Fidarsi dei bambini, fidarsi della letteratura | Trusting Children, Trusting Literature
DOI: 10.5281/zenodo.12787424 | PDF
Letteratura per l’infanzia è letteratura/9. A cura di Cristina Bellemo
Fra gli albi illustrati che amo c’è In 4 tempi dell’autrice francese Bernardette Gervais (2020) che invita il lettore a entrare in una struttura che si ripete invariata per l’intero libro.
Le pagine sono articolate tutte nel medesimo modo: su quelle di destra troviamo sempre quattro immagini che mostrano fasi temporalmente successive di un evento preciso: il passaggio di una chiocciola, l’incedere del gatto e del coniglio, la costruzione di un nido, il maturare e il marcire di una pera, l’evoluzione di un fiore di tarassaco o di un papavero, la giornata, il mutare di un paesaggio nel corso delle stagioni, il passaggio di una nuvola. Le illustrazioni riempiono l’intera pagina ma sono divise, l’una dall’altra, da uno spazio bianco, che finisce per essere percepito come una croce che separa le figure. L’inquadratura è fissa e questo permette, confrontando ogni immagine con quella che la segue o la precede, di ricostruire la scansione temporale dell’evento.
Le pagine che vediamo sulla sinistra sono completamente nere, le poche parole di testo che figurano su ognuna sono bianche, strutturate in modo simile in ogni pagina: un titolo e un elenco numerato dei quattro tempi in cui l’evento enunciato dal titolo si sviluppa.
La nuvola
La nuvola
passa
sopra
la casa.
Da una pagina all’altra il tipo di narrazione e il rapporto immagine testo muta, andando dalla descrizione piana di ciò che vediamo nelle illustrazioni all’evocazione di aspetti che non sono evidenti nell’immagine.
La chiocciola 2
La chiocciola
paaa…
…aaa…
…aaassa.
La chiocciola, in questo caso, entra nell’immagine da sinistra, nelle immagini successive la vediamo spostata di pochi millimetri rispetto alla prima illustrazione. È una sequenza che ci dice di un tempo piccolo, di minuti e di lentezza. In altri casi le illustrazioni raccontano di un tempo più vasto, come nella successione di uovo, pulcino, pollo, gallina o in quella delle stagioni: primavera, estate, autunno, inverno.
Io sono bibliotecaria in una biblioteca per bambine, bambini, ragazzi e ragazze; una parte del mio operare si sostanzia nella lettura di libri, nella loro valutazione, nel metterli sugli scaffali e proporli non solo a piccole e piccoli, ma anche agli adulti che di loro a qualsiasi titolo si occupano: genitori, nonne e nonni, insegnanti, educatrici, promotori della lettura, bibliotecari, studenti di scienze della formazione.
Al centro della mia attenzione stanno, dunque, lettori e lettrici e il rapporto che ognuna e ognuno di loro può instaurare con un libro, al piacere che possono trarne, ai pensieri che fioriranno durante la lettura, a quel senso individuale che ognuno attribuisce alle narrazioni e che dipende dalle individuali e non penetrabili esperienze, di vita, psicologiche, emotive, estetiche, che sono bagaglio di ciascun lettore e si fanno struttura recettiva a stimoli estetici, cognitivi e intellettuali.
Mi sembra che l’albo di Bernardette Gervais si faccia narrazione di questa possibilità. Nel vuoto bianco fra le immagini, in quel tempo non detto o raffigurato c’è spazio per il pensiero di chi legge e l’occasione di trarre a sé esperienze proprie da utilizzare nella costruzione della narrazione. Lo stesso fanno quelle pagine nere, le poche parole di testo e l’andare e il venire fra testo e immagine, in quella sorta di gioco enigmistico che chiede di riempire lacune in una ricerca di senso, di compiutezza che solo individualmente può essere affrontata e che si fa esperienza di lettura, di pensiero, di creatività.
Cristina Bellemo mi ha chiesto di indagare attorno al fatto che la letteratura per l’infanzia non sia considerata letteratura a diritto pieno, che non abbia riconoscimento a livello accademico come letteratura a tutti gli effetti e come succeda che stia in bilico fra letterarietà e necessità educative. Lo hanno fatto in molti, qui e fuori da qui e mi sembra che l’unico piccolo contributo che posso dare sia quello che vede lettori e lettrici come fulcro della questione.
Parlare di lettrici e lettori piccoli significa anche avere contezza di come, nel nostro paese, la letteratura per l’infanzia sia sempre stata intesa come occasione di trasmettere valori, comportamenti, visioni del mondo date e come nemmeno la rivoluzione editoriale degli anni Cinquanta e Sessanta prima e di quella degli anni Novanta poi siano riuscite a scalfire completamente questo atteggiamento che racconta anche un pensiero pedagogico e un’immagine di infanzia e di futuro.
Significa anche avere presente che editoria per l’infanzia e letteratura per l’infanzia non sono due campi sovrapponibili o confrontabili: per pretendere o sperare che la letteratura per l’infanzia sia considerata letteratura a tutti gli effetti occorre che una letteratura per l’infanzia esista e che sia individuabile all’interno di una produzione editoriale vastissima.
Occorrerebbe innanzitutto riuscire a slegare il nodo o il loop di cui non si comprende bene l’origine, cercare di capire cioè se sia l’editoria a determinare così fortemente il gusto e i desideri del pubblico o se sia il pubblico con le sue richieste “per” a determinare la produzione editoriale. Come pubblico, qui, intendo gli adulti che scelgono per i piccoli: genitori, insegnanti, educatori, bibliotecari, promotori della lettura, insomma tutte quelle zie di cui diceva Bichsel (1989).
È arduo ipotizzare un cambiamento, una deviazione, una distrazione a quell’andare ripetitivo e sempre uguale a sé stesso, in cui è difficile acchiappare un capo e cominciare quindi a disfare e poi a ritessere.
Un capo potrebbe essere la definizione di letterarietà, che non è definizione facile nemmeno per critici e studiosi.
In un libretto agile che io rileggo ossessivamente Loredana Chines e Carlo Varotti (2016, p. 55) cercano di definire la specificità del linguaggio letterario arrivando a sostenere che la comunicazione letteraria è qualcosa di molto diverso dalla comunicazione quotidiana perché si basa sulle potenzialità del significante, piuttosto che su quelle del significato.
Il linguaggio poetico si concentra su se stesso, supera l’occasionalità e la contingenza delle materia esistenziale da cui prende l’ispirazione.
È il linguaggio, quella parola vaga di cui diceva Leopardi, che ha la possibilità di rendere l’universalità e quindi una penetrabilità individuale ai testi. Il legame fra testo e lettore, l’ingaggio, avviene nella forma, non nel contenuto, è la forma che si fa contenuto. Il lettore si accende quando è chiamato dal testo a collaborare nella realizzazione del senso.
Lo sosteneva efficacemente Umberto Eco (1979) quando affermava che
Un testo, quale appare nella sua superficie (o manifestazione linguistica) rappresenta una catena di artifici espressivi, che debbono essere attualizzati dal destinatario.
Quando si tratta di narrazioni per l’infanzia si confonde spesso quello che è il rapporto fra il lettore e il testo con le esigenze comunicative della quotidianità. Il punto diventa spesso “come comunicare coi bambini e le bambine attraverso le storie e le narrazioni”. Questa prospettiva lancia la questione immediatamente fuori dalla letterarietà per farla rientrare all’interno di pratiche educative e didattiche.
Scrive Milena Bernardi (2016, p. 49), pedagoga, studiosa e docente di letteratura per l’infanzia capace di tenere insieme pratica pedagogica e considerazioni sulla funzione della letteratura nei processi di crescita e formazione:
Si pubblicano, allora, albi illustrati e romanzi che raccolgono le urgenze provenienti dalle prove che la vita impone e fanno del tema spinoso il motivo del racconto. […] Storie a soggetto, che svolgono una funzione di intermediazione nella relazione fra bambini e adulti, volendo supplire alla mancanza del linguaggio che non emerge più dall’esperienza, poiché è proprio l’esperienza a venire meno.
Milena Bernardi rende conto dello spaesamento con cui io stessa faccio i conti nel momento in cui – nei moltissimi momenti in cui – gli adulti, che presumibilmente condividono coi piccoli vita ed esperienze, chiedono, e questo è solo un esempio fra i tanti: “un libro per potere parlare delle emozioni”. In simili, soventi, situazioni due sono le considerazioni che vorrei porre fra me e chi mi interpella. La prima è molto pratica e riesco a esprimerla solo attraverso un discorso diretto che suona più o meno così: “Hai rapporti quotidiani di cura, ore di discorsi con questi piccoli, perché pensi di avere bisogno di un libro per affrontare con loro questi temi? Non basta il contesto di affetto, di cura, di condivisione di gesti quotidiani, per confrontarsi su ciò che succede? Perché pensi di avere bisogno di parole esterne a voi?”
La seconda riguarda invece gli intenti e fini di queste produzioni. Ci sono molti libri che propongono storie relative ai compiti di sviluppo. Sono, in genere, storie che tendono alla normalizzazione, a un fare implodere ogni evento, così significativo nella vita di ognuno, in un ambito di normalità controllata. La rabbia può essere domata, la gelosia mitigata e compresa, la paura limitata da un presente confortevole. Per rendere efficaci la comunicazione e il messaggio vengono usati una lingua e un’ambientazione il più possibile mimetici. Si finisce per passare, come ci ricorda il filosofo Byung-Chul Han (2024, p. 14), dal raccontare all’informare.
Il progressivo abbattimento della lontananza è un tratto caratteristico della modernità. Essa svanisce e viene sostituita con la perdita di qualunque intervallo di separazione. L’informazione è uno dei modi peculiari in cui si palesa questa assenza di un intervallo di separazione, che rende tutto a portata di mano.
Han, in questo piccolo saggio, ci ricorda alcune delle caratteristiche del narratore che
non informa, né fornisce spiegazioni. L’arte di narrare comporta proprio la capacità di nascondere le informazioni […]. L’informazione nascosta, cioè la spiegazione mancante, aumenta la tensione narrativa (ivi, pp. 14-15).
Si interroga, il filosofo, come molti prima di lui hanno fatto, su perché ci sia bisogno di narrazioni; lo fa partendo da Benjamin, là dove sosteneva che il narratore fosse persona di “consiglio” per chi ascolta. Esporsi a un consiglio non comporta una soluzione, ma permette di essere inseriti all’interno di una comunità narrativa che nella narrazione riconosce possibilità di tramandare l’esperienza. Il consiglio all’interno di questa pratica diviene “saggezza” in quanto narrazione. Se si è in condizione di non riuscire a narrare la vita la saggezza scompare e viene sostituita dalla tecnica del problem solving (ivi, p. 25).
Le narrazioni, scrive ancora Han, sono imbevute di quell’aura, di cui diceva Benjamin, che si definisce come apparizione di una lontananza.
L’aura è narrativa proprio perché intrisa di lontananza. L’informazione di contro toglie al mondo ogni aura e ogni incanto nel momento stesso in cui abolisce la lontananza (ivi, p. 15).
Molta parte dell’editoria per l’infanzia tende inevitabilmente a produrre informazioni paludate da storie.
Se prendiamo per buona l’affermazione di Walter Siti (2021) rispetto al fatto che “il maggiore obiettivo della letteratura non è la testimonianza, ma l’avventura conoscitiva” possiamo assumere che sia proprio quell’aura, quella lontananza, a farsi caratteristica di letterarietà. Si tratta della possibilità, per lettori e lettrici, lo raccontava benissimo in un interessante saggio Milena Bernardi, di riempire distanze e lontananze, che consistono anche nell’uso di strutture linguistiche, narrative e stilistiche, che non coincidono con quelle usate nella comunicazione quotidiana, con la messa in scena di altrovi temporali e spaziali, con metaforizzazioni e vaghezze, con un necessario processo di pensiero.
Che la letterarietà, l’arte, apra la possibilità di percorsi conoscitivi è stato affermato, con l’acutezza e l’intenzione che hanno caratterizzato i suoi studi, da uno dei massimi critici letterari che ha operato nel nostro paese, Mario Lavagetto. Più volte, nelle sue opere ha sottolineato come l’opera d’arte sia il modo, socialmente condiviso, dato all’umanità per avere accesso a quei contenuti che, pur facendo parte della nostra esperienza ed essendo indispensabili al vivere, sono stati censurati dall’imporsi del principio di realtà a scapito del principio di piacere.
Torniamo alla fantasia. Quando si instaura il principio di realtà, dice Freud, essa si rifugia in una zona franca e appartata in cui la sola legge è ancora, e sempre, rappresentata dal principio di piacere. Il mondo reale viene messo in parentesi; nessuno dei suoi codici conserva un potere vincolante […] (Lavagetto, 1995, p. 311).
Questi contenuti hanno possibilità di accedere alla coscienza attraverso i sogni o nella malattia mentale, ma hanno la possibilità, socialmente condivisa, di palesarsi nelle opere d’arte, nel lavoro dei poeti.
Sempre una traduzione – infine – ma più sottile, più rigorosa, più attenta alle prescrizioni del pensiero cosciente, più intellegibile e consona alle regole di un teatro non metaforico, viene offerta alla fantasia dall’opera d’arte (ivi, p. 312).
Mi figuro che questo valga per l’intera letteratura, anche, quindi, per quella dell’infanzia, una infanzia che può trovare, nel leggere, quel varco lì, quell’occasione ad andare a contenuti altrimenti inaccessibili, non direttamente comunicabili nelle interazioni quotidiane o negli scambi informativi, ma intuibile, penetrabile, dai movimenti che permette la frequentazione di oggetti estetici.
Il piacere estetico, quindi la capacità di penetrazione a contenuti in fondo insondabili, lo sosteneva anche Roland Barthes (1980, p. 128), non sta in ciò che risponde al desiderio (ciò che è percepibile e limitato) ma in ciò che lo sorprende, l’eccede, lo svia, lo deriva.
Assumendo questo si trancia definitivamente il legame fra letteratura e pratica didattica ed educativa, a meno che la pratica educativa non sia compresa e agita in tutto il suo vasto essere, come pratica che apre possibilità future, occasioni inaspettate all’interno di una progettualità che assume uno sguardo lunghissimo e inserisce l’intenzionalità in un orizzonte ampio, un’esperienza educativa che sempre riesce a comprendere
che qualsiasi evento educativo è costituito sempre dal rapporto fra più fattori e termini: non soltanto dall’educatore e dall’educando ma anche il luogo, la circostanza, le ragioni che caratterizzano l’incontro; il contenuto, i mezzi che sostanziano il rapporto; i contesti sociali di appartenenza dell’uno e dell’altro ecc. Ma significa anche constatare, per trarne poi tutte le conseguenze, che quello stesso evento educativo si precisa sempre in un processo continuo nel quale, senza alcun rifiuto del passato che va anzi accettato come archeologia del presente (al quale si fa riferimento e dal quale si prendono comunque le mosse), opera come molla irrinunciabile l’apertura verso il futuro in quanto campo del possibile (Bertolini, 1988, p. 114).
La pedagogia fenomenologica ha da sempre sbaragliato il tentativo di innestare processi immediati di causa effetto e tentato di mettere al centro l’esperienza individuale considerata in una prospettiva che comprende radici e ramificazioni future e complessità. Credo che la pratica della lettura e della letteratura vada ricondotta a questo campo che riconosce la centralità di ogni individuo, la sua unicità, le possibilità ampie del possibile nella crescita di ognuno e il diritto a essere presenti e attivi nei processi di crescita e cambiamento che ci riguardano.
La letteratura trova in questo campo ampio spazio e agio, lo trova nella possibilità che ognuno di noi, grande o piccolo ha nell’occasione di essere lettore e di crescere in quell’occasione.
Il famoso mito dell’identificazione, quando si ha a che fare con la buona letteratura e non con i libri di consumo che invadono ormai il mercato, è una forma di ascolto: non Odisseo o Enea o Dante o Madame Bovary come me, ma io come Odisseo o Enea o Dante o Madame Bovary. Per quanto posso, il più che posso (Gardini, 2014, p. 28).
Gardini ci propone un ribaltamento di paradigma, il lettore, attualizzando il testo, opera un’attribuzione di senso che chiama in campo la sua enciclopedia culturale ed esperienziale radicandosi nel passato e nel non esprimibile e proiettandosi nel futuro che è possibilità e occasione.
La grande letteratura, lo ribadisce più volte Gardini, lascia questa possibilità, questa distanza da riempire, questo spazio. Il lettore lo trova nella lacunosità dei testi, lacunosità che chiede di essere colmata, che richiede l’intervento di lettori e lettrici, l’opportunità di attiva cooperazione al testo. La lacunosità, per dirla con Han e Benjamin è aura, è lo spazio di senso che spetta al lettore che, completando la narrazione, riesce a dare spazio e vita alla narrazione individuale della propria vita, a trovare ragione a inizi e fini e a indagare la propria finitudine.
Questa possibilità, questo slargo grande, segna in fondo il confine fra testimonianza, informazione e letteratura.
Lo evidenzia in modo chiaro Chiara Lepri (2013) nel suo saggio che indaga gioco e linguaggi poetico-narrativi, quando sottolinea, riferendosi a Vygotskkij, come, per quel che riguarda la parola, il significato inerisca a qualcosa di comunemente condiviso, mentre il senso si definisca come l’insieme degli elementi psicologici risvegliati nella coscienza di ognuno dalla parola.
Tutta quell’editoria che si costruisce attorno a richieste specifiche, a bisogni impellenti, a risposte immediate si fa vestale di un significato che elude e accantona ogni possibilità di senso: abdica alla fiducia nella letteratura e, in pari grado, a quella nel lettore.
Guido Almansi (1984, p. 69), in un bel saggio sull’ironia, metteva al centro il ruolo del lettore sottolineando che
La vitalità della scrittura dipende alla fine dall’indipendenza del lector in fabula. Non ogni scrittore ha il lettore che si merita (o viceversa). Bisogna difendere lo scrittore dal lettore onesto, codardo e conformista.
L’affermazione ci concede molte sfaccettature e altrettanti pensieri e sviluppi che si attanagliano all’intreccio di letteratura ed educazione e permette, come suggerisce l’autore, di essere ribaltata. Possiamo quindi dire che è anche necessario difendere il lettore dai libri onesti, codardi, conformisti.
È uscito in questi giorni per Terre di Mezzo un libro dello scrittore statunitense Mac Barnett. Mac Barnett è scrittore per bambine e bambini, ma in questo caso si tratta di un testo rivolto agli adulti che, in modo ironico e scanzonato, divulgativamente perfetto, affronta, descrive, deride, lo snobismo con cui spesso la letteratura per l’infanzia è considerata e il modo utilitaristico con cui si pretende di affrontarla.
Quando parliamo di letteratura per l’infanzia dobbiamo evitare la trappola dell’utilitarismo. Affermando che i libri aiuteranno a migliorare il comportamento dei bambini, velocizzeranno il loro sviluppo emotivo, o gli permetteranno di avere voti più alti, inevitabilmente finiamo con limitare l’ambito della letteratura per bambini. L’arte non ha bisogno di essere “utile”. I sostenitori di questa letteratura dovrebbero trattare con sospetto anche gli appelli a pensare al futuro: stiamo creando lettori per tutta la vita, plasmando i futuri leader, forgiando cittadini modello. Sì, ok, certo, i bambini sono il futuro: tra vent’anni saranno al mondo più persone che attualmente sono bambini di quelle che ora sono adulti. Ma c’è una cosa che interessa di più a chi scrive per l’infanzia: i bambini sono il presente. Sono persone in questo momento, persone con speranze e paure, che possiedono vite interiori ricche, che sperimentano gioie e tragedie. Hanno diritto ad avere storie interessanti e arte che sia piena di significato (Barnett, 2024, p. 17).
Trovo molto feconda questa sottolineatura sul presente, questo considerare bambini e bambine per ciò che sono, non per ciò che saranno. Molti progetti di promozione della lettura spostano gli obiettivi sul futuro. Su ciò che poi verrà. Il rischio è che non si riesca a stare nel presente, ad ascoltare, a leggere i bisogni e le esigenze, che non si riesca a vedere la persona piccola che si ha di fronte e a riconoscerle profondità e capacità di indagine, ma solo ciò che si desidera per il futuro, finendo, per ciò che riguarda la letteratura, per eludere tutto quel che concerne il godimento estetico di cui parlava Barthes, la possibilità di vederla come strumento di conoscenza, come occasione di sondare ciò che è insondabile e in fondo svalorizzando non solo l’esperienza della lettura, ma i bambini stessi.
Un simile atteggiamento non prefigura futuri ampi, sentieri nel bosco, ma stradine già tracciate da percorrere senza troppo interrogarsi o cercare o volere o pensare.
L’intreccio fra educazione, promozione, editoria e letteratura per l’infanzia non dà respiro alla prospettiva, confonde intenti, livelli, pratiche.
Fermarsi a guardarlo, interrogandosi, permette forse di tirare qualche filo, di sciogliere qualche nodo e di azzardare esperienze di lettura e pratiche di promozione altre.
Forse la soluzione sta nella fiducia. Nella fiducia delle potenzialità della letteratura. E in quella per i bambini e le bambine lettori. Se ci fidiamo della letteratura, se ci fidiamo delle bambine e dei bambini, forse possiamo farci un po’ da parte, lasciando che quell’esperienza si depositi e fiorisca in ognuna e in ognuno, coi tempi, modi e ritmi che ciascuno per sé sa e può.
Saranno proprio bambine e bambini, a questo punto, a potere riconoscere la letteratura come un’occasione a sé, lontana dalla didattica, dal controllo degli adulti attorno a ciò che si può e deve pensare, una avventura conoscitiva individuale: una pelle nuova, una capanna, una cuccia in cui stare da soli, un sentiero non segnato nel bosco, un fagotto di esperienza con cui camminare nel mondo e indagarlo.
Se lasciamo che i bambini possano riconoscere nella letteratura questa possibilità, poi, forse, riusciremo ad accoglierla anche noi.
Riferimenti bibliografici
Almansi, G., Amica ironia, Garzanti, Milano 1984.
Barnett M., La porta segreta. Perché i libri per bambini sono una cosa serissima, Terre di Mezzo, Milano 2024.
Barthes, R., Barthes di Roland Barthes, Einaudi, Torino 1980.
Bernardi, M., Letteratura per l’infanzia e alterità, FrancoAngeli, Milano 2016.
Bertolini, P., L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1988.
Bichsel, P., Al mondo ci sono più zie che lettori, Marcos y Marcos, Milano 1989.
Chines, L. e Varotti, C., Che cos’è un testo letterario, Carrocci, Roma 2016.
Eco, U., Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979.
Gardini, N., Lacuna. Saggio sul non detto. Einaudi, Torino 2014.
Gervais, B., In 4 tempi, Ippocampo, Milano 2020, ed. originale En 4 temps, Albin Michel Jeunesse, Parigi 2020.
Han, B.-C., La crisi della narrazione, Einaudi, Torino 2024.
Lavagetto, M., Freud la letteratura e altro, Einaudi, Torino 1995.
Lepri, C., Parole in libertà. Infanzia, gioco e linguaggi poetico-narrativi, Anicia, Roma 2013.
Siti, W., Contro l'impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, Rizzoli, Milano 2021.
L’autrice
Nicoletta Gramantieri è responsabile della biblioteca Salaborsa Ragazzi di Bologna. Appassionata lettrice di letteratura per l'infanzia, è attiva nella formazione, rivolta a insegnanti, bibliotecari, educatori e operatori in genere, su temi che riguardano la letteratura per ragazzi, la promozione della lettura e l’organizzazione delle biblioteche. Collabora con le riviste “Hamelin” e “Liber”. Il ritratto è di Daniela Zedda.