Fare scuola fuori dalla scuola: distanziamento fisico e vicinanza educativa | Schooling outside the school: physical distancing and educational closeness

The pandemic has accelerated the processes of change taking place in the Italian school, bringing to the center of the debate the need to rethink teaching-learning models in a more dynamic and ecological way, inserting them in current events and putting them in continuous dialogue with contexts. The main theoretical references are indicated to found the perspective of change as a culture of education, according to the good practices and qualified experiences that are presented in subsequent interventions.

P. Nicolini, Fare scuola fuori dalla scuola: distanziamento fisico e vicinanza educativa, in “Educazione Aperta” (www.educazioneaperta.it), n. 9 / 2021.

PDFDOI 10.5281/zenodo.5163172


Dopo aver asserito in tutti i consessi possibili, quelli scientifici e quelli divulgativi, con esperti di varia natura e provenienza come pediatri, psicologi, educatori, pedagogisti, neurologi, psichiatri, insegnanti che il ricorso a strumenti tecnologici come tablet e smartphone va fatto con molta cautela, solo per pochissimo tempo, solo in rarissimi casi, solo se accompagnati da un adulto, solo dopo una certa età e comunque non prima dei 5-6 anni – ma qualcuno in più non sarebbe male –, ci siamo trovati in emergenza a spazzare via tutte le raccomandazioni e a “fare scuola” online, con dosaggi di utilizzo proprio di quei dispositivi che basterebbero per il resto della vita di un bambino o di una bambina.

Ci siamo detti, a un certo punto della pandemia, che è stata una didattica di emergenza, ha svolto un ruolo di surrogato in mancanza di altre possibilità di risposta in tempi brevi. Ce ne siamo dovuti in gran parte fare una ragione perché, si sa, di necessità si fa virtù e la necessità era quella di salvaguardare le nostre stesse esistenze nel momento in cui, ancora confusi, cercavamo di organizzare risposte alle necessità della vita quotidiana, in prima fila quella della formazione scolastica delle giovani generazioni.

Come ci ha indicato Franco Lorenzoni, è stato necessario definire didattica di emergenza la modalità di fare scuola a cui si è ricorso nelle prime fasi acute della pandemia, proprio per cercare di delinearne bene il confine temporale. E anche perché l’espressione didattica a distanza, a quanti e quanti si dedicano alla scuola, suona come un ossimoro, perché nella didattica sono sottesi i processi di insegnamento finalizzati all’istruzione ma anche all’educazione, e quest’ultima non può essere “scorporata” dalla comunicazione e dalla relazione, che solo una presenza attiva e attenta può assicurare. La didattica non può essere intesa come una mera scelta di tecniche o di strumenti di trasmissione, infatti, ma come accoglienza degli alunni e delle alunne come persone, in tutte le dimensioni che questa accezione comporta, fisiche, sociali, emotive e cognitive: va da sé che per questo è necessaria la presenza – e molta presenza! – degli insegnanti con tutte le loro caratteristiche, fisiche, sociali, emotive e cognitive.

Ora però, pensando a quanto è poi avvenuto con la riapertura a settembre, è possibile dire che non eravamo più presi di sprovvista, sebbene una nuova ondata pandemica spuntasse all’orizzonte. Nel campo dell’educazione avremmo potuto far tesoro in modo migliore di quanto messo a frutto, sia durante la fase di espansione della pandemia, sia soprattutto, di quel grande patrimonio di conoscenze e competenze rappresentato da autorevoli studi a cui si può attingere. Modelli per “essere scuola”, una scuola capace di rispondere alle mutate esigenze dell’attualità, pandemia compresa, ne avevamo e ne abbiamo di diversa origine e specie, per lo più collaudati, sperimentati, documentati e rispondenti alle necessità di distanziamento fisico che la pandemia ha reso necessario. Sono modelli di cui si conoscono e riconoscono i risultati, che si rifanno a pilastri teorici di grande spessore, frutto di pensatori e pensatrici dell’educazione quali Jerome Bruner1, Howard Gardner2, Mario Lodi3, Loris Malaguzzi4, Lorenzo Milani5, Maria Montessori6, Gianfranco Zavalloni7, solo per citarne alcuni. Parliamo delle piccole scuole di montagna, di scuole nel bosco, di orti scolastici, di scuole in natura, di agri-nido e di agri-infanzia, di buone pratiche di educazione diffusa. Avevamo e abbiamo ampia scelta per allargare le possibilità e per dare risposte stringenti all’attualità. Non si tratta semplicemente di spostare all’aperto l’interazione scolastica che normalmente avviene intra-moenia, come si è visto in qualche caso, non si tratta di trasferire una lezione frontale nel giardino della scuola, anche se certamente anche questo è un minuscolo passo avanti, perché stare all’aperto è più salutare – al di là della pandemia –, intendendo per salute il completo benessere fisico e mentale, secondo quanto indicato dall’OMS nella Carta di Ottawa del 1948.

Sapevamo, infatti, che l’apprendimento non può avvenire stando per ore seduti a un banco ad ascoltare un insegnante che parla, era una illusione tanto pia quanto comoda, perché andava avanti per inerzia. C’erano numerosi presupposti nelle ricerche scientifiche di settore per convincersi che non c’è apprendimento significativo senza esperienza8, non si educa al comprendere9 senza la fisicità del corpo, non si interagisce con le teorie ingenue solo con le parole10, non si innescano cambiamenti concettuali11 senza “sbattere il muso” su quel che la realtà offre al di là delle nostre congetture, sebbene per la maggior parte legittimate dai dati provenienti dalla percezione.

Nell’interazione scolastica tradizionale, rivelatasi in tutta la sua rigidità e arcaicità, gli scambi tra pari12, che i bambini e le bambine si sono presi nonostante l’insofferenza di molti e molte docenti, sono stati l’ancora di salvezza. Mentre gran parte del tempo a scuola è stato impegnato a mettere bambine e bambini in fila e a stare seduti composti, a scrivere improbabili decaloghi e a doverli costantemente ricordare, a governare e contenere la socialità che prorompe trattandola come un disturbo al pensiero e al ragionamento, la socialità tracima nel mondo dei giovani alunni e alunne, perché la conoscenza più profonda di sé, degli altri e delle altre, e del mondo, deriva in grandissima parte dalle interazioni con i propri coetanei e coetanee, sia nell’area degli apprendimenti formali che di quelli informali e non formali. L’orizzontalità ha infatti una funzione molto più pregnante di qualsiasi interazione verticalizzata – sia nel senso che indica la direzione dall’alto verso il basso, sia nel senso che indica la specializzazione dei saperi – perché la libera dall’assoggettamento a un’autorità, rendendo possibile un ragionare insieme che sorregge la comprensione13. Ci ha salvato, in sostanza, il cosiddetto curriculum nascosto, che proprio perché tale, non è verificabile14 e non subisce il maltrattamento della valutazione in decimi. Su questi aspetti, la didattica a distanza ha mostrato tutta la sua limitazione, rendendo difficili se non proprio impossibili quelle relazioni tra bambine e bambini non governate dagli adulti e dalle adulte, fatte di battibecchi e accordi, scambi e dispetti, imitazioni e copiature, prestiti e regalie, suggerimenti e promesse, equilibri e discordie che tanta parte hanno nella formazione umana.

È maturo il tempo per un cambiamento più radicale, che recuperi tutto il meglio che c’è sulla “piazza” dell’educazione per offrire una scuola al passo coi tempi, una scuola aperta, che offra l’opportunità di apprendimenti situazionati, che impegni alunni e alunne in compiti di realtà, che consideri come fondamentali anche gli apprendimenti informali e non formali, che sostenga efficacemente lo sviluppo di competenze trasversali, insieme a un esercizio della cittadinanza attiva e globale che non può passare solo attraverso l’acquisizione di concetti presi dai libri. Sono queste solo alcune tra le parole chiave sulle quali appoggiare le nuove opportunità di essere scuola.

Si può pensare a uscire dunque dalla scuola e a usare tutte le risorse disponibili nei diversi contesti, come aule a cielo aperto: le piazze, i vicoli, i giardinetti, i parchi, i musei, le serre, i boschetti, i campi, tutto quanto è raggiungibile e a tiro, dopo aver fatto una ricognizione di quel che è disponibile, a portata di “piede”, visitabile, sufficientemente sicuro.

Se da un lato abbiamo i modelli, dall’altro per poterli praticare è necessario rinnovare il patto formativo di corresponsabilità tra scuola e famiglie, reclamando il diritto all’esercizio della propria professionalità da parte del corpo docente, che si assume anche la dimensione della pedagogia del rischio e che lavora sull’autonomia che è riservata per legge. Questa è l’occasione d’oro per rimettere insieme le parti e convergere su forme di collaborazione educativa, che non può che far bene a tutti, bambini e bambine in prima istanza. Perché non è che stare di fronte a un tablet sia più sicuro che andare a piedi in una piazza, solo che i potenziali danni sono meno evidenti. Perché non è detto che ci si faccia male a salire su un albero più di quanto a stare seduti per ore con un telecomando in mano. I danni delle immersioni in realtà virtuali hanno conseguenze pericolosissime sulla capacità di esame della realtà, l’incapacità di muoversi in modo coordinato è difficilmente recuperabile nel tempo, perché alcune finestre evolutive utili a certi apprendimenti si chiudono inesorabilmente nello sviluppo umano.

Le autrici e gli autori hanno ragionato su queste tematiche e riportano la loro esperienza sul campo. Ascoltare e seguire le loro voci può far fare uno scatto in avanti perché la scuola progredisca innovando le proprie pratiche e la comunità degli adulti, docenti e genitori, ritrovi la necessaria sintonia, tale da permettere il passaggio ormai più che urgente da vecchi modelli trasmissivi a nuove modalità sensate, evitando l’appiattimento sullo schermo della dinamica educativa e didattica, ma anche lo stanziamento di bambine e bambini nei banchi di scuola per lunghissime parti del giorno.

Bibliografia

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Bruner J. S., La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

Bruner J. S., La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano 2000.

Carey S., Conceptual change in childhood, MIT Press, Cambridge-Mass 1985.

Doise W., Mugny G., La costruzione sociale dell’intelligenza, Il Mulino, Bologna 1982.

Fonzi A., Cooperare e competere tra bambini, Giunti, Firenze 1991.

Gardner H., Educare al comprendere. Stereotipi infantili e apprendimento scolastico, Feltrinelli, Milano 1993.

Lodi M., C’è speranza se questo accade a Vho, Einaudi, Torino 1963.

Malaguzzi L., I cento linguaggi dei bambini, Junior, Bergamo 1995.

Milani L., Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967.

Montessori M., Come educare il potenziale umano, Garzanti, Milano 1970.

Novak J. D., Imparando a imparare, SEI, Torino 1989.

Nunan D., Closing the Gap between Learning and Instruction, in “TESOL Quarterly”, vol. 29, n. 1, 1995.

Wood D., Bruner J.S. e Ross G., The role of tutoring in problem solving, in “Journal of Child Psychology and Psychiatry”, n. 17, pp. 89-100.

Zavalloni G., La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Verona 2012.

 

Paola Nicolini è docente di psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università di Macerata. Psicologa e psicoterapeuta, ha curato numerosi libri e pubblicato articoli sia su riviste nazionali che internazionali.

 

11 J. S. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano 2000.

2 H. Gardner, Educare al comprendere. Stereotipi infantili e apprendimento scolastico, Feltrinelli, Milano 1993.

3 M. Lodi, C’è speranza se questo accade a Vho, Einaudi, Torino 1963.

4 L. Malaguzzi, I cento linguaggi dei bambini, Junior, Bergamo 1995.

5 L. Milani, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967.

6 M. Montessori, Come educare il potenziale umano, Garzanti, Milano 1970.

7 G. Zavalloni, La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Verona 2012.

8 D. P. Ausubel, Educazione e processi cognitivi: guida psicologica per gli insegnanti, Franco Angeli, Milano 1978; J. D. Novak, Imparando a imparare, SEI, Torino 1989.

9 H. Gardner, Educare al comprendere. Stereotipi infantili e apprendimento scolastico, Feltrinelli, Milano 1993.

10 J. S. Bruner, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

11 S. Carey, Conceptual change in childhood, MIT Press, Cambridge-Mass 1985.

12 D. Wood, J.S. Bruner, & G. Ross, The role of tutoring in problem solving, in “Journal of Child Psychology and Psychiatry”, n. 17, pp. 89-100; W. Doise, G. Mugny, La costruzione sociale dell’intelligenza, Il Mulino, Bologna 1982; Aa. Vv., Discorso e apprendimento: Una proposta per l’autoformazione degli insegnanti, a cura di C. Pontecorvo, Carocci, Roma 2005.

13 A. Fonzi, Cooperare e competere tra bambini, Giunti, Firenze 1991.

14 D. Nunan, Closing the Gap between Learning and Instruction, in “TESOL Quarterly”, vol. 29, n. 1, 1995.