Entriamo nel merito | Let's get into the merits
PDF: DOI 10.5281/zenodo.7574031
Con ogni probabilità nessuno, nella storia del pensiero mondiale, ha affermato il principio del merito con più convinzione del filosofo cinese Mozi. “Nell’amministrare il governo, — si legge nell’opera a lui attribuita — gli antichi re-saggi collocavano in alto le persone moralmente eccellenti ed esaltavano i virtuosi. Se capace, anche un contadino o un artigiano sarebbe stato assunto con un alto rango, remunerato con emolumenti liberali, incaricato di importanti incarichi e autorizzato a emanare ordini definitivi” (Mozi, The Mozi. A complete translation , translated and annotated by Ian Johnston, The Chinese University of Hong Kong, Hong Kong 2010, 8). La meritocrazia era la via sicura per ottenere uno Stato solido, in grado di favorire il bene del popolo, mentre erano ben evidenti i mali derivanti dalla logica del nepotismo e dalla concentrazione del potere e della ricchezza in clan ristretti.
Poiché il nostro Paese ha un evidente problema di potere e ricchezze concentrati in clan ristretti, vien voglia di aderire entusiasticamente al pensiero di Mozi e di nutrire belle speranze per la nuova denominazione del Ministero dell’istruzione voluta dal governo Meloni: Ministero dell’istruzione e del merito. Finalmente nel nostro Paese i poveri, se meritevoli, potranno andare al potere o, se preferiscono, diventare ricchi. Sistematicamente.
Ma le cose non stanno proprio così.
Cos’è il merito a scuola? È senz’altro meritevole uno studente che, appunto, studia. E poi rispetta le regole. È educato e composto. Non crea problemi disciplinari. Fa quello che la scuola gli chiede di fare. Impara? È lecito dubitarne. Chi insegna sa che purtroppo non è scontato che aver preso un buon voto significhi aver imparato davvero. Cosa che è facile constatare provando a chiedere a qualsiasi studente di successo di parlare di un argomento a caso dell’anno precedente. Si scopre, spesso, che le differenze tra chi aveva i voti più alti e chi era perfino insufficiente sono minime.
Affinché il nostro studente studi e sia disciplinato occorrono un po’ di cose. È necessario, per cominciare, che non abbia difficoltà o disturbi di apprendimento. Se li ha, è necessario che la famiglia si sia fatta carico del problema, lo abbia portato da uno specialista e abbia ottenuto una certificazione in virtù della quale la scuola lo etichetterà come studente con Disturbi Specifici di Apprendimento e gli consentirà di fruire di misure dispensative e compensative. Ma bisogna anche che la famiglia gli dica che la scuola è importante. Che lo motivi, che lo aiuti a costruire un progetto di vita nel quale l’istruzione ha un posto importante. Anche questo non è scontato. In molte famiglie la scuola non è affatto un valore. C’è anche bisogno, poi, di serenità. Di una serenità minima. Quella serenità che viene da una condizione economica accettabile e che manca invece quando si vive con il problema di mettere insieme il pranzo con la cena. Bene sarebbe anche se avesse un posto in cui studiare. Una stanza tutta per sé, per dirla con Virginia Woolf. Anche questo non è scontato.
Ora, tutte queste cose non scontate che occorrono affinché il nostro studente sia meritevole non dipendono da lui. Non indicano alcun suo merito particolare. Non è un merito nascere nella famiglia giusta. Avere genitori che hanno studiato e credono nel valore dell’istruzione. O che hanno insegnato ai figli regole minime di comportamento. O che hanno avuto la serenità necessaria per far crescere a loro volta i figli sereni.
Quello che succede oggi, nella scuola italiana, è esattamente ciò che succedeva ai tempi di don Milani. Gli studenti meritevoli sono quelli che vengono dalle famiglie della classe medio-alta. I dati della Fondazione Agnelli sulla scuola media (https://scuolamedia.fondazioneagnelli.it) sono eloquenti. La scuola non riduce, ma anzi accentua il divario sociale. Chi va bene nella scuola dell’obbligo ha alle spalle genitori laureati o diplomati. Chi ha genitori con licenza media o elementare è tagliato fuori.
Di fronte a questi dati le interpretazioni possibili sono due. La prima è che, per dirla con la Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana, “Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri”. Perché naturalmente c’è una correlazione tra titolo di studio e condizione socio-economica: ad andare male a scuola sono i figli dei poveri. Che saranno dunque meno intelligenti degli altri. La seconda è che la scuola, come denunciava don Milani, non è fatta per lavorare con loro. Uno studente proveniente da una famiglia che non ha una tradizione culturale ha bisogno di più tempo rispetto a uno studente con genitori laureati, per mostrare la sua intelligenza, le sue possibilità, i suoi meriti. Quando giunge a scuola lo studente non è che il prodotto della sua famiglia. Quanto più la famiglia assomiglia alla scuola, tanto più lo studente ha successo scolastico. Quanto più la famiglia è culturalmente lontana dalla scuola, tanto più il lavoro sarà complesso e difficile. E soprattutto: richiederà tempo. E pazienza.
Lavorare con uno studente con i genitori con licenza elementare, che gli ripetono ogni giorno che studiare non serve a niente, muovendo dall’idea di merito, vuol dire negargli quel tempo in più. Se non studia, non è meritevole. Punto. Vada altrove. Compito della scuola è portare avanti chi studia.
Non si può escludere che anche uno studente proveniente da una famiglia di condizione sociale e culturale medio-alta possa avere poca voglia di studiare. Per tristissima esperienza, so che in questo caso la scuola è molto più conciliante. Poniamo però che venga respinto. Che ne sarà di lui? Frequenterà un liceo privato, nel quale la condizione economica della famiglia gli consentirà di ottenere un diploma senza troppo sforzo. E poi continuerà con un’università privata. Ottenuta la laurea, non avrà difficoltà ad ottenere un lavoro qualificato grazie al capitale sociale della sua famiglia.
Un discorso su istruzione e merito richiederebbe, per essere serio, l’immediata chiusura di tutti i diplomifici e laureifici. Se si pensa alla scuola come una competizione, un gioco ad esclusione per selezionare i migliori, non è possibile consentire scappatoie e vie traverse. Altrimenti è come fare una gara nella quale non solo alcuni partono svantaggiati, ma quelli che sono partiti avvantaggiati, nel caso in cui dovessero incontrare qualche difficoltà, possono agevolmente scegliere un percorso alternativo, più semplice, che consenta loro di arrivare tranquilli alla meta.
Quello che si intende fare è chiaro: aumentare ulteriormente il divario scolastico tra ricchi e poveri facendo ancora di più la voce grossa con gli studenti più deboli. Orientarli verso gli istituti professionali o espellerli senz’altro. Che a dire il vero è quello che la scuola italiana, classista fino al midollo, fa da sempre. Ora probabilmente lo farà meglio.
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