Fare il vuoto. La pedagogia delle nuove Indicazioni Nazionali

Il Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) ha diffuso il testo provvisorio delle nuove Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, offerto al dibattito pubblico. Si tratta di un testo di più di centocinquanta pagine, impaginate fitte, elaborate da una commissione presieduta dalla pedagogista Loredana Perla e che conta più di un centinaio di esperti, per lo più docenti universitari (due sole le maestre di scuola dell’infanzia).

Prima di analizzare un documento che sta suscitando già forti polemiche, in particolare per la parte riguardante la storia, è bene dare uno sguardo a un libro che ne costituisce in qualche modo l’anticipazione e la premessa: Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo di Loredana Perla e Ernesto Galli della Loggia (2023). Il senso della proposta è chiaro fin dall’immagine di copertina, un quadro antico che raffigura piazza del Campo a Siena. Si tratta di un’opera cinquecentesca di Vincenzo Rustici che rappresenta la sfilata delle contrade, ma gli autori e l’editore si dimenticano di indicare la fonte (e non è l’unica sciatteria del libretto).

Siena è la città più identitaria d’Italia, quella più tenacemente legata alle proprie tradizioni e al proprio passato; e così gli autori vorrebbero l’Italia. Un Paese che ha bisogno più di qualsiasi altra cosa di identità; e l’identità, spiega Galli della Loggia, “si oppone necessariamente all’alterità” (ivi, p. 12). Poiché l’identità poggia sulla storia, avremo bisogno dunque di una scuola in cui la storia sia centrale e sia intesa come narrazione della nostra identità in opposizione all’alterità, ossia all’identità degli altri. L’insegnamento della storia sarà al centro del nuovo progetto di scuola, e non sarà un insegnamento particolarmente raffinato: per raggiungere lo scopo qualche raccontino è più che sufficiente. Per Galli della Loggia sono semplicemente “scervellati” (ivi, p.  47) gli esperti autori delle Indicazioni Nazionali correnti, che hanno preteso di far comprendere ai bambini concetti storici complessi.

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Le Indicazioni Nazionali attualmente in vigore sono state scritte nel 2012. Meno di quindici anni fa. Sono intervenuti da allora cambiamenti tali da renderle obsolete? Sì. C’è stata la pandemia, ma soprattutto la rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale, di cui stentiamo ancora a comprendere la portata. Ripensare la scuola alla luce di questa rivoluzione sarebbe con ogni probabilità un’operazione prematura e tuttavia comprensibile e legittima. Ma non è questa l’operazione che si cerca di compiere con queste nuove Indicazioni. Non c’è alcuna analisi preliminare dei cambiamenti della società italiana e manca qualsiasi esame approfondito delle questioni sollevate dall’IA. Un documento che non intende dunque rispondere ad alcuna nuova domanda emergente dalla società, ma solo ridisegnare la scuola perché assomigli all’idea di scuola e di Paese di chi è al governo. Un’operazione interamente, esclusivamente politica.

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Il richiamo alla persona è un leitmotiv dei documenti ministeriali sulla scuola. Le stesse Indicazioni Nazionali attualmente in vigore si aprono con una sezione intitolata “Cultura scuola persona”, con la rituale affermazione della centralità della persona. Ma qui persona è sinonimo, semplicemente, di studente: “Lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi” (MIUR, 2012, p. 5).

In queste nuove Indicazioni Nazionali abbiamo invece una cosa diversa: il richiamo alla persona così come caratterizzata dalla corrente filosofica, pedagogica e politica del personalismo, come chiarisce il riferimento in nota a Emmanuel Mounier. Il filosofo francese cercava una terza via tra il collettivismo marxista e l’individualismo atomistico, ossia tra una concezione che riduce l’essere umano allo Stato e una che invece ne afferma l’autonomia fino a dissolvere ogni legame sociale; ed è a questa posizione che le nuove Indicazioni si richiamano fin dalla prima riga: “La Costituzione mette al centro la persona e concepisce lo Stato per l’uomo e non l’uomo per lo Stato, come opportunamente sottolineava il costituente Giorgio La Pira (MIM, 2025, p. 8).

Si potrebbe discutere il presunto personalismo della Costituzione, che nasce dall’incontro tra visioni del mondo e anime diverse, ma si sottoscriverebbe senza alcun indugio l’affermazione che lo Stato è fatto per l’uomo – aggiungendo magari anche la donna e il bambino – se a smentirla non fosse proprio il documento che stiamo analizzando. Perché cosa vuol dire, in concreto, che lo Stato è fatto per l’uomo, la donna e il bambino, e non viceversa? Cosa vuol dire in campo educativo?

Leggiamo ancora il libretto di Galli della Loggia e Perla. Scrive Galli della Loggia, autore dei primi due capitoli:

I problemi posti dal carattere pubblico, e perciò politico, della scuola si riassumono tutti in una domanda: che tipo di persona, di cittadino, vogliamo che la scuola formi? con quale retroterra culturale, e perciò ideale e morale? (Galli della Loggia, Perla, 2023, p. 38).

È un passo che sembra condivisibilissimo: tutti in fondo pensiamo che compito della scuola, così come della famiglia, sia quello di formare il tipo di persona che consideriamo desiderabile. Ma se lo Stato, attraverso la scuola, forma la persona – cioè, appunto,  un certo tipo di persona – dov’è il primato della persona? Come si può affermare il primato della persona sullo Stato, se lo Stato si attribuisce il diritto – e forse perfino il dovere – di dar forma alla persona? Se le cose stanno così, l’esser-così della persona è l’esito dell’azione dello Stato. Naturalmente non va così, le persone reali non vengono – e per fortuna – plasmate dalla scuola e dunque dallo Stato, ma non si può riconoscere a chi avanza questa pretesa alcun rispetto dell’autonomia della persona e del suo primato rispetto allo Stato.

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Uno Stato, e dunque una scuola, per l’uomo, anzi per il bambino, procederebbe all’inverso. Partirebbe non da una persona astratta, concepita in modo più o meno ideologico, ma da questo-bambino-qui. In un testo folgorante come spesso sono i suoi testi, Simone Weil attaccava frontalmente il personalismo di Mounier affermando che

In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona, E neppure la persona umana. È semplicemente lui, quell’uomo. (Weil, 2012, p. 11).

E, aggiungeva, ad essere sacro, è il “qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano” che “si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male” (ivi, p. 13). Se assumiamo questo sguardo, dovremmo mettere al centro del nostro pensare e fare scuola soprattutto questa aspettativa. Ci sono tra i banchi una bambina e un bambino, e poi una ragazza e un ragazzo, che non sono l’incarnazione di una persona astratta, ma sono semplicemente loro; e prima di ogni altra cosa si aspettano che venga fatto loro del bene e non del male. Questo, e non altro, dovrebbe essere l’educazione: fare del bene, e non del male, a una persona in crescita.

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Chiarite le premesse ideologiche – i personalisti protesteranno, perché tengono molto a rivendicare il carattere non ideologico del personalismo, che solo per un imbarazzante inghippo linguistico diventa un -ismo come gli altri; di fatto qui è messo al servizio dell’identitarismo cattolico-patriottico della nuova classe dirigente – e retoriche, il progetto si manifesta in tutta la sua miseria pedagogica nel punto centrale: quello del rapporto tra chi insegna e educa e chi sta tra i banchi, il nostro bambino e la nostra bambina, appunto, che si aspettano che venga fatto loro del bene.

Viene fatto loro del male, invece, semplicemente negandoli. Leggiamo cosa dice di loro questo documento: “L’allievo, infatti, non sceglie di desiderare di imparare, sceglie il modello che sa stimolarlo in tale direzione” (MIM, 2025, p. 9). Il contesto è un paragrafo dal titolo Insegnante professionista, anche Maestro. È il terzo paragrafo del documento, che procede dall’empireo della persona alla famiglia (ne parleremo) e quindi a lui, il Maestro, rigorosamente maschio e (dunque?) maiuscolo.

Il nostro Maestro “è magis, di più” (ibidem), avvertono. E, pare di capire, affinché sia tale occorre che chi ha di fronte sia minus. E così è. Occorre fare il vuoto da una parte perché ci sia il pieno dall’altra.

Affermare che una bambina e un bambino non hanno alcun desiderio di imparare, ma che tale desiderio nasce dall’esterno, grazie all’azione magica del Maestro, è semplicemente una bestialità. Non c’è crescita senza una spinta innata, naturale, perfino inarrestabile verso la conoscenza. Non c’è sviluppo motorio, linguistico, intellettivo senza un inesausto toccare, osservare, domandare. I bambini e le bambine diventano invece qui deboli e inermi di fronte al Maestro: vuoti al cospetto del pieno. Obietterà a quanto appena detto, il Maestro, che sono esperienza comune di chiunque insegni la svogliatezza, lo scarso interesse, la poca voglia di lavorare dei piccoli studenti. Non è dunque vero che occorre il Maestro perché sorga il desiderio di conoscere? No, non è affatto vero. È vero invece che la scuola è talmente artificiale, innaturale, sbagliata, che riesce a contrastare e in qualche caso anche a spegnere quello slancio naturale, sostituendolo con una attività fondata interamente sulla promessa e sulla minaccia. Ma per cogliere questo limite strutturale occorre avere strumenti diversi – ben più critici – di quelli di cui dispone il personalismo. Occorrerebbe più Freinet che Mounier.

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Tutto il documento è caratterizzato da questa sfiducia di fondo nei confronti delle possibilità cognitive dei bambini e delle bambine. Ho già citato il passo di Galli della Loggia sugli esperti “scervellati”. Guardiamo meglio la colpa per la quale meritano un insulto così volgare:

(...) si pretende di far entrare nella testa di un bambino (insisto: di un bambino) un insieme di nozioni, di concetti, di nessi, che vuoi per la loro lontananza da noi nello spazio e nel tempo, vuoi per la complessità delle categorie implicate, vuoi di conseguenza, infine, per il loro carattere di pronunciata astrattezza, non solo presentano un’obiettiva difficoltà conoscitiva ma sono pure totalmente al di fuori di qualunque possibile esperienza del bambino. (Galli della Loggia, Perla, 2023, p. 47; corsivo mio)

Anche qui una bestialità, per la quale basterebbe ricordare il tutto a tutti di Comenio, ossia l’inizio stesso della pedagogia (e della scuola) moderna. I bambini non sanno fare. E non vale nemmeno la pena provare a spiegar loro cose che non possono capire. A spiegare, ad esempio, che il nostro passato è complesso (“Ricerca storica e ragionamento critico rafforzano altresì la possibilità di confronto e dialogo intorno alla complessità del passato e del presente”, si legge nelle attuali Indicazioni Nazionali)(MIUR, 2012, p. 41) e dunque complessa è anche la nostra identità.

Poiché i bambini non sanno fare, bisognerà semplificare. Fare la storia per raccontini, per frammenti slegati, edificanti e patriottici. E raccontare che “Solo l’Occidente conosce la Storia” (MIM, 2025, p. 68): ancora una bestialità, espressione di una ignoranza che non appartiene a nessuno storico autentico.

Se le Indicazioni Nazionali avessero realmente il potere di plasmare la scuola, e se la scuola avesse il potere di plasmare i bambini e i ragazzi, dovremmo esserne fortemente preoccupati. Perché una scuola che non crede nel potere cognitivo dei bambini ostacola di fatto lo sviluppo dell’intelligenza dei bambini.

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Il paragrafo sulla libertà è un testo scritto in puro stile orwelliano. S’è fatta l’abitudine, a dire il vero, a simili distorsioni; la parola stessa è ormai politicamente sospetta e sarebbe buona cosa sostituirla con qualche alta. La libertà, assicurano i nostri esperti, è “il valore caratteristico più importante dell’Occidente e della sua civiltà fin dalla sua nascita” (MIM, 2025, p. 10). Viene da chiedersi come mai, in questo Occidente tutto immerso, fin dall’antichità, nella libertà, siano morti ammazzati dal potere Socrate, Ipazia, Cecco d’Ascoli, Giordano Bruno, Giulio Cesare Vanini eccetera. La risposta è nella definizione della libertà come un “autodeterminarsi nei diritti e nei doveri” (ibidem).

La libertà non è una forza espansiva, non è sottrarsi a un controllo, non è esplorare nuove via, non è essere creativi. La libertà è stare nei limiti, contenersi, non disegnare fuori dai bordi. E dunque la libertà e la negazione della libertà coincidono alla perfezione e l’educazione alla libertà diventa educazione alla sottomissione: “L’educazione alla libertà, infatti,  non è  sviluppo nello studente nella libertà, ma sviluppo della libertà nello studente” (ibidem). Non diversamente dalla Persona, la Libertà è un’entità a sé, che sovrasta la nostra bambina e il nostro bambino nel banco; e non dovremo fare in modo che loro, qui ed ora, si sentano liberi; bisognerà fare in modo invece che da loro un giorno la Libertà di liberi. I bambini, intanto, li sottoporremo a un carico di regole su regole, e perfino la grammatica tornerà utile a questo scopo.

In una società nella quale chiunque non abbia pregiudizi riconoscerà che bambini e adolescenti rappresentano di gran lunga la fascia più disciplinata e corretta della popolazione – e magari bisognerebbe preoccuparsi proprio di questo: che siano così poco ribelli – gli esperti sono allarmati invece dalla minaccia della tracotanza, della hubris, “spesso diffusa in bambini e adolescenti figli di famiglie con grandi povertà educative” (MIM, 2025, p. 11). È un fenomeno che meriterebbe una seria analisi psicologica, perché nulla ci svela quello che siamo più delle nostre proiezioni.

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È singolare che questo documento riesca ad essere maldestro anche quando parla della famiglia. Di cui afferma naturalmente la centralità, non senza però una sorta di divisione del lavoro. La famiglia e la scuola sono “le due colonne portanti del percorso di apprendimento di bambini e adolescenti”, ma la prima “in ragione delle grandi valenze educative e affettive”, mentre la seconda “per l’azione sistematica e intenzionale di istruzione” (MIM, 2025, p. 8). La famiglia educa, la scuola istruisce; la famiglia è affettiva, la scuola no; e la famiglia si muove in modo evidentemente non intenzionale, probabilmente perché i genitori non tengono un registro delle attività e non interrogano i figli e le figlie su ciò che hanno visto la domenica al museo. È una separazione dei compiti che evidentemente non può che star stretta alle famiglie. Alle quali si chiederà – alle madri soprattutto – di collaborare, in particolare per gli irrinunciabili e nefasti compiti a casa, senza che però la scuola possa riconoscere alcun valore reale alle esperienze conoscitive fatte in famiglia: non entreranno a scuola i viaggi, le visite all’acquario, le passeggiate nel bosco per raccogliere le foglie eccetera. Tutte cose non intenzionali.

Se questa subalternità non fosse chiara, oltre la retorica della collaborazione e del dialogo educativo, la conclusione del paragrafo toglie ogni dubbio. Compito dei genitori è spiegare ai figli e alle figlie l’importanza della scuola affinché non si verifichino episodi spiacevoli di offese verso gli insegnanti e di danneggiamento degli edifici scolastici (MIM, 2025, p. 9). Devono insomma, per usare un verbo orribile usato dagli insegnanti, contribuire a scolarizzare i figli e le figlie, fare in modo che siano esattamente come la scuola li vuole. Ci sarebbe da chiedersi come mai, se la scuola è così importante e se il Maestro è magis, accadano simili episodi. Come mai non suscitino invece l’una e l’altro un rispetto spontaneo, senza che ci sia bisogno di adattare al maestro l’antico adagio, affermando che maxima debetur magistro reverentia. Per rispondere occorrerebbe avere strumenti critici che, ancora una volta, mancano a chi ha scritto queste pagine.

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Non tutto è da buttare in questo documento. Vi hanno messo mano più di cento esperti, tra cui soltanto due maestre di scuola dell’infanzia, e nelle parti meno esposte qualcuno meno allineato è riuscito a scrivere parole nelle quali un barlume di buon senso ancora resiste. Ma è da rigettare interamente l’impianto pedagogico di base, che risulta molto al di sotto della stessa ispirazione personalista e disegna una scuola regressiva, autoritaria, stupida, che persegue con arroganza e, sì, tracotanza il progetto di rendere gli italiani meno consapevoli, chiusi nell’idiozia di un delirio identitario; un insulto, tra l’altro, alla tradizione pedagogica italiana, che è una delle poche cose di cui ancora possiamo andare fieri.

Riferimenti bibliografici

Galli della Loggia E., Perla L., Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Scholé, Brescia 2023.

MIM, Nuove Indicazioni 2025.  Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione. Materiali per il dibattito pubblico, 2025, url: https://www.mim.gov.it/documents/20182/0/Nuove+indicazioni+2025.pdf/

MIUR, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, settembre 2012, url: https://www.mim.gov.it/documents/20182/51310/DM+254_2012.pdf

Weil S., La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012.

Antonio Vigilante è direttore responsabile di "Educazione Aperta". I suoi interessi di ricerca comprendono la pedagogia critica, la filosofia interculturale e la didattica della filosofia. Tra i suoi ultimi libri sono: La stanza di fronte. Tre saggi di filosofia interculturale (Ledizioni, Milano 2024), Le dimore leggere. Saggio sull’etica buddhista (Petite Plaisance, Pistoia 2021), L’essere e il tu. Aldo Capitini in dialogo con Nishitani Keiji, Enrique Dussel e Murray Bookchin (Petite Plaisance, Pistoia 2019), Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore (Petite Plaisance, Pistoia 2018). Cura il blog personale Attraversamenti.

Nell'immagine: Un pupazzo per amico. Giardino d'Infanzia "Gino Capponi", Firenze, anno 1960-1961. Indire, Archivio fotografico per la storia della scuola e dell'educazione, collocazione 2-024-024.