il mondo partendo da un sistema di pensiero o da una costellazione di idee già fissate, ma era pronto ad analizzare e discutere qualsiasi problema considerando ogni possibilità, essendo aperto ad ogni conclusione. È la saggezza, un pensiero in situazione che Jullien distingue dalla filosofia, che parte invece da un’idea e la sviluppa; e mentre la seconda è inevitabilmente storica (le idee si susseguono), la prima è astorica (non esiste una storia della saggezza) (Jullien, 2002, p.9 segg.). Si dirà che questa è una clamorosa sconfessione di quanto s’è detto prima: non esiste evidentemente una filosofia cinese, e dunque non si pone il problema di una didattica comparata e interculturale delle filosofie. Le cose non stanno così, sia perché, come vedremo, un pensiero propriamente filosofico per Jullien compare dopo Confucio, sia perché la saggezza è intrecciata con la filosofia anche in Occidente, e non solo nella Grecia presocratica[6].

Socrate si pone, sia pure polemicamente, nella linea aperta dai Sofisti, che hanno spostato l’asse della speculazione greca dai grandi temi metafisici e cosmologici a quelli etici e politici. Quanto a Confucio, la sua parola, scrive Anne Cheng, “è, da subito e risolutamente, incentrata sull’uomo e sulla nozione di
quanto è umano, che rappresenta il fulcro di quest’insorgenza filosofica” (Cheng, 2000, vol. I, p. 47).

La vita buona, dunque.

Un percorso socratico non può che partire dall’Apologia di Socrate di Platone. Difendendosi dalle accuse, il filosofo rivendica il suo ruolo politico, con la celebre immagine del tafano che pungola il cavallo (30C-31A), e mostra coraggio, se non indifferenza, di fronte alla morte, affermando nell’emozionante conclusione dell’opera (un testo la cui lettura non deve mancare in qualsiasi corso di filosofia) che ad un uomo giusto non può capitare nulla di male, né da vivo né da morto (41D).

Nel Gorgia, nel denso dialogo con Polo e poi con Callicle, Socrate discute la questione se sia meglio fare ingiustizia o subirla. La sua posizione è che è meglio subire ingiustizia che farla (468B) e che coloro che sono giusti sono felici, mentre i malvagi sono necessariamente infelici (470E). La tesi è contestata violentemente da Callicle, per il quale il bene secondo natura è lasciar crescere il più possibile i propri desideri e fare tutto ciò che si voglia, consapevoli che sono i deboli ad affermare che la dissolutezza è un male (491E-492B). Dopo aver confutato la tesi che il piacere è il bene, Socrate approfondisce nella quarta parte del dialogo le ragioni della sua convinzione apparentemente così singolare: la virtù delle cose è un loro particolare ordine, e questo vale anche per l’anima; l’ordine dell’anima è la temperanza, che è anche la condizione della sua felicità (506C-507C). Ecco, in sintesi, l’ethos del Socrate platonico: fare il male è peggio che subirlo; il bene è un certo ordine della propria anima, che dà felicità.

Secondo l’intellettualismo etico socratico nessuno fa volontariamente il male; se si conosce il bene non si può fare a meno di farlo, appunto perché lo si riconosce come bene. Fondamentale per la vita etica diventa dunque la conoscenza, più che la volontà. Una volta che l’intelletto abbia individuato il bene come tale, sembra che l’azione non possa fare a meno di conformarsi. Che le cose non siano così semplici lo mostra Senofonte, in cui compare un Socrate maestro del dominio di sé, l’enkrateia (ἐγκράτεια), un tema che appare assolutamente centrale nel suo messaggio, così come è presentato nei Memorabili. Il passo più significativo al riguardo è il dialogo tra Socrate e Eutidemo (Memorabili, II, 7, 1-11; Senofonte, 2013, pp. 407-415) nel quale il filosofo sostiene che il dominio di sé è una qualità fondamentale per essere liberi ed avere una vita buona; la vita etica è il risultato di uno sforzo costante di autodominio, di una tecnologi del sé, per dirla con Foucault, senza la quale si è schiavi delle proprie passioni. Nel dialogo torna il tema del bene che è al di là del piacere, anche se il Socrate di Senofonte non manca di sottolineare i benefici anche pratici che derivano dalla pratica della virtù etica.

Consideriamo altri temi del Socrate di Senofonte che è interessante approfondire in vista di un confronto con Confucio. Il primo è quello dell’importanza del lavoro manuale. Dialogando con Aristarco, un uomo in grave difficoltà economica, Socrate lo invita a liberarsi dall’errata convinzione che il lavoro manuale sia proprio degli schiavi e non delle persone libere e a impegnare tutta la sua famiglia nel lavoro necessario al sostentamento (Memorabili, II, 7, 1-11; Senofonte 2013, pp. 407-415). Il secondo tema è quello del conoscere sé stessi. Tema fondamentale in Socrate, come è noto, ma che in Senofonte assume una sfumatura particolare. Nel dialogo con Eutidemo la conoscenza di sé non ha solo un fine teoretico, ma anche una immediata utilità pratica: conoscere sé stessi vuol dire saper impiegare al meglio le proprie capacità e quindi essere utili a sé stessi e alla comunità (Memorabili, IV, 2, 24-30; Senofonte 2013, pp. 553-557). Il terzo ed ultimo tema è quello, che è possibile ricavare da un gustoso dialogo tra Socrate e il figlio Lamprocle, dei rapporti famigliari. Il figlio lamenta i maltrattamenti della madre, che “dice cose che nessuno, in tutta la sua vita, vorrebbe sentire”, mentre il padre lo invita al rispetto della madre, ricordandogli che nessuno riceve benefici maggiori di quelli che un figlio riceve dai genitori (II, 2, 3-13, pp. 361-369).

Veniamo a Confucio. Abbiamo già considerato la particolarità del suo habitus di pensiero, che è nella ricerca libera da idee preordinate. Questo non vuol dire che non vi siano punti fermi, valori caratterizzanti del suo pensiero. Al cui centro si pone il problema della realizzazione dell’umano, che si presenta come un compito che ognuno deve realizzare da sé. In un passo dei Dialoghi il pensatore cinese pone la questione, ancora attuale, del rapporto tra inclinazione ed educazione. Quando a prevalere è la prima, l’essere umano è rude, incivile; quando a prevalere è l’educazione, è pedante. Solo dall’equilibrio di inclinazione e educazione nasce l’uomo “nobile di animo” (Confucio, 2006, VI, 18, p. 61).

Compare qui il termine junzi (君子), l’uomo nobile appunto. La distinzione tra uomo nobile e lo xiaoren, l’uomo volgare è al centro del pensiero confuciano. Da questo primo passo è chiaro che è fondamentale per il maestro cinese l’educazione, intesa come studio e perfezionamento continuo di sé. Confucio stesso si presenta non come un maestro, ma come un uomo in formazione, che sta ancora cercando di realizzare il suo ideale. Centrale è lo studio, inteso appunto non in modo puramente intellettuale, ma come approfondimento della propria umanità: “Studiare senza riflettere è vano, riflettere senza studiare è pericoloso” (Confucio, 2006, II, 15, p. 15). In un passo dal sapore pienamente socratico, afferma: “You, vuoi che ti spieghi che cos’è la sapienza? (zhī, 知: conoscenza, comprensione). Essere consapevole di quel che si sa e riconoscere le proprie mancanze: questa è la sapienza” (Ivi, II, 17, p. 15). È una posizione molto vicina al non sapere socratico, ma con qualche differenza. Nonostante il suo non sapere, Socrate è maestro; in una discussione, è lui il maieuta, e se si pone in una posizione umile, si tratta di una postura che fa parte della nota ironia socratica. Confucio invece concepisce realmente la relazione con l’altro come fonte di apprendimento e perfezionamento:

Il Maestro disse: “Se viaggiassimo in tre, certamente avrei sempre un maestro accanto; dall’uno coglierei i pregi per trarne esempio, dall’altro coglierei i difetti per emendarmi”. (Ivi, 7, 22, p. 75)

L’uomo nobile dunque è in un costante processo di autoformazione, per la quale è fondamentale la relazione con gli altri. Come il saggio socratico, l’uomo nobile è capace di vivere con poco, si accontenta di una ciotola di riso, una zucca per bere e un tugurio per vivere (Ivi, 6, 11, p. 59). Mentre l’uomo volgare ha una vista limitata e mette sé stesso al centro, l’uomo nobile “è di ampie vedute e imparziale” (Ivi, 2, 14, p. 15). Ma l’uomo nobile si differenzia da Socrate, o almeno dal Socrate di Senofonte, su un punto essenziale: quello del lavoro manuale. “L’uomo nobile di animo non è un utensile” (Ivi, 2, 12, p. 15). Confucio, costretto da piccolo dalla povertà al lavoro manuale, considera quest’ultimo indegno del suo ideale umano, che è quello di un intellettuale (dal punto di vista lavorativo, di un funzionario).

Il tema etico fondamentale di Confucio è quello del ren (仁). Il termine, tradotto normalmente in italiano con benevolenza e in inglese con humanity, va analizzato partendo dall’ideogramma, che nella parte sinistra ha il radicale 人, che sta per uomo, e in quella destra l’ideogramma 二, che sta per due. Si tratta del rapporto tra me e l’altro. Rapporto che dev’essere fondato, per Confucio, sul riconoscimento del carattere costitutivo della relazione e dell’uguaglianza dell’altro. Di qui quel passo sorprendente dei Dialoghi che contiene la formulazione confuciana della regola aurea:

Zigong domandò: “Esiste forse un adagio che possa guidare la nostra condotta per tutta la vita?” Il Maestro disse: “Vi è l’adagio: ‘Non imporre agli altri quello che non desidereresti per te stesso’”. (Ivi, 15, 24 p.189)

Ma ancora più sorprendente è quest’altro passo:

Zigong domandò: “Che cosa pensate di chi si prodiga per gli altri e riesce ad aiutare la gente? Può essere considerato un uomo dotato di benevolenza?” Il Maestro disse: “Perché limitarsi alla benevolenza? Costui è certamente un saggio! Persino uomini come Yao e Shun avrebbero trovato arduo un simile compito! L’uomo dotato di benevolenza, desiderando essere saldo, fa sì che lo siano gli altri, desiderando progredire fa sì che gli altri progrediscano. Assumi come esempio quel che puoi fare per chi ti è vicino: è la strada verso la benevolenza.” (Ivi, 6, 30 p. 65)

Qui sono degne di nota due cose. La prima è il carattere per così dire concreto dell’etica, nel senso che non c’è crescita di sé se non insieme alla crescita dell’altro. La seconda è la centralità del vicino, l’invito a seguire la via del ren non abbracciando idealmente l’umanità, ma avendo cura delle persone che sono più vicine a noi: il prossimo in senso stretto.

C’è poi la questione dei rapporti famigliari. Il confucianesimo è noto per una visione rigida dei rapporti sociali, che comincia nella famiglia. In realtà i Dialoghi non negano che sia possibile ai figli contestare i genitori, anche se in forma leggera; se però essi non accettano i consigli, “continuate a essere rispettosi e a non opporvi a loro. Anche se ne siete feriti, non serbate loro rancore” (ivi, 4,18, p. 39). Ma che succede se un membro della propria famiglia compie qualcosa di illegale? Leggiamo questo passo dei Dialoghi:

Il duca di She, dialogando con Confucio, disse: “Nel mio paese vi è un tale chiamato ‘l’Onesto’. Un giorno suo padre rubò una capra ed egli lo denunciò”. Confucio disse: “Nel mio paese gli uomini onesti agiscono diversamente: un padre copre il figlio e questi il padre. Ecco dove si trova l’onestà”. (Ivi, 13,18, p.155)

Qui la differenza di Confucio da Socrate non potrebbe essere più profonda. Occorre ricordare che nell’Apologia di Socrate di Platone il filosofo greco invita pubblicamente i suoi giudici, che lo stanno condannando a morte, a punire i suoi figli se, diventati adulti, dovessero prenersi cura della ricchezza prima che della virtù (41E). Dal punto di vista confuciano la famiglia ha un carattere per così dire sacro, per cui il dovere di difendere un membro della propria famiglia viene prima di qualsiasi altra cosa. È bene però non confondere questa posizione con una sorta di familismo amorale, per dirla con Banfield (1976); l’interesse supremo di Confucio è quello dell’ordine e dell’armonia sociale. La famiglia non è contro la società più ampia. Essa va difesa come cellula fondamentale della società, nella quale vigono rapporti verticali e gerarchici che sono i medesimi della società più in generale, e che solo in questo quadro più ampio ricevono il loro senso più pieno.

Il confronto tra i due pensatori farà sorgere una serie di questioni che, nell’ottica di una didattica dialogica, dovranno essere oggetto di una discussione di classe:

  • Quali caratteristiche deve avere per noi una persona nobile?
  • Cosa pensiamo della regola aurea, come formulata da Confucio?
  • Quale è il ruolo dell’educazione nella formazione della persona?
  • Sul lavoro manuale ha ragione Socrate o ha ragione Confucio?
  • Sul coprire o meno un membro della propria famiglia, ha ragione Socrate o ha ragione Confucio?

Il male: l’anello di Gige e il pozzo di Mencio

Nel secondo libro della Repubblica di Platone, Socrate è impegnato in una discussione sulla giustizia con Glaucone, fratello maggiore di Platone e filosofo lui stesso. Torna la questione del Gorgia: se fare ingiustizia sia meglio o peggio che subirla. Per Glaucone non c’è dubbio:  fare ingiustizia è un bene, il male è subirla (II 358E). E per dimostrare la sua tesi racconta il mito di Gige, antenato di Creso, che in seguito a una tempesta precipita in una voragine in cui trova un misterioso anello che gli dà il potere di diventare invisibile a suo piacimento. Poniamo, ragiona Glaucone, che esistano due anelli di questo genere, e che li possiedano una persona ingiusta e una persona giusta. La prima naturalmente userà l’anello per compiere ogni sorta di crimine, ma anche la persona giusta sarà tentata di fare il male e non riuscirà a restare salda nella sua rettitudine. Se facciamo il bene, conclude Glaucone, è solo perché vi siamo costretti; dal punto di vista individuale la giustizia non è un bene, e “non appena uno è convinto di poter sopraffare un altro, lo sopraffà” (II 360C; Platone, 1992, p. 1111).

Più che un mito, quello di Gige è un esperimento mentale, cui risponde un esperimento di segno opposto che compare nel pensiero di uno dei principali continuatori di Confucio, Mencio. Ma prima occorre una premessa storica. Come si è accennato, al periodo di tensioni durante il quale è vissuto Confucio segue il Periodo degli Stati Combattenti, che vede appunto lo scontro di diversi Stati per la conquista del predominio sulla Cina. È un’epoca difficile, ma anche di grande fioritura delle scuole filosofiche, le cosiddette Cento scuole di pensiero. Date le difficoltà dell’epoca, temi fondamentali diventano quelli della natura dell’essere umano, già al centro del pensiero di Confucio, e della legittimazione del potere politico.

Mencio (Mèngzǐ 孟子; 380-289 a.C) affronta la questione con un esperimento mentale di grande interesse per dimostrare la sua tesi della natura fondamentalmente buona dell’essere umano:

Ciò per cui dico che tutti gli uomini hanno un cuore che non tollera la sofferenza altrui è questo: supponi che la gente veda improvvisamente un bambino che sta per cadere nel pozzo. Tutti provano un sentimento di raccapriccio e di pietà, non perché vogliano guadagnarsi la riconoscenza dei genitori del bambino, non perché cerchino la lode dei compagni del villaggio, non perché detestino di farsi la fama (di insensibili). Da ciò appare che esser privo del sentimento della pietà e della commiserazione non è da uomo; esser privo del sentimento della vergogna (per le proprie colpe) e della ripugnanza (per le colpe altrui) non è da uomo; non avere il sentimento della rinuncia (di sé) e della cedevolezza (agli altri) non è da uomo; non avere il sentimento del diritto e del torto non è da uomo. Il sentimento della pietà e della commiserazione è il bandolo della carità, il sentimento della vergogna e della ripugnanza è il bandolo della giustizia, il sentimento della rinuncia e della cedevolezza è il bandolo dei riti, il sentimento del diritto e del torto è il bandolo della sapienza. L’uomo ha questi quattro princìpi come ha le quattro membra. (Mencio, Libro II, 29; Aa. Vv., 1973, pp. 306-307)[7]

Ma come si spiega, se l’essere umano è fondamentalmente buono, la malvagità così evidente nella storia? Mencio ricorre ad un’altra immagine: come l’acqua tende verso il basso, così l’essere umano tende verso il bene, ma se si raccoglie dell’acqua in un recipiente, la si può gettare in alto. Così pure “l’uomo può essere indotto ad operare il male, se la sua natura è trattata in quel modo” (Mencio, Libro VI, 142; ivi, pp. 399-400). Attualizzando, potremmo dire che la natura umana può essere corrotta dalla circostanze storiche ed economiche.

A Mencio si contrappone con decisione Xunzi (荀子; in italiano non è infrequente la trascizione Hsün Tzu; 313-238 a.C), suo contemporaneo e massimo rappresentante di quella che Leonardo Vittorio Arena chiama “ala ‘destra’ del confucianesimo” (Arena, 2000, p. 65), la cui tesi centrale è l’esatto rovesciamento di quella di Mencio: l’essere umano è naturalmente malvagio. E gli argomenti usati dal filosofo cinese non sono molto lontani da quelli di Glaucone.

La natura umana è malvagia: ogni bene umano è acquisito con uno sforzo cosciente.
La natura umana è tale che nasce con l’amore per il profitto. Seguendo questa natura, crescono l’aggressività e la tendenza all’avidità e diminuiscono cortesia e rispetto. Gli uomini nascono con sentimenti di invidia e di odio. Assecondare questi sentimenti fa sì che aumentino violenza e crimine e muoiano lealtà e fiducia. L’uomo è nato con i desideri delle orecchie e degli occhi (che sono attratti dai suoni e dai colori). Assecondare questi desideri causa comportamenti dissoluti ed eccessivi e la fine dei principi morali e rituali, dei precetti riguardanti le buone maniere e dell’ordine naturale della ragione.
Stando così le cose, quando ognuno segue la propria natura e asseconda le sue naturali inclinazioni, si sviluppano certamente aggressività e avidità. A ciò si aggiunge la violazione delle distinzioni di classe e getta l’ordine naturale nell’anarchia, causando una crudele tirannia. Pertanto è necessario che la natura dell’uomo segua l’influenza trasformatrice di un insegnante e di un modello che che sia guidato da principi rituali e morali. Solo dopo che ciò sia avvenuto possono svilupparti cortesia e rispetto. Si uniscano questi qualità con i precetti delle buone maniere e della ragione, e ne risulterà un’epoca di governo ordinato. Se consideriamo le implicazioni di questi fatti, è evidente che la natura umana è malvagia e che ogni bene umano è acquistato con uno sforzo cosciente. (Knoblock 1988, Xunzi, 23, 1a, vol. III, pp. 150-151; trad. mia)

Xunzi non ritiene che l’essere umano sia condannato alla violenza. La sua tesi è il rovesciamento, più che la confutazione, di quella di Mencio. Se per Mencio l’essere umano, naturalmente buono, può essere indotto al male della circostanze storiche, per Xunzi è l’azione modellatrice dell’educazione che trasforma l’uomo, naturalmente spinto al male dalla sua natura desiderante, a compiere il bene. Torna il tema dell’educazione, propriamente confuciano. E non è difficile scorgere l’affinità con l’enfasi socratica sull’enkrateia, quell’autodominio che consente di non abbandonarsi alla proliferazione dei desideri e delle passioni.

Quanto detto chiarisce perché il tema della dignità umana sia in Xunzi tutt’altro che in contrasto con l’affermazione della sua natura malvagia. L’essere umano è il più nobile degli animali non per la forza fisica o per la velocità, ma per la coscienza, che gli consente di creare una società ordinata:

E perché l’essere umano è in grado di formare società? Io dico che è a causa della divisione della società in classi. Come può la divisione in classi trasferirsi nei comportamenti? Dico che è a causa del senso umano di moralità e di giustizia. Se il senso della moralità e della giustizia è usato per dividere la società in classi, ne risulta la concordia. Se c’è concordia tra le classi, ne risulta l’unità. Se c’è unità, ne deriva un grande potere fisico; se c’è un grande potere fisico, ne deriva una forza reale; se c’è una forza reale, non c’è nulla che non possa essere vinto. (Ivi, Xunzi 9.16A, vol. II, pp. 103-4; tra. mia)

Esiste dunque, nella natura umana, una inclinazione naturale alla giustizia, una affermazione che sembra in aperto contrasto con il suo assunto di base. Ma Xunzi sta soprattutto delineando una situazione nella quale la naturale violenza umana può essere efficacemente combattura: quella di una società organizzata rigidamente in classi, nella quale ognuno abbia il suo posto e il suo ruolo, in modo che la società intera sembri un organismo bene organizzato. E questa conclusione ci riporta all’inizio: all’ideale della Repubblica di Platone, con la sua rigida distinzione in caste.

Una terza voce, sensibilissima e di grande attualità, è quella di Mozi (Mòzǐ 墨子). Vissuto dopo di Confucio e prima di Mencio, Mozi non era propriamente un filosofo ma una sorta di capo-carpentiere, che con la sua squadra si spostava per costruire fortificazioni a difesa delle città assediate. Eppure è con la sua scuola che per Jullien il pensiero cinese mette a punto gli strumenti logico-concettuali che lo avvicinano “in modo sorprendente alla Grecia” (Jullien, 2002, p. 75). In un certo senso la sua riflessione filosofica si lega al suo lavoro: il suo problema è quello della guerra e della violenza. Di cui individua quelle che oggi si chiamarebbero cause culturali. Perché facciamo violenza? Perché consideriamo l’altro un nemico? La risposta di Mozi è sorprendente: perché non abbiamo un punto di vista universale. Anche in questo caso occorre riportare con una certa ampiezza il sio ragionamento.

[Maestro Mo Zi] disse: “I grandi stati che attaccano i piccoli stati, grandi casate che disturbano piccole casate, i forti che depredano i più deboli, i molti che maltrattano i pochi, i furbi tramano contro gli ingenui, i nobili sono arroganti con gli umili. Questi sono i mali del mondo. [...] Consideriamo ora l’origine di questi mali, da dove vengono. Vengono dal fatto di amare e fare del bene alla gente? Certamente diremo di no. Dobbiamo dire che derivano dal fatto di odiare e voler male agli uomini. E se volessimo distinguere e dare un nome a coloro che nel mondo odiano e fanno del male alla gente, dovremmo dire che sono “universali” [兼, jiān] o “discriminanti” [別, bie]? Indubbiamente dovremmo dire che sono “discriminanti”. Se le cose stanno così, questa reciproca discriminazione non è la causa dei grandi mali del mondo? È per questo che la “discriminazione” dev’essere condannata. [...] Disse: “Se la gente considerasse gli Stati degli altri come il proprio Stato, chi vorrebbe mobilitare il proprio Stato per attaccare gli Stati altrui? Essi considererebbero gli Stati altrui come il proprio. Se la gente considerasse le province degli altri come considera la propria, chi vorrebbe innalzare la propria provincia per combattere le province degli altri? Essi considererebbero la provincia degli altri come la propria. Se la gente considerasse la casata altrui come la propria, chi agiterebbe la propria casata per portare disordine nelle casate altrui? Essi considererebbero le casate altrui come la propria. Ora se Stati e città non si attaccano e combattono reciprocamente, e se le casate non si arrecano disordine a vicenda, ciò è dannoso per il mondo? O è benefico? Bisogna dire che è benefico. Vediamo quale è l’origine di questi benefici. Da dove vengono? Essi vengono dall’odiare e fare del male alla gente? Certamente diremo di no. Diremo che sorgono dal fatto che la gente si ama e si fa del bene a vicenda. E se dovessimo distinguere e dare un nome a coloro che nel mondo amano e fanno del bene agli altri, dovremmo dire che sono ‘discriminanti’ o ‘universali’? Dovremo certamente dire che sono ‘universali’. (Mozi, 2010, 16, 1-2, pp. 147-149)

Mozi è noto per essere stato considerato fin dall’antichità il pensatore cinese più vicino al cristianesimo, per la sua idea di un amore universale, ma ancor più perché è il primo pensatore cinese a concepire una fondazione metafisica dell’etica, concependo il Cielo (天) come una entità trascendente che promuove il bene, inteso appunto come amore e giustizia tra gli esseri umani. Ma l’aspetto più interessante è quello della posizione del problema etico in termini di visione del mondo, mappatura cognitiva della realtà. Se facciamo il male, non è perché in generale non conosciamo il bene, ma impieghiamo le nostre facoltà intellettuali per operare distinzioni, opposizioni e contrapposizioni, piuttosto che consierare l’insieme. Una nuova etica e una nuova politica nasceranno da una ristrutturazione cognitiva, da una apertura della mente prima e più che da una apertura del cuore.

Questa finestra sui dibattiti interni alla scuola confuciana, che può essere inserita dopo la trattazione di Platone, con le pressanti suggestioni morali che vengono dai suoi dialoghi, mette sul tavolo alcune problemi fondamentali, che toccano il pensiero greco successivo, ma più in generale tutto il cammino del pensiero occidentale.

Indico solo alcune delle questioni che è possibile discutere con gli studenti alla fine di questo percorso:

  • Chi ha ragione sulla natura umana, Mencio o Xunzi?
  • Le classi sociali sono indispensabili, come sostiene Xunzi, o è possibile una società senza classi?
  • In quali circostanze l’esperimento mentale di Mencio potrebbe essere smentito?
  • È possibile che qualcuno, vedendo un bambino che sta per cadere nel posso, non intervenga? In quali circostante può accadere?
  • È possibile la visione “universale” di cui parla Mencio?

Il potere

Uno: il tirannicidio

Su cosa si fonda il potere? Da dove deriva il diritto di uno di governare, e al limite condannare a morte, intere moltitudini? E quali limiti ha questo potere? Sono domande che attraversano tutto il pensiero politico occidentale, ma che sono centrali anche in Cina già nella Scuola confuciana. La questione della legittimazione del potere, occorre osservare di passaggio, è di fondamentale importante anche oggi per la Cina comunista, perché se i Paesi occidentali trovano una facile giustificazione del potere attraverso la procedura democratica – chi governa ha diritto di farlo perché è stato votato – la Cina deve ricorrere a un diverso fondamento; ed è proprio il pensiero della Scuola confuciana a offrire una sponda teorica.

Tanto nella Cina confuciana quanto nell’Europa cristiana il potere ha a che fare con la dimensione trascentente. Come afferma Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani (13, 1) ogni autorità proviene da Dio. L’ovvio corollario è l’obbligo di obbedire e la condanna di ogni forma di ribellione. Nell’Europa cristiana si crea una gerarchia politico-ontologica: Dio, fonte di ogni potere; il papa, rappresentante di Dio sulla terra; l’imperatore. Ma che succede quando il potere diventa tirannico? Sussiste ancora un obbligo di obbedienza, quando la prassi di chi governa grazie all’investitura divina è in aperto contrasto con l’insegnamento divino? La questione attraversa tutta la tradizione filosofica e teologica occidentale fino alle soglie della modernità, quando il ricorso al contrattualismo porrà la questione del potere su altre basi. Dopo aver analizzato la questione, Giovanni di Salisbury nel Policraticus sfiora la legittimazione del tirannicidio, affermando che in alcuni casi, come dimostra la stessa Bibbia, l’omocidio politico può essere perfino onorevole. Il problema, come mostra Stefano Simonetta, è che Giovanni di Salisbury ha una visione del potere che rende difficile distinguere un suo uso legittimo, etico, dalla sua degenerazione tirannica. Il potere esiste perché esiste il peccato, e in conseguenza la sua funzione è essenzialmente repressiva (Simonetta, 2009). Più complessa è la posizione di Tommaso d’Aquino. Come nota ancora Simonetta, l’Aquinate affronta la questione nel De Regno, da due punti di vista: come impedire che al potere vada un tiranno e cosa fare una volta che chi governa si sia dimostrato un tiranno. Per il primo punto le possibili soluzioni sono due: pensare a un sistema elettivo che consenta di scegliere chi ha certe qualità morali e porre dei limiti al potere del re, per impedire che degeneri. La questione dell’insurrezione invece per l’Aquinate è più pratica che teorica; non si tratta di deciderne la legittimità, ma di valutare le possibilità di successo. La formazione aristotelica del maestro domenicano gli consente di affrontare la questione in un’ottica più prossima alla sensibilità moderna: poiché il potere va giudicato in base alla sua capacità di rispondere alle esigenze del popolo, la decisione di sopprimere o meno il tiranno “non è più lasciata al cielo, ma appartiene al popolo” (ivi, p. 77).

Nel pensiero confuciano fondazione ontologica e giustificazione etica del potere sovrano si incrociano nella concezione del Mandato Celeste (Tiānmìng, 天命). Il Cielo (Tiān) è un potere divino impersonale, garante dell’ordine cosmico e dunque del prevalere del bene sul male, della giustizia sull’ingiustizia. Il potere del monarca è legittimato solo nella misura in cui la sua azione è in accordo con l’etica; in questo caso esso è sancito dal Mandato Celeste. Che però può ritirarsi quando il potere si mostra dispotico e dannoso per il popolo.

Si accennava al ricorso al confucianesimo nella Cina di Xi Jingping. Alle democrazie rappresentative occidentali, nelle quali chi governa ha ricevuto il potere attraverso una procedura formale, la Cina contrappone non solo la meritocrazia nella selezione della classe politica, ma anche l’idea che un governo che abbia una condotta etica e faccia prevalere l’ordine e la giustizia nella società sia legittimato dalla cura che ha del popolo (cfr. Scarpari, 2015, cap. 5).

Questo però vuol dire anche che, se il potere non cura il popolo, è legittimo rovesciarlo, perché evidentemente privo del Mandato Celeste. Ma in quale situazione si verifica questa mancanza di cura? Cos’è un cattivo potere? La questione è affrontata da Mencio nel seguente dialogo:

Il re Hui di Liang disse: ‒ L’uomo di scarsa virtù volentieri desidera ricevere i tuoi insegnamenti.

‒ V’è qualche differenza ‒ domandò Mencio ‒ tra l’uccidere la gente col bastone e l’ucciderla con la spada?

‒ Non v’è differenza ‒ rispose il re.

‒ Con la spada o con il governo, v’è qualche differenza?

‒ Non v’è differenza.

‒ Nelle tue cucine hai carni grasse ‒ disse Mencio ‒ e nelle scuderie hai grassi cavalli, (mentre) il popolo ha il viso della fame e nei campi incolti giacciono i morti d’inedia. Questo è condurre gli animali a mangiare gli uomini: (eppure) l’uomo ha in orrore (perfino) che le bestie si divorino fra loro. Se colui che è il padre e la madre del popolo governa senza evitare di condurre gli animali a mangiare gli uomini, in che modo è il padre e la madre del popolo? Chung-ni disse: “Colui che per primo fece dei fantocci (da seppellire insieme ai morti) non meritò di restare senza posterità?” (Disse così) perché colui aveva raffigurato l’immagine dell’uomo e ne aveva usato (a quello scopo). E che si dovrebbe fare a chi riduce il popolo a morire di fame? (Mencio, Libro I, 4; Aa.Vv., 1974, pp. 272-273)

Il potere ha la funzione di garantire l’ordine civile. Il cenno agli esseri umani che si mangiano tra di loro indica che il potere può anche precipitare l’essere umano in una condizione animale. Nel caso di Mencio non si tratta di uno stato di natura, perché come abbiamo visto la natura umana è buona. Il potere al contrario agisce come il recipiente di cui s’è detto, che spinge l’acqua verso l’alto contro la sua natura.

Contro un potere corruttore è lecita non solo la resistenza, ma anche la violenza. Il problema di Giovanni di Salisbury e di Tommaso d’Aquino è risolto da Mencio come segue:

Il re Hsuan di Ch’i domandò: ‒ È vero che T’ang bandì Chieh (mentre) il re Wu punì Chou?

‒ Secondo quanto è stato tramandato, è così – rispose Mencio.

‒ È lecito ad un suddito mandare a morte il proprio sovrano?

‒ Chi lede la carità è detto scellerato, chi viola la giustizia è detto oppressore. Gli oppressori e gli scellerati sono comuni individui. Ho inteso dire che fu punito un individuo di nome Chou, non che fu mandato a morte un sovrano. (Mencio, I, 15; Aa. Vv., 1974, p. 289)

Un sovrano che si comporti in modo scellerato non è null’altro che un individuo comune. Ha smarrito la dignità di sovrano con la sua azione, e dunque la sua soppressione non è diversa dalla condanna a morte di un criminale. In questa ottima, molto più laica, l’investitura celeste è temporanea, non conferisce a chi la riceve una sacralità e intangibilità indefinita, ed è sempre legata all’agire. Il che vuol dire, in sostanza, che è sacra la vita di un sovrano giusto, senza che il riferimento trascendente conferisca alcuna sacralità intrinseca alla sua figura. E, diversamente da Giovanni di Salisbury, la funzione del sovrano non è prevalentemente repressiva, anche perché manca una visione di fondo come quella del peccato d’origine; il sovrano al contrario deve garantire il benessere del popolo, evitando che la disparità economica porti alla fame alcuni, mentre altri vivono nella ricchezza.

Due: il realismo politico

Tra le convinzioni sul pensiero occidentale che uno sguardo più ampio induce a riconsiderare c’è quella riguardante la fondazione del realismo politico. Con l’età moderna la politica si è liberata dagli impacci della religione ed è giunta a fondarsi autonomamente, parallelamente all’ascesa dell’economia capitalistica e della classe sociale che ne è protagonista, la borghesia. Una fondazione che, con pensatori come Machiavelli e Thomas Hobbes, si lascia alle spalle non solo la religione, ma anche l’etica. Già Weber notava che “il ‘machiavellismo’ davvero radicale, nel senso popolare di questa parola” si trova nell’Arthaśāstra, il trattato di scienza politica e di strategia militare di Kauṭilya, al cui confronto il Principe appare “innocuo” (Weber, 1998, p. 225).  Qualcosa di non troppo diverso si può dire per Shang Yang (商鞅), il Signore di Shang, il cui libro – appunto il Libro del Signore di Shang (Shāng Jūn Shū) – è un trattato sui modi di ottenere la stabiltà del governo, con metodi che scandalizzeranno per secoli. Una caratteristica che accomuna Machiavelli e Shang Yang è proprio la fama di maledetti, l’esecrazione universale che accompagna il loro nome.

Il pensiero del Signore di Shang si inserisce nella Scuola dei Legisti, che si sviluppa nel periodo degli Stati combattenti, in un periodo in cui feudatari bellicosi e violenti lottano per allargare il loro potere con metodi spregiudicati. Il pensiero dei Legisti, che sono per lo più ministri,  nasce da questa pratica politica in atto. Come scrive Anne Cheng, “i legisti sono probabilmente i primi pensatori politici in Cina ad assumere come punto di partenza l’uomo e la società non come dovrebbero essere, ma come sono, anche nella loro realtà più inaccettabile” (Cheng, 2000, vol. I, p. 233). Che è anche, come è noto, l’intento di Machiavelli: “andare drieto alla verità effettuale della cosa” più che alla “immaginazione di essa” (Il principe, cap. XVI; Machiavelli, 2018, p. 859). Sia nel confucianesimo che nel taoismo compare, con soluzioni diverse, il tema di come governare il popolo in modo da mantenersi al potere e al contempo favire il benessere generale. Il monarca è, in modo diversi, un mediatore tra l’ordine cosmico e il popolo. Nel caso dei Legisti si tratta invece, propriamente, di come manipolare il popolo in modo da garantire potere allo Stato ed ordine sociale.

Shang Yang, il più spregiudicato dei Legisti – artefice della rapida ascesa dello stato di Ch’in, di cui fu ministro, cadde poi in disgrazia[8] – ricorre a una narrazione delle origini che fa ha profonde affinità con lo stato di natura hobbesiano. In origine esistevano solo i legami famigliari. Man mano che questi aumentavano, si crerò conflitto tra i diversi clan: “A quel tempo, ognuno era intento a superare gli altri e si soggiogavano a vicenza con la forza; la prima cosa portò alle liti e la seconda alle dispute” (Duyvendak, 1989, p. 189). Siamo molto vicini allo situazione descritta da Hobbes. Dalla quale però in questo caso si esce attraverso l’etica: si comincia a parlare di virtù morale (il riferimento è proprio al ren confuciano) e si stringono legami sociali fondati sul riconoscimento reciproco. Ma in questa fase si afferma anche il principio del riconoscimento del valore personale e del talento. È l’idea meritocratica, centrale anch’essa nel confucianesimo, e di cui Shang Yang coglie il carattere disgregatore: perché le persone di talento, spinte dall’ambizione, cercano di superarsi a vicenda e a creare infinite dispute dottrinali, e ciò porta a una nuova situazione di disordine. Dalla quale si esce con una terza fase, quella dell’istituzione di una società fortemente strutturata, fondata sulla diversa attribuzione della proprietà privata, dei beni, dello status sociale, sulla creazione di un corpo di funzionari e sulla presenza, a capo di tutta la società, di un principe. Il quale, appresa la lezione della seconda fase, attribuirà incarichi a persone prive di meriti, ma spietate. “Onorare il talento significa superarsi a vicenda con le dottrine; ma instaurare un principe significa relegare gli uomini di talento nella disoccupazione” (ivi, p. 190). Il capovolgimento della prospettiva etica confuciana non potrebbe essere più completo.

L’idea di fondo è che introdurre principi morali non è sufficiente per ottenere l’ordine sociale, perché ad ogni principio morale si lega la speculazione che, associata all’umana tendenza a prevalere, crea infinite dispute dottrinali. Al posto dei principi morali c’è, in Shang Yang e in generale nei Legisti, la legge, che essendo tale è al di sopra di qualunque discussione o disputa. Affinché la legge sia tale dev’essere sempre accompagnata dalla punizione, che deve essere inflessibile e terribile. I passaggi logici sono esplicitati da Shang Yang con grande chiarezza:

[a] Per il popolo dell’impero non c’è maggior beneficio dell’ordine, e [b] non si può ottenere un ordine saldo se non insuarando un principe; [c] per instaurare un principe non c’è metodo più universale di quello di rendere suprema la legge; [d] per rendere suprema la legge, non c’è compito più urgente della messa al bando della scelleratezza e [e] per mettere al bando la scelleratezza non c’è fondamento più profondo della severità delle punizioni. (Ivi, p. 195)

Tutto il potere poggia sulla punizione. La sua finalità, occorre notare, è in Shang Yang in qualche modo ancora etica, poiché si tratta dell’ordine sociale, ossia ciò che per il popolo stesso costituisce un bene. Occorre però notare che questo ordine è concepito in un modo che non implica affatto il benessere dei sudditi, ma che al contrario si regge sul loro malessere. Un popolo che viva nell’agio e nel benessere diventa negligente, riottoso, e prima o poi precipita nel disordine. L’ordine, il bene ultimo, va mantenuto sempre con la paura.

Poiché come abbiamo visto crea divisioni, dispute e individualismo, la cultura va apertamente combattuta, e con essa la casta dei funzionari che costituiscono la base sociale del confucianesimo. Le uniche due occupazioni del popolo devono essere l’agricoltura e la guerra; anche il commercio dev’essere fortemente ostacolato. Quanto ai contadini, la loro condizione dev’essere talmente dura da rendere preferibile per loro la condizione del soldato.

Come si vede, si tratta di idee parzialmente sovrapponibili a quelle dei grandi maestri del realismo politico europeo. Le affinità sono nella pratica di gestione del potere, nel suo assolutismo, nella sottomissione del popolo. Ma quello teorizzato e realizzato da Shang è uno Stato con una economia fondata su un’agricoltura di sussistenza, con un commercio limitato e nessuno sviluppo culturale e artistico, mentre in Europa la teorizzazione di un potere assoluto accompagna e non ostacola lo sviluppo di un’economia di mercato e una eccezionale fioritura culturale, filosofica ed artistica, tutti elementi che Shang avrebbe giudicato segni di parassitismo sociale e principio di disgregazione.

Ottenere l’ordine attraverso il potere è l’obiettivo tanto di Shang quanto di Machiavelli e Hobbes. Come ha osservato Markus Fisher, il filosofo inglese era mosso dalla convinzione che, conosciute le leggi di quel corpo politico, questo potesse essere salvaguardato almeno dal “perire per malattie interne” (Hobbes, 2021, cap. XXIX, p. 340).  Dal punto di vista di Shang questo è un cedimento all’utopia. Per quanto un sovrano applichi i giusti principi, non è possibile mettere al riparo per un tempo indefinito lo Stato dal disornine che costantemente lo minaccia.[9] In questo caso il pensatore cinese è più vicino a Machiavelli, nel cui pensiero la Fortuna opera come forza disgregatrice che frustra ottimismo razionalistico, spingendolo a ritenere che sia impossibile “ordinare una republica perpetua, perché per mille inopinate vie si causa la sua rovina” (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, III, 17, in Machiavelli, 2018,  p. 630; Fischer, 2012, p. 219).

Vediamo ora quali questioni è possibile discutere a margine di questo percorso:

  • È moralmente lecita la soppressione fisica di un dittatore?
  • Quale è lo scopo del potere?
  • Che rapporto c’è tra potere, ordine sociale e benessere dei cittadini?
  • È possibile fondare eticamente la politica?
  • Quale ruolo hanno le punizioni nel mantenimento dell’ordine sociale?
  • È possibile costituire un ordine sociale durevole nel tempo? In quale modo?

La gioia

Il Taoismo esercita un fascino straordinario sugli occidentali. I suoi testi fondamentali, dal Dàodéjīng al Zhuāngzǐ, evocano al tempo stesso una concezione dell’essere di grande suggestione e un modo di vita che va oltre l’ideale del saggio che domina sé stesso. Se il confucianesimo si presenta per lo più nella forma smorta dei rigorosi rituali sociali e del ripetto rigido delle gerarchie, il taoismo attira i cercatori di libertà e gli anticonformisti. I pensatori taoisti sembrano in qualche modo imparentati con una lunga tradizione occidentale di pensatori anti-sistema. Mosso dalla convinzione che essendo “il tao la via della natura, è possibile trovare taoisti in ogni luogo e in ogni tempo”, Francesco Casaretti (2011, p. 6) ha tracciato un excursus dei taoisti d’Occidente che va da Spinoza, Cyrano de Bergerac e Voltaire a Fourier e Oscar Wilde, per arrivare ad Alice Miller e Jacques Tati.

Tra i tanti percorsi possibili – Plotino, Eraclito, Empedocle, Silesius, Brecht, Benjamin e Gramsci sono alcuni degli autori che Giangiorgio Pasqualotto ha studiato in rapporto al taoismo (Pasqualotto, 2008 e 2016) – seguiremo i punti di contatto tra il taoismo e Spinoza. Il filosofo olandese, ben radicato nella tradizione occidentale e tuttavia ragione di scandalo per le sue conclusioni che entrano in attrito con aspetti centrali della visione del mondo ebraico-cristiana, è tra i più orientali dei filosofi europei:  il suo sistema può essere letto in rapporto al Taoismo, come ora vedremo, ma anche al Buddhismo, nelle due diverse fasi di sviluppo (dal Therevada allo Zen) o al Vedanta Advaita.

Come Socrate, Confucio concentra la sua attenzione sull’umano, evitando la speculazione metafisica. Per i pensatori taoisti il problema dell’agire e quello dell’essere sono legati in modo necessario. La speculazione sull’essere non è astratta, ma finalizzata a comprendere quale è il miglior modo di vivere. Nella prospettiva del taoismo non si tratta di conoscere, come nella tradizione cristiana, la natura di un Dio personale per conformarsi al suo volere, ma di comprendere le dinamiche di un essere impersonale per vivere nel modo più naturale. Esattamente come in Spinoza, si tratta di conoscere la Natura per vivere in modo libero e sereno.

La Natura spinoziana non ha alcun carattere personale, e questo è l’aspetto che lo distacca nettamente tanto dall’ebraismo quanto dal cristianesimo ed è all’origine dell’accusa di ateismo. Non è un Dio che si possa pregare e con il quale si possa avere un rapporto personale, e non è nemmeno un Dio legislatore, che dìa leggi all’essere umano. L’errore che si compie, secondo la nota espressione dell’Etica, è quella di considerare l’essere umano “come uno Stato nello Stato” (Etica, Parte terza, Prefazione, in Spinoza, 2006, p. 95), come un essere altro dalla Natura grazie al rapporto privilegiato con un Dio personale.

I punti da affrontare per una lettura comparata sono dunque due: la Natura e il Tao, e la vita secondo Natura/Tao.

Cos’è il Tao? Qualsiasi tentativo di rispondere a questa domanda va a infrangersi contro i primi due versi del Dàodéjīng (道德經):[10]

道可道,非常道。

名可名,非常名。

Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao.
I nomi che si possono nominare non sono nomi eterni. (Lao Tzu, 2013, p. 40)[11]

Il discorso sul Tao, dunque, non coglie il vero Tao, che nella sua eternità resta al di là di ogni possibilità di discorso. Ma si può parlare non diversamente della Natura spinoziana. Nelle definizioni della prima parte dell’ Etica il filosofo definisce Dio come “l’ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, di cui ognuno esprime eterna e infinita essenza” (Etica, Parte prima, Definizioni, 6; Spinoza, 2006, p. 5). I due attributi della Natura sono il pensiero e l’estensione, entrambi infiniti. Ma essi sono solo due degli infiniti attributi della Natura. Questo vuol dire che la Natura di cui possiamo parlare – e che Spinoza analizza nell’Etica – è solo una parte della Natura in sé, che possedendo infiniti attributi è al di là delle nostre possibilità di conoscenza. C’è dunque una eccedenza tanto della Natura quanto del Tao che pone limiti precisi al discorso metafisico.

La visione del mondo sulla quale interviene il pensiero spinoziano è quella dualistica propria del cristianesimo. C’è un Dio buono, creatore del mondo, ma c’è anche un male che insidia di continuo la sua opera, c’è il peccato che segna indelebilmente l’esistenza umana. Con un solo gesto rivoluzionario Spinoza si libera tanto dal dualismo (e dalla trascendenza) che dal peccato. Esiste un solo essere, la Natura, alla quale l’umanità appartiene in pieno. Non ci sono tendenza diaboliche: qualunque cosa l’essere umano faccia è azione naturale. Ci sono azioni che provocano sofferenza perché nascono da ignoranza, ma non esistono peccati.

Ad un primo sguardo sembra che Spinoza pensi una Natura per così dire pesante. Una sorta di grande macchina cosmica che funziona con un determinismo implacabile, con un perfetto sistema di ingranaggi cui non sfugge nemmeno l’essere umano. Eppure Spinoza è il filosofo della libertà. Quella stessa macchina diventa leggera nel momento in cui è riconosciuta come tale. Il paradosso spinoziano è questo: pensare di essere liberi in un mondo liberamente creato da un Dio libero conduce a vivere con addosso il peso del peccato e della colpa; sapersi esseri naturali in un mondo deterministico offre la libertà di riconciliarsi con il proprio corpo e di vivere serenamente la condizione umana.

Non è qui possibile approfondire affinità e differenza tra la metafisica di Spinoza e quella del Taoismo, toccando temi come il rapporto tra il Tao ed il Te (De, 德), la virtù intesa come potere e, in parallelo, il rapporto tra Natura ed attributi.[12] Didatticamente può essere invece utile proporre qualche testo taoista e analizzarlo insieme agli studenti partendo dal pensiero di Spinoza. A questo scopo mi sembrano interessanti, oltre che molto belli, due passi del Zhuāngzǐ (莊子; è diffusa anche la trascrizione Chuang-tzu), che non è solo uno dei testi fondamentali del taoismo, ma anche un capolavoro della letteratura universale.[13]

Il primo passo è sul tema della felicità e si può leggere in parallelo con l’incipit del Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Il filosofo olandese si chiede se esiste un bene sempre accessibile che, una volta acquisito, consenta di “godere in eterno di una continua e somma letizia” (Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Prologo; Spinoza, 2014, p.111). Segue una analisi delle cose che per lo più le persone considerano beni, e che tali non appaiono invece ad una considerazione più attenta. Leggiamo ora Zhuāngzǐ:

C’è al mondo una gioia suprema che possa far vivere la persona umana? E, per assicurarsi questa gioia, su cosa fondarsi? Che cosa evitare? Che cosa adottare? A cosa avvicinarsi, da che cosa allontanarsi? Che cosa amare? Che cosa odiare?

Quel che tutti rispettano solo le ricchezze, gli onori, la longevità, l’eccellenza; quel che a tutti reca gioia sono il benessere fisico, la buona tavola, i bei vestiti, i bei colori e la musica. Quel che tutti disprezzano sono la povertà, l’essere ignorati, la morte prematura e la cattiva reputazione. Quello di cui tutti soffrono è venr privati del benessere fisico, del buon cibo, dei bei vestiti, dei bei colori e della musica. Chi non ottiene queste cose si affligge e si preoccupa. Questo atteggiamento è stupido, perché non porta neppure al benessere del corpo. (Duyvendak, 1992, p. 156)

Come si vede, questo testo è quasi perfettamente sovrapponibile a quello spinoziano. Simile è anche l’analisi che conduce al rifiuto di questi beni comuni è affine. Per il filosofo olandese non sono beni stabili, perché al loro conseguimento “summa sequitur tristitia”. Per il filosofo cinese il ricco e l’alto dignitario, spinti dalla ricerca ansiosa di ciò che considerano bene, non riescono nemmeno a conservare la salute del corpo. Cos’è allora il bene? In cosa consiste la gioa? La risposta di Zhuāngzǐ è nel wu wei, il non agire, uno dei più noti (e fraintesi) concetti taoisti:

Nel non-agire, secondo me, risiede la vera gioia. Ma tutti considerano il non-agire come la più grande delle sofferenze. Così è stato detto: “La gioia suprema è senza gioia; la gloria suprema è senza gloria”.
Il vero e il falso non possono venir definiti, ma il non-agire permette di determinare il vero e il falso. Se la gioia suprema è di far vivere la persona, solo il non-agire conserva l’esistenza. (Ivi, p. 157)

Qui sembra che vi sia una differenza profonda con Spinoza. Si può considerare quella spinoziana un’etica del non-agire? Si direbbe piuttosto il contrario: al centro dell’Etica c’è la potenza l’azione della mente, contrapposta alle passioni. Ma quando una mente agisce invece di patire? Quando ha delle idee adeguate (Etica, Parte terza, prop. I). Ora, nella prospettiva spinoziana avere una idea adeguata significa considerare l’insieme della Natura, i suoi nessi necessari, i rapporti di causa ed effetto. Significa “guardare la realtà non con occhi umani, ma con quelli stesse della realtà se essa ne possedesse”, per dirla con Giuseppe Rensi (1929, p.7). C’è in Spinoza una paradossale dialettica di passività e attività: le passioni ci rendono attivissimi, sempre alla ricerca del conseguimento di questo o quel bene apparente e sempre più lontani dalla felicità; la ragione ferma invece questo movimento febbrile, inserendo la vita umana nel contesto della necessità universale. Non è forse azzardato leggere l’etica spinoziana alla luce del wu wei taoista. E intanto è innegabile la convergenza nella concezione del bene: per entrambi consiste nel preservare il proprio essere (“Nessuna virtù può essere concepita come precedente a questa (cioè allo sforzo di conservare se stessi)”: Etica, Parte quarta, prop. 22; Spinoza 2006, p. 176).

L’altro passo di cui si consiglia la lettura è, in realtà, la continuazione del passo precedente. Il tema è quello della morte. Come è noto, Spinoza si contrappone a una lunga tradizione che vuole che la meditatio mortis sia uno dei temi filosofici fondamentali, se non il più importante di tutti. “L’uomo libero non pensa a niente meno che alla morte; e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita”, scrive nella notissima proposizione 67 della quarta parte dell’Etica (ivi, p. 208)

Leggiamo ora Zhuāngzǐ. Il tema è affrontato in due episodi, entrambi molto belli. Nel primo, si racconta della visita che un tale Hui-zi che va a far visita a Zhuāngzǐ sibito dopo la morte della moglie. Lo trova sereno, addirittura intento a cantare battendo il tempo su una scodella. Il suo atteggiamento lo scandalizza e gliene chiede ragione. Zhuāngzǐ risponde di essere stato “turbato per un istante” al momento della morte della moglie, ma di aver poi riflettuto:

Qualcosa di sfuggente e inafferrabile si trasforma in soffio, il soffio in vita, ed ecco ora che la vita si trasforma in morte. Tutto ciò è simile al succedersi delle quattro stagioni dell’anno. In questo momento, mia moglie è tranquillamete sdraiata nella Grande Casa. Se io mi lamentassi singhizzando rumorosamente, significherebbe che non capisco il corso del Destino. Per questa ragione me ne astengo. (Duyvendak, 1992, p. 158)

La reazione di Zhuāngzǐ alla morte della moglie è una buona illustrazione della vita filosofica spinoziana. L’evento suscita una immediata passione, che però è legata a una conoscenza inadeguata. Fermatosi a riflettere, il filosofo cinese amplia lo sguardo e considera quell’evento nella prospettiva dell’essere stesso, che ha le sue leggi e i suoi ritmi, ai quali non possiamo che conformarci.

Il passo successivo ha come protagonisti due personaggi metaforici, dai nomi bizzarri: Zio Difformità e Zio Indistinzione. Mentre stanno parlando, contemlandola tomba del Sovrano Giallo, un tumore compare improvvisamente sul loro gomito sinistro.[14] Zio Difformità chiede all’altro se ne ha orrore. E lui, sereno:

“Perché dovrei averne orrore?” rispose lo Zio Indistinzione. “La vita non è che un prestito; grazie a un prestito, noi nasciamo. La vita non è che un grumo di polvere. La morte e la vita si succedono come il giorno a la notte. D’altronde, tu e io siamo qui a contemplare un esempio di trasformazione. Se la trasformazione mi coglie, perché averne orrore?” (Ivi, p. 159).

La differenza tra i due passi è che il primo riguarda la morte dell’altro, il secondo la propria. In entrambi i casi la reazione, razionale, è di accettare di far parte di un mondo che è fatto di cambiamenti e di trasformazioni. A conti fatti, si tratta appunto della rinuncia a pensare a sé stessi sicut imperium in imperio.

A conclusione di questo percorso, è opportuno dialogare con gli studenti su quest’ultimo tema. La serenità di Zhuāngzǐ e di Spinoza è una possibilità reale per l’essere umano? È possibile sottrarsi all’alternarsi di gioia e sofferenza che caratterizza la vita di tutti?

Conclusione

Quelli qui proposti sono solo alcuni dei sentieri che è possibile seguire. Come ho osservato, non è realistico, perché il tempo non lo consente, studiare storicamente l’evoluzione della storia della filosofia cinese (cui bisognerebbe aggiungere almeno quella della filosofia indiana, non meno importante) parallelamente o in costante connessione con quella della filosofia occidentale. L’impostazione qui proposta è quella delle finestre interculturali, che mostra in che modo un medesimo tema è stato affrontato in un altro contesto culturale, con soluzioni e conclusioni simili o differenti. La comparazione legge in parallelo sistemi di pensiero, senza occuparsi delle influenze reciproche. Ma un lavoro affascinante è anche quello che riguarda i contatti e, appunto, le influenze tra culture anche molto lontane geograficamente. Nel caso dell’Europa e della Cina, sono interessanti i casi di Leibniz e Christian Wolff. Come osservano David Graeber e David Mengrow, una simile influenza esterna sul pensiero occidentale è stata sistematicamente negata e rimossa, perché riconoscere l’importanza di un pensiero non cristiano comportava il rischio di essere accusati di ateismo. È appunto quello che è accaduto a Christian Wolff: “anche lui era un sinofilo e teneva lezioni sulla superiorità dei modi di governo cinesi, con conseguenza finale che un collega invidioso lo denunciò presso le autorità, fu spiccato un mandato di arresto nei suoi confronti e fu costretto a fuggire per salvarsi la vita” (Graeber, Mengrow, 2022, cap. 2, nota 3). Man mano che si giunge all’epoca contemporanea e dunque all’attuale società globalizzata, le influenze reciproche si fanno più facili e frequenti. Si pensi a John Dewey, che a Pechino nel 1919-1920 ha anche tenuto una serie di lezioni (Dewey, 2017). Ma è anche interessante studiare l’influenza che il pensiero estetico del nostro Benedetto Croce ha avuto sul filosofo cinese Chu Kuang-Chien (Sabattini, 1970; Marchiano, 1974).

Vorrei aggiungere, concludendo, che è opportuno che una finestra possibile sia sempre disponibile. In altri termini, occorrerebbe mettere sempre a disposizione dello studente del materiale che gli consenta di costruire autonomamente una comparazione con un autore o una corrente di pensiero non occidentale. Al tal fine è necessaria la costituzione di un ampio archivio di materiali, dai quali gli studenti potranno attingere liberamente ed autonomamente[15], così come è indispensabile una certa flessibilità nella programmazione, che consenta loro di costruirsi percorsi personali, se necessario anche trattando in modo più sintetico autori e movimenti occidentali. Ma la cosa più importante è la consapevolezza che c’è un mondo al di là delle colonne d’Ercole scolastiche, che merita di essere esplorato con curiosità, rispetto e il piacere che sempre accompagna la conoscenza autentica.

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Note

 

[1] Data la complessità e diversità di posizioni, più corretto sarebbe parlare di filosofie orientali. Ma questo vale, a ben vedere, anche per la filosofia occidentale.

 

[2]  Questo aspetto anti-ideologico del buddhismo è sottolineato in particolare da Thich Nhat Hanh. Si veda Vigilante, 2020.

 

[3]  Non, magari, nella forma della Deep Philosophy, una pratica recente con la quale la contemplazione del testo filosofico prescinde da qualsiasi analisi critica e diventa un’azione sostanzialmente mistica (cfr. Lahav, 2022).

 

[4]  Una questione importante, che non è possibile approfondire qui, è quella dell’esistenza o meno di una filosofia africana, in riferimento naturalmente non a pensatori contemporanei, ma ai valori, alle concezioni e alle pratiche tradizionali, tramandati oralmente. Sulla questione si veda almeno Procesi, 2014.

 

[5]  Sul quale si veda Strauss, 2009.

 

[6]  Che sia ad esempio da considerare saggezza, e non filosofia, lo stesso pensiero di Socrate è opinione di Heinrich Maier (1943). Giudizio che Giovanni Reale liquida come “curioso”, “condizionato da un modo di intendere la filosofia come un sistema coerente e organico di dottrine in modo formale secondo lo schema impostosi soprattutto in età moderna, e non secondo la prospettiva che fu propria dei tempi antichi” (Reale, 2000).

 

[7]  Qui ed oltre i testi cinesi sono citati con una certa ampiezza per consentirne un uso didattico.

 

[8]  Secondo la tradizione, dopo la morte del sovrano fu osteggiato dall’erede al trono, che in passato lui aveva fatto punire. Per sfuggire all’arresto fuggì sulle montagne e cercò rifugio in una locanda. Gli fu però  vietato l’ingresso in base ad una legge fatta da lui stesso, che vietava di ospitare nelle locande chiunque non fosse in grado di identificarsi. Catturato,  fu condannato a morte per smembramento.

 

[9]  “Non esiste sovrano di uomini che possa dare ordine al suo popolo per tutto il tempo a venire, né paese al mondo che non abbia conosciuto il disordine” (Shang, 1989, p. 268).

 

[10]  Datato tra il IV e il III secolo a. C.,è dunque anch’esso un frutto del difficile ma fertile periodo degli Stati combattenti. Secondo la tradizione fu scritto da Lǎozi (老子), personaggio leggendario che avrebbe composto l’opera su richiesta di un guardiano di confine prima di rititarsi dal mondo, deluso dalla decadenza del suo tempo. L’opera presenza grandi difficoltà filolofiche, dovute anche alle modalità di trasmissione del testo. Come ricorda Duyvendak (1973, pp.14-15)  le opere cinesi antiche erano scritte su tavolette di legno o bambù legate con lacci. Quando il laccio si spezzava, le tavolette si mescolavano; occorreva allora rimetterle in ordine, cosa che risultava difficile quando il testo, come nel caso di quest’opera, era di per sé oscuro.

 

[11]  L’edizione usata è quella curata da Augusto Shantena Sabbadini per Feltrinelli. Pur non essendo un sinologo, Sabbadini offre una edizione che analizza ogni singolo ideogramma dell’opera, consentendo all’autore di avere un approccio non superficiale al testo e di considerare le possibili traduzioni alternative. Nel riportare la sua traduzione ho preferito per uniformità la grafia Tao, mentre Sabbadini opta, più correttamente, per Dao (e per Daodejing, anche se il titolo della sua edizione in copertina è Tao Te Ching).
Il passo citato, come tutto il libro, può essere tradotto in modi diversi e perfino opposti. Duyvendak, ad esempio, traduce: “La Via veramente Via non è una via costante” (Lao Tzu, 1973). Qui sembra convincente invece la soluzione di Sabbadini.

 

[12] Sul tema di veda l’analisi approfondita di Pasqualotto, 2016, cap. 3.

 

[13]  La composizione del Zhuāngzǐ sembra precedere quella del Dàodéjīng, risalendo circa al IV secolo a. C. Dell’autore si hanno scarse notizie storiche. Il Dàodéjīng  d’altra parte è un testo composito, con un nucleo risalente al tempo dell’autore e diverse stratificazioni successive (cfr. Cheng, 2000, vol. I, pp. 101 segg.).

 

[14]  Secondo la traduzione di Duyvendak. Dalla quale diverse sensibilmente quella di Leonardo Vittorio Arena: “All’improvviso, un salice spuntò fuori dal sopracciglio sinistro dello Zio dell’Insignificante Confusione[così Arena rende lo Zio Indistinzione di Duyvendak], il quale ne sembrò assai stupito e, forse, contrariato”. In nota Arena spiega che secondo uno dei commentatori cinesi il salice potrebbe essere un tumore (Chang-tzu, 1998, p. 190 e nota). La traduzione di Duyvendak è affine a quella classica di James Legge nell’ambito dei Sacred Books of the East (Legge, 1981), riportata nel Chinese Text Project (url: https://ctext.org). Grazie al quale è possibile consatare – ed è interessante farlo insieme agli studenti, ragionando sulle pratiche di traduzione – che 柳 indica un salice.

 

[15]  Un tale archivio intende essere il mio progetto Mònimos. Mondi filosofici, disponibile in rete all’url: https://www.monimos.org

 

Antonio Vigilante è docente di Filosofia e Scienze Umane al liceo “Piccolomini” di Siena. I suoi ultimi libri sono: Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore (2018); L’essere e il tu. Aldo Capitini in dialogo con Nishitani Keiji, Enrique Dussel e Murray Bookchin (2019); La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha (2019); Le dimore leggere. Saggio sull’etica buddhista (2021); La scuola difficile. Interventi 2015-2021 (2021, ebook); Dio è falso. Una breve introduzione all'ateismo (2022). Il suo blog personale è Attraversamenti (https://www.attraversamenti.info).
Email: antoniovigilante@etik.com