Educazione sociale antirazzista: sfide e proposte | Anti-racist social education: challenges and proposals
DOI: 10.5281/zenodo.12787261 | PDF
Abstract: In questo articolo vengono identificati e descritti i principali limiti delle pratiche di intervento socio-educativo antirazzista che sono state sviluppate in Spagna nell’ultimo decennio. L’analisi parte da una prospettiva antirazzista che evidenzia le criticità del ruolo della pedagogia interculturale nella lotta antirazzista, analizzando concetti come interculturalità, coesistenza, integrazione e diversità culturale. La seconda parte propone alcune linee guida per promuovere una pedagogia sociale antirazzista, frutto del dialogo tra gruppi di ricerca, associazioni di immigrati, attivisti dei movimenti sociali e operatori sociali.
Parole chiave: educazione interculturale, antirazzismo, educazione sociale, interculturalità critica, Spagna.
Abstract: This article identifies and describes the main limitations of the concrete practices of anti-racist socio-educational intervention that have been developed in Spain in the last decade. The analysis starts from a critical anti-racist perspective that highlights the critical role of intercultural pedagogy in the anti-racist struggle, criticizing concepts such as interculturality, coexistence, integration and cultural diversity. The second part proposes some guidelines to promote an anti-racist social pedagogy, the result of dialogue between research groups, immigrant associations, social movement activists and social workers.
Keywords: intercultural education, anti-racism, social education, critical interculturality, Spain.
Introduzione
In quest’articolo presentiamo alcune riflessioni metodologiche basate sul lavoro di ricerca-azione svolto nell’ambito dell’Istituto di Scienze Sociali Applicate (IICSA) e del Gruppo Interdisciplinare di Studi su Migrazioni, Interculturalità e Cittadinanza (GIEMIC) dell’Università di Castilla – La Mancha (UCLM). Non è un’analisi teorica sull’antirazzismo, che abbiamo già sviluppato in altre pubblicazioni (Buraschi e Aguilar, 2019), ma piuttosto un’analisi critica delle pratiche socio-educative interculturali e antirazziste che si sono sviluppate in Spagna negli ultimi anni. Crediamo che questi brevi “appunti critici” possano essere utili per contribuire al dibattito sull’educazione antirazzista in Italia.
Nell’ambito di questa riflessione, ci riferiamo all’antirazzismo come azione intenzionale, sistematica, organizzata e pianificata, il cui scopo è combattere o eliminare le varie forme di dominio e inferiorizzazione basate sul costrutto di razza, nazionalità, origine, religione, cultura e/o etnia. L’educazione sociale antirazzista è un sapere pratico e critico-riflessivo che mira a combattere il razzismo attraverso azioni come l’intervento socio-educativo a favore delle persone vittime di discriminazione; la difesa dei diritti dei gruppi razzializzati discriminati; la formazione in materia antirazzista; la sensibilizzazione interculturale e la comunicazione sociale antirazzista; le pratiche partecipative e lo sviluppo della comunità.
Una delle caratteristiche del dibattito teorico e metodologico dell’intervento socio-educativo contro il razzismo in Spagna è che si parla poco di antirazzismo, preferendo il termine interculturale, che viene spesso usato come se fosse sinonimo di antirazzismo. La produzione teorica e la ricerca accademica sull’educazione esplicitamente antirazzista in Spagna sono relativamente limitate, con poche eccezioni, per lo più focalizzate sull’educazione formale (Calvo Cuesta et al., 1996; Flecha, 2001; Haro et al., 2003; Capmany et al., 2005; Gruppo Inter, 2007; Gonzalez Yuste, 2014).
In generale, quando si parla d’intervento socio-educativo con gli immigrati, di lotta al razzismo e alla discriminazione, si parla solitamente di un approccio interculturale, ma non di un approccio antirazzista. Sebbene in Spagna esista una pluralità di proposte teoriche relazionate all’educazione interculturale, è possibile identificare alcune caratteristiche comuni dei differenti approcci: sono proposte di intervento integrale e olistiche; promuovono il rispetto per le differenti culture; valorizzano la diversità e l’uguaglianza; hanno come obiettivo la convivenza interculturale, spesso attraverso lo sviluppo di competenze interculturali; concepiscono l’integrazione come un processo di adattamento reciproco (Abdallah-Pretceille, 2001; Aguado e Del Olmo, 2009; Aguado e Mata, 2017; Grupo Inter, 2006; Malgesini e Giménez, 1997; Téllez, 2008). Tuttavia, negli ultimi anni, i progressi teorici, metodologici e politici dell’antirazzismo stanno mettendo in discussione il ruolo dell’educazione interculturale nella lotta contro il razzismo, evidenziando le criticità di concetti come l’interculturalità, la convivenza o l’integrazione.
I limiti dell’educazione antirazzista funzionale
In Spagna, soprattutto negli ultimi cinque anni, l’antirazzismo “ufficiale”, solitamente promosso dalle amministrazioni locali e da numerose ONG, è stato oggetto di numerose critiche (Garcés, 2017; Gil-Benumeya, 2020). Tuttavia, la crisi dell’antirazzismo non è una novità. Limitandoci all’ambito europeo, a partire dagli anni Ottanta, in Francia e in Gran Bretagna, le proposte d’intervento antirazzista sono state criticate per la loro istituzionalizzazione e per la loro riduzione a un approccio di intervento individualista, che si preoccupa di cambiare gli atteggiamenti delle persone, ma non le strutture razziste che rendono possibile la discriminazione (Gilroy, 1990; Wieviorka, 1994). Queste critiche si riflettono anche nel dibattito spagnolo dove, inoltre, l’antirazzismo “ufficiale” è criticato per il fatto che trascura sistematicamente la discriminazione subita dalle popolazioni romanì (Martínez e Ascunce, 1996; San Román, 1996; Solana, 1999).
Negli ultimi vent’anni, la critica si è concentrata, soprattutto, sulla sua tendenza a rendere invisibile la dimensione strutturale del razzismo. Nel contesto anglosassone la Teoria Critica della Razza (Critical Racial Theory) ha posto al centro del dibattito il ruolo istituzionale del razzismo, ispirando un rinnovamento dell’educazione antirazzista (Dei, 2000) verso un modello di discorso e di intervento basato sulle dimensioni strutturali del razzismo e contribuendo a superare il paradigma individualista dominante nei modelli classici di intervento (Katz, 2003). Recentemente, la spinta più fruttuosa al rinnovamento dell’antirazzismo è stata data dall’influenza del movimento #BlackLivesMatters (Castillo-Montoya, Abreu e Abad, 2019). In Spagna, sono state decisive le prospettive decoloniali riconducibili all’influenza latinoamericana (Castro-Gómez e Grosfoeguel, 2007; Dussel, 2020; Lander, 2000; Rivera Cusicanqui, 2010; Segato, 2014) e francese (Ajari, 2019; Bouteldja, 2018; Vergès, 2020).
Pur con importanti differenze, gli approcci critici accusano l’educazione interculturale e antirazzista di essere funzionale al sistema razzista e di svuotare l’antirazzismo del suo potere trasformativo e politico. Nelle seguenti pagine approfondiamo alcuni di queste criticità a partire dall’analisi di numerose esperienze sviluppate in differenti regioni spagnole, sia da parte di enti locali, che da parte di ONG e movimenti sociali (Aguilar e Buraschi, 2021; 2022).
Invisibilità della natura sistemica e strutturale del razzismo
I modelli di intervento socio-educativo antirazzista si basano sempre, esplicitamente o implicitamente, su una determinata definizione del razzismo e delle sue cause. La definizione del razzismo influisce fortemente sulle soluzioni che si propongono, gli obiettivi, le metodologie e tecniche utilizzate, le strategie di intervento, il ruolo delle persone discriminate, ecc.
Le definizioni del razzismo e delle sue cause che incontriamo nella maggior parte dei manuali di educazione e nei progetti antirazzisti sviluppati in Spagna sono il riflesso di differenti forme di riduzionismo. La prima forma di riduzionismo, come abbiamo visto, è la mancanza di riconoscimento della natura sistemica e strutturale del razzismo. In questo senso, l’educazione interculturale e antirazzista sono criticate per aver ridotto il razzismo alla sua dimensione attitudinale e per aver proposto soluzioni inefficaci che, utilizzando la retorica della convivenza o dell’integrazione, lungi dal mettere in discussione il sistema, lo giustificano e lo legittimano (Pedersen, Walker e Wise, 2005; Ahmed, 2006).
Il razzismo è visto come una “anomalia sociale”, un problema che ha a che fare solo con l’estrema destra o con gli atteggiamenti di alcune persone estremiste e intolleranti. Il razzismo viene ridotto a una “patologia individuale” o a un orientamento ideologico specifico piuttosto che a un fenomeno sociale e istituzionale. In questo modo, solo chi sta ai margini della società democratica può essere razzista mentre si considera che la nostra società, la nostra cultura, le nostre istituzioni sono intrinsecamente antirazziste. In Spagna attivisti e ricercatori criticano l’antirazzismo “funzionale” per aver considerato il razzismo come un’espressione aneddotica di discriminazione e violenza perpetrate da piccoli gruppi di estrema destra. L’antirazzismo funzionale concepisce il razzismo come un comportamento individuale che si risolve attraverso l’educazione interculturale, reagendo su piccola scala (Amzian e Garcés, 2017). Al contrario, la prospettiva critica dell’antirazzismo considera il razzismo come un ampio sistema di oppressione, una dimensione strutturale della modernità.
Possiamo individuare questa forma di riduzionismo in differenti pratiche socio-educative. Per esempio, nella ricerca e analisi della realtà, nella fase di progettazione educativa, spesso ci si limita a studiare i pregiudizi negativi, escludendo dall’analisi i fattori strutturali, il razzismo istituzionale, la complessità delle pratiche discriminatorie e gli elementi razzisti incrostati nel nostro orizzonte culturale.
Inoltre, non si riduce solamente il razzismo al pregiudizio, ma si semplificano le sue cause all’ignoranza e alla paura dell’ignoto. La conseguenza di queste definizioni del razzismo è che l’educazione antirazzista si limita a sviluppare progetti per far “conoscere le differenti culture”, contrastare le informazioni false, nel convincimento che l’informazione obiettiva sia la chiave per risolvere problemi che sono ben più complessi.
Un’altra forma di riduzionismo è quella che concepisce il razzismo come frutto dell’incomprensione tra differenti culture. Questi modelli di intervento socio-educativo hanno due aspetti critici. Il primo è che la cultura diventa l’unica lente attraverso la quale si interpretano le differenze e i conflitti, riducendo la complessità delle persone e delle situazioni che vivono alla sola dimensione culturale e identitaria. È vero che numerose ricerche sulle nuove forme di razzismo hanno evidenziato che il discorso razzista contemporaneo è un razzismo “senza razze”, nel senso che ha abbandonato i discorsi basati sull’esistenza delle razze e sulla gerarchia razziale sostituendoli con la retorica identitaria e sull’inintegrabilità di certe “culture”. Tuttavia, il fatto che il riferimento esplicito alla razza non sia comune, non significa che, nell’esperienza discriminatoria delle persone immigrate, i processi di razzializzazione non abbiano più peso. Al contrario, la cultura, l’identità, la religione si razzializzano, sono categorie che si usano in una forma essenzialista, determinista, stigmatizzante, proprio come si faceva con la razza. In questo modo, il pericolo di una lettura culturalista del razzismo è che si interpretano come differenze culturali, aspetti e dinamiche che hanno a che fare con aspetti sociali e strutturali dei processi di razzializzazione.
Il secondo aspetto critico è che i modelli di intervento culturalisti spesso “imprigionano” le persone immigrate e razzializzate in categorie culturali essenzialiste. È bene ricordare che non sono le culture che entrano in contatto, ma le persone, con le loro cornici culturali che riflettono la complessità della loro traiettoria di vita (Aime, 2004). La risposta di certi modelli di educazione antirazzista, con l’obiettivo legittimo di promuovere il riconoscimento dei differenti collettivi, corre il rischio di promuovere un ripiego identitario che, paradossalmente, condivide con il razzismo culturale la stessa logica differenzialista.
Infine, c’è un altro aspetto del riduzionismo che è stato denunciato soprattutto dal femminismo nero (Crenshaw, 1991; Hill Collins, 2000; Curriel, 2022): il fatto di considerare solo una dimensione categoriale, ad esempio la razza o la cultura, rendendo invisibili le altre categorie sociali che articolano l’esperienza del gruppo discriminato e dei suoi membri. Come ha sottolineato il femminismo nero e la prospettiva intersezionale, il razzismo è innanzitutto una “esperienza vissuta”: la vittima del razzismo è al centro di un sistema di classificazione gerarchica in cui il fenotipo si mescola con la classe, l’etnia, il genere, le credenze religiose e altri aspetti culturali. I sistemi di esclusione e dominio di classe, razzisti e sessisti si intersecano, si integrano e generano forme complesse di dominio ed esclusione.
Paternalismo e “complesso del salvatore bianco”
Un secondo limite dell’antirazzismo funzionale è che, in molte occasioni, il ruolo delle persone razzializzate nelle azioni antirazziste è secondario, riproducendo così un tipo di intervento paternalistico e assistenziale. I migranti e i gruppi razzializzati sono pensati come vittime passive, bisognose, vulnerabili, che devono essere “salvate” dalla loro situazione. Nell’antirazzismo funzionale, le persone razzializzate non hanno voce propria, non hanno competenza, autonomia e capacità di azione. Il loro ruolo si limita a partecipare ad attività folcloristiche, presentare la loro testimonianza di vita, senza però avere una prospettiva autonoma (Aguilar e Buraschi, 2012 e 2018). Come sottolinea Freire (1970), in un ordine sociale ingiusto, le strutture di dominio sono fonti permanenti di “falsa generosità”, che è funzionalmente addomesticante. In questo senso, l’educatore brasiliano afferma che la solidarietà è un atteggiamento radicale, quindi dichiarare che le persone sono libere, ma non fare nulla per rendere concreta e obiettiva questa affermazione, è una farsa.
Le azioni antirazziste paternalistiche sono una forma sottile e particolarmente insidiosa di negazione dell’alterità e di colonialismo. Si rendono invisibili le esperienze di resistenza e dissidenza dei gruppi discriminati, trattandoli come oggetti e non come protagonisti della loro storia. Viene negato loro il diritto di decidere e la capacità di trasformare in nome di teorie e pratiche di intervento che pretendono di essere universali, ma che si rivelano etnocentriche (Curiel, 2007; Díaz, 2010; Aguilar e Buraschi, 2021).
Spesso gli interventi di educazione sociale antirazzista si trasformano in quello che si potrebbe denominare “tarzanismo umanitario” o “complesso del salvatore bianco”. Un tipo di intervento educativo che non mira a trasformare la realtà, ma che serve a confermare i privilegi e la superiorità morale occidentali e le relazioni asimmetriche di potere. Il complesso del salvatore bianco è stato spesso denunciato nelle attività del denominato “turismo solidale”, ma gli elementi che lo caratterizzano si possono riscontrare anche nei progetti di intervento socio-educativo locali. In generale, si parla di “complesso del salvatore bianco” per fare riferimento alle persone bianche che sono convinte che le persone razzializzate siano vittime passive che hanno bisogno di essere salvate dall’oppressione. Il problema è che, da una parte, si tratta spesso di persone più interessate a soddisfare le proprie esigenze emotive e che non questionano la struttura sociale razzista; dall’altra, impongono alle persone razzializzate un modello di intervento autoreferenziale, senza riconoscere la loro capacità d’azione, le loro competenze e le loro strategie.
In Spagna, un caso paradigmatico è quello dei progetti che coinvolgono donne musulmane, nei quali spesso si applica uno sguardo profondamente etnocentrico e paternalista e si impongono modelli d’intervento sordo alle loro esigenze specifiche, alla loro visione del mondo e alle loro pratiche di resistenza.
Nella sua etnografia del movimento antirazzista francese, Gibb (2003) mostra come alcune delle più importanti associazioni antirazziste abbiano istituzionalizzato la loro struttura e il loro discorso, riproducendo un modello di intervento vittimistico, paternalistico, che riproduce relazioni di potere asimmetriche e contribuisce a costruire un separazione tra le “vittime legittime” (coloro che rispondono all’immaginario occidentale dell’alterità) e le “vittime illegittime” del razzismo (coloro che propongono alternative politiche autonome e criticano le radici strutturali del razzismo).
La differenza tra vittime legittime e illegittime è un aspetto essenziale dell’antirazzismo funzionale perché è una forma di marginalizzazione delle persone razzializzate che si ribellano e si oppongono alla logica funzionale dell’antirazzismo. Non è casuale che molte organizzazioni storiche della lotta contro il razzismo in Spagna con un ruolo ormai istituzionalizzato, siano profondamente critiche con i nuovi movimenti sociali che questionano i modelli classici di lotta contro le discriminazioni.
Un altro esempio di paternalismo sono le campagne di sensibilizzazione a favore delle persone rifugiate: si è imposto un discorso umanitario caratterizzato da rappresentazioni stereotipate delle persone in situazione di emergenza, dalla compassione e dalla carità, che rafforzano l’asimmetria di potere e, ancora più preoccupante, da “produzioni discorsive e visive distorte, più orientate a costruire confini nell’immaginario sociale – legittimando di conseguenza le barriere tra ‘loro’ e ‘noi’, che non a creare ponti per sviluppare politiche di integrazione e cittadinanza” (Musarò, 2015, p. 6; traduzione nostra).
Interculturalismo funzionale
Un terzo elemento critico è legato alle soluzioni proposte, in particolare a quello che Tubino (2005) e Walsh (2008) hanno denominato interculturalismo funzionale. È un modello che enfatizza l’interazione tra “culture”, la tolleranza, l’armonia, il rispetto e le opportunità positive che la diversità culturale apre, rendendo però invisibile l’asimmetria di potere che esiste tra i gruppi, la logica razzista e colonialista in cui le relazioni, la disuguaglianza strutturale tra gruppi e l’intersezione tra “razza”, origine culturale, genere, classe, ecc. In questo quadro, l’interazione è pensata in modo superficiale e ingenuo, riducendola a una celebrazione di una “estetica interculturale”, senza tener conto della natura dinamica, ibrida e fluida delle culture e la complessità delle relazioni nei contesti multiculturali.
Uno degli effetti dell’interculturalità funzionale è che l’enfasi posta sulla convivenza armoniosa “tra culture”, la celebrazione delle differenze, la lotta contro gli atteggiamenti negativi e l’evitamento del conflitto possono avere l’effetto paradossale di scoraggiare la mobilitazione di gruppi discriminati, l’azione collettiva e la critica del razzismo strutturale e istituzionale (Dixon et al., 2010).
Come sostiene Tubino (2004), l’interculturalità funzionale pone l’accento sulla necessità del dialogo, senza tener conto della discriminazione strutturale, della povertà, dell’esclusione sociale subita da alcuni gruppi che minano l’uguaglianza e le condizioni minime per un dialogo autentico. È funzionale perché non mette in discussione il sistema attuale, al contrario, genera un discorso e una pratica che legittima le disuguaglianze strutturali.
L’asimmetria sociale e la discriminazione culturale rendono impraticabile il dialogo interculturale autentico. Per questo non bisogna considerare il dialogo come un punto di partenza ma piuttosto interrogarsi sulle sue condizioni di possibilità. In termini più precisi, è necessario esigere che il dialogo tra culture sia in primo luogo un dialogo sui fattori economici, politici, militari, etc., che attualmente condizionano lo scambio sincero tra le culture dell’umanità. Questa esigenza è oggi imprescindibile per non cadere nell’ideologia di un dialogo decontestualizzato, che si limita a favorire gli interessi creati dalla civiltà dominante, senza considerare l’asimmetria di potere che regna nel mondo. Affinché il dialogo sia reale, è essenziale cominciare dal rendere visibile le cause del non-dialogo, aspetto che presuppone un discorso di critica sociale (Tubino, 2004, p. 7; traduzione nostra).
Seguendo questa linea, a partire da prospettive decoloniali, si considera l’interculturalità funzionale un approccio che non ha come obiettivo la costruzione di società più egualitarie ma il controllo e l’addomesticamento del conflitto per mantenere la stabilità sociale,
è una strategia politica funzionale al sistema mondiale moderno e ancora coloniale; intende “includere” coloro che prima erano esclusi all’interno di un modello globalizzato di società governata, non dalle persone, ma dagli interessi del mercato […] un dispositivo di potere che consente la continuazione e il rafforzamento delle strutture sociali consolidate e della loro matrice coloniale (Walsh, 2008, pp. 2-8; traduzione nostra).
Al di là delle buone intenzioni, questo modello di intervento ha due caratteristiche che possono avere effetti negativi sulla vita dei migranti e delle persone razzializzate.
Il primo è la folclorizzazione delle differenze, perché è un culturalismo edulcorato, una visione delle culture “da vetrina”. Si rischia di riprodurre una visione riduzionista e statica delle culture e di rinchiudere le persone in categorie stereotipate, più vicine alle guide turistiche che alla loro realtà personale.
È l’immagine delle pedagogie del couscous, cioè della valorizzazione degli elementi più banali delle ‘culture esotiche’, delle ‘cene interculturali’, stereotipo di una socialità davvero nostrana cha ha prodotto interventi di ‘ri-folklorizzazzione’ del migrante molto artificiali, assai distanti dalla sua sfera di preoccupazioni del quotidiano (Pompeo, 2009, p. 193).
L’interculturalità si trasforma così in una categoria astratta e superficiale che dimentica la profonda asimmetria di potere e la disuguaglianza che caratterizzano le relazioni in contesti multiculturali. Ciò porta inevitabilmente all’illusione che la convivenza interculturale possa essere semplicemente il risultato di buone intenzioni (Aguilar e Buraschi, 2018 e 2022). Le “feste interculturali”, i proclami di tolleranza e la celebrazione della differenza, servono a poco se i diritti fondamentali non sono riconosciuti, se non si combattono le basi della disuguaglianza.
Un ultimo aspetto da rilevare è che l’interculturalità funzionale implica la cancellazione delle persone razzializzate e dei migranti come soggetti politici, non a caso si diffondono espressioni come “persone culturalmente diverse”, che hanno l’effetto, come abbiamo visto, di “culturalizzare la disuguaglianza” e occultare la violenza strutturale legata alla razzializzazione.
Parlare di “persone culturalmente diverse” per riferirsi a migranti o a persone razzializzate, è scorretto per molte ragioni. In primo luogo, la diversità culturale è un concetto sfumato che può riguardare tutte le persone: ci sono differenze culturali importanti, riguardo a visione del mondo, valori e credenze tra persone di età diverse, con esperienze di vita diverse, ecc. In questo senso, non sono solo le persone di origine straniera a essere “culturalmente diverse”. In secondo luogo, può essere pericoloso presumere che una persona sia “culturalmente diversa” a priori perché è di origine straniera o razzializzata. Una persona razzializzate che è cresciuta in una determinata regione spagnola o italiana è culturalmente diversa da una persona bianca che è cresciuta nello stesso luogo? Indubbiamente, la loro esperienza può essere diversa, la razzializzazione influenzerà in modo significativo le loro vite, ma se culturalizziamo questa differenza, da un lato, rendiamo invisibile il ruolo della razzializzazione e, dall’altro, assumiamo che la persona razzializzata rappresenti un “alterità culturale”. Infine, l’espressione “persone culturalmente diverse” crea una falsa illusione di “uguaglianza nella diversità”, quando la razzializzazione, le relazioni coloniali passate e presenti implicano una chiara gerarchia tra persone di origine straniera che influisce notevolmente sulle loro vite: in Spagna o in Italia non è la stessa cosa essere di origine inglese o essere di origine marocchina. Al contrario, “persone razzializzate”, è un termine ampiamente rivendicato dai movimenti antirazzisti in Spagna per definire le persone che ricevono un trattamento discriminatorio sulla base della categoria razziale che la società ha assegnato loro.
Verso un’educazione sociale antirazzista critica
Di fronte ai limiti dell’antirazzismo funzionale, vogliamo proporre alcune linee guida per promuovere un’educazione sociale antirazzista. Non è un modello, ma una proposta teorica e metodologica in costruzione, frutto del dialogo tra gruppi di ricerca, associazioni di immigrati, attivisti antirazzisti ed educatori e operatori sociali. È un approccio che crea un ponte tra sapere scientifico e sapere popolare, tra teoria e pratica, tra ricerca e azione.
Decolonizzare il nostro sguardo
Il razzismo non è solo (e non deve necessariamente essere) una dottrina, ma un sistema di credenze e pratiche socialmente condivise dai membri di una società, un insieme di rappresentazioni sociali che definiscono l’identità sociale di un gruppo. Rinnovare l’educazione sociale antirazzista significa svolgere un “lavoro interno” di decostruzione della cultura dominante fondamentalmente razzista e costruire una controcultura genuinamente antirazzista (Tevanian, 2008).
Che cosa significa costruire una cultura antirazzista? Riassumendo, potremmo dire che si tratta di una cultura della riumanizzazione, una cultura che smantelli i meccanismi di dominio sociale dai dispositivi che costituiscono la logica del razzismo: la divisione radicale tra “noi” e “loro”, l’essenzializzazione delle differenze e la stigmatizzazione dell’alterità. Se il razzismo è una visione del mondo, allora l’antirazzismo deve essere soprattutto un processo di decolonizzazione del nostro immaginario e di ridefinizione della nostra identità. Compito primario di chi si occupa di educazione sociale antirazzista è contribuire alla decostruzione della logica razzista che in molti casi viene riprodotta dai nostri principali agenti di socializzazione: istituzioni educative, famiglie, amici, media e, soprattutto, riflettere sui nostri modelli d’intervento che riflettono gli elementi razzisti integrati nel nostro orizzonte culturale. “La ‘decolonizzazione delle menti e del sapere’ passa attraverso una revisione della storiografia, […] l’inclusione di paradigmi non eurocentrici entro le scienze sociali […] e una maggiore e più estesa consapevolezza della storia coloniale che dovrebbe essere maggiormente interiorizzata nelle narrazioni attuali, anche e soprattutto negli studi sulle migrazioni” (Gilardoni, 2021, p. 123).
Il punto di partenza di qualsiasi strategia di azione antirazzista deve essere la consapevolezza del luogo da cui si interviene. Si tratta di essere consapevoli da dove teorizziamo e agiamo, evitando l’etnocentrismo e il falso universalismo, tenendo sempre conto della particolarità delle nostre proposte e dell’importanza di ciò che Boaventura De Sousa Santos (2010) chiama “Epistemologie del Sud” nei processi di resistenza al dominio. Non possiamo contribuire all’antirazzismo senza ammettere la colonialità del nostro sapere, senza essere consapevoli dei nostri privilegi che influenzano il nostro modo di agire. Seguendo la proposta di De Sousa Santos, l’Epistemologia del Sud produce e riconosce il sapere prodotto dai margini, sulla base delle esperienze di resistenza dei gruppi sociali storicamente silenziati, oppressi da razzismo, capitalismo e patriarcato.
L’antirazzismo deve quindi essere essenzialmente riflessivo, includendo sempre la dimensione del potere. La riflessività è la considerazione continua di come i valori, la differenza sociale e il potere influenzano le interazioni tra gli individui.
L’antirazzismo critico è un processo che mette in discussione i propri pregiudizi, i propri modelli d’intervento irriflessivi e impliciti e la posizione che occupiamo nel sistema di dominio per prendere coscienza del nostro ruolo nella riproduzione delle strutture di discriminazione e potere. Ciò implica, quindi, un processo continuo di messa in discussione delle nostre pratiche e un ripensamento dialogico delle nostre strategie di azione, oltre che la volontà di cambiare radicalmente la logica tradizionale dei nostri interventi e riconoscere la responsabilità politica del nostro ruolo (Aguilar e Buraschi, 2020).
La decolonizzazione del nostro sguardo comprende anche un processo di “giustizia epistemica” (De Sousa Santos, 2010): saper ascoltare le voci di chi è stato sistematicamente silenziato e che ora si rivendica come soggetto politico attivo e prende la parola; riconoscere strategie di conoscenza e azione marginalizzate dallo sguardo occidentale; rivedere le nostre metodologie educative dando spazio al corpo, all’immaginazione, a processi partecipativi dal basso; ripensare i concetti fondamentali che stanno alla base dei nostri modelli d’intervento come integrazione, progresso, sviluppo, dialogo interculturale (Buraschi e Aguilar, 2022).
Come sottolinea Ochy Curiel, il riconoscimento e la legittimazione di saperi “altri” subalternizzati:
Non può ridursi a un’operazione di facciata, tesa a ripulire colpe epistemologiche; non si tratta di citare femministe nere, indigene, impoverite, per dare un tocco critico alle proprie ricerche, conoscenze e pensieri. Si tratta invece di identificare concetti, categorie, teorie che nascono da esperienze di subalternità, che in genere sono create collettivamente, che possono essere generalizzate senza avere una pretesa di universalità, che possono spiegare realtà diverse decostruendo così l’immaginario che attribuisce a queste conoscenze un carattere locale e individuale, impossibile da comunicare (Curiel, 2022, pp. 86-87).
Per esempio, le prospettive sul buen vivir, che si stanno sviluppando in America Latina (che dovremmo chiamare, coerentemente con le prospettive decoloniali, Abya Yala), possono rinnovare profondamente l’educazione interculturale e antirazzista (Silva Montes, 2019; Hidalgo et al., 2019; Piedrahita, 2020). Il concetto di buen vivir ha la sua genesi nella cosmovisione quechua sumak kawsay. È un concetto in costruzione, direttamente collegato al dialogo interculturale. Mette in discussione l’epistemologia occidentale e riflette una visione di un mondo che è soprattutto plurale. Include sia l’idea di un’interdipendenza tra la società e il suo ambiente naturale, sia una concezione dell’universale come realtà plurale. È una prospettiva che supera i dualismi società-natura e soggetto-oggetto per proporre invece una visione olistica in cui le persone e la natura non sono più intese separatamente, ma come parte di un tutto:
Il sumak kawsay si basa su una conoscenza trasmessa di generazione in generazione in quanto condizione di possibilità per gestire le basi ecologiche e spirituali locali e rispondere autonomamente alle proprie necessità. In esso prendono forma una visione e una pratica sociale sulla vita e il cosmo, che uniscono gli spazi fisici e l’intangibile, la dimensione materiale e la dimensione spirituale, l’uomo/donna e la natura, in un intreccio di quattro principi fondamentali: relazionalità, corrispondenza, complementarietà e reciprocità […] si radica nelle relazioni equilibrate, armoniche, eque e solidali tra umani e natura, nella dignità di ogni essere umano e nella necessaria interrelazione tra esseri, saperi, culture, razionalità e logiche di pensiero, azione e vita (Walsh, 2022, p. 62).
Si tratta anche di riconoscere come la colonialità influisce nelle relazioni con persone del Sud Globale, come condiziona la nostra forma di interpretare il mondo e le nostre strategie metodologiche di intervento. In questo senso,
la colonialità è uno degli elementi costitutivi e specifici del modello mondiale di potere capitalistico. Si fonda sull’imposizione di una classificazione razziale/etnica della popolazione del mondo come pietra angolare di tale modello di potere ed opera in ognuno dei piani, ambiti e dimensioni, materiali e soggettivi, dell’esistenza quotidiana e a scala societaria (Quijano, 2000, p. 342; traduzione nostra).
La ridefinizione di una cultura antirazzista ha bisogno di creare spazi di dialogo e collaborazione tra le teorie e le pratiche che si sviluppano nel Nord e nel Sud Globale, tra le persone che appartengono a gruppi dominanti (ma che vogliono rompere con il sistema di oppressione) e gruppi subordinati. Si tratta di creare strutture dialogiche dove sia possibile la co-ricerca, la teorizzazione e la progettazione dai processi comunitari (Espinosa et al., 2013; Buraschi, Amoraga e Oldano, 2017) e di rinnovare le metodologie di ricerca e azione pedagogiche a partire dagli insegnamenti dell’educazione popolare, le teorie e pratiche femministe e la pedagogia decoloniale (Muraca, 2021).
Rendere visibile e comprendere la natura strutturale del razzismo
Per rinnovare l’educazione sociale antirazzista è necessario ridefinire e riconcettualizzare il razzismo. Come abbiamo visto, la forma di definire un problema determina la forma di risolverlo. Pertanto, una nuova forma di azione socio-educativa richiede un nuovo quadro concettuale affinché l’azione antirazzista sia veramente trasformativa. Una definizione di razzismo che sia operativa e utile per un’azione antirazzista trasformativa deve superare sia le definizioni ristrette (che lo collegano alla razza, all’ideologia razzista o agli aspetti biologici) sia le definizioni generiche (che comprendono tutti i tipi di discriminazione, banalizzando e diluendo la discriminazione razzista). Inoltre, deve includere sia i suoi due elementi fondamentali (dominazione e razzializzazione) sia il suo carattere complesso e multidimensionale (interpersonale, istituzionale e strutturale).
Parliamo di dominazione perché il razzismo è un principio strutturante del sistema e una manifestazione concreta del potere e dell’oppressione di un gruppo su un altro. Il razzismo è un meccanismo di inferiorizzazione di persone e gruppi attraverso una differenziazione radicale che razzializza le differenze. La razzializzazione è il processo attraverso il quale le differenze fenotipiche, sociali, culturali, religiose, ecc. vengono considerate naturali, essenziali, come se fossero marcatori di una presunta razza. Questo processo implica una differenziazione essenziale e radicale tra i gruppi umani, il riduzionismo della complessità delle persone a poche caratteristiche legate al gruppo (identità culturale, fenotipo, etnia, religione, lingua) e una relazione deterministica tra queste caratteristiche e il modo di essere di una persona.
Nel nostro libro Racismo y antirracismo. Comprender para transformar (2019), proponiamo di definire il razzismo come un
sistema di dominazione e inferiorizzazione di un gruppo rispetto a un altro basato sulla razzializzazione delle differenze, in cui si articolano dimensioni interpersonali, istituzionali e culturali. Si esprime attraverso un insieme di idee, discorsi e pratiche di cancellazione, stigmatizzazione, discriminazione, esclusione, sfruttamento e aggressione (Buraschi e Aguilar, 2019, p. 27).
A causa della sua natura multidimensionale, il razzismo è un fenomeno complesso, poiché le sue dimensioni sono correlate e intrecciate, alimentandosi a vicenda. Non si tratta di dimensioni isolate che si possono aggiungere o sovrapporre, ma di dimensioni che si alimentano a vicenda e si intersecano. Questo spiega sia la complessità del razzismo sia la complessità della sua risposta.
L’identificazione delle nuove forme di razzismo, l’analisi della multidimensionalità delle sue cause, la comprensione della sua funzione ideologica e sociale sono passaggi necessari per il rinnovamento dell’antirazzismo. Ciò implica l’analisi di come specifici tipi di dominio sociale costruiti storicamente come genere, etnia, classe, razza, identità culturale interagiscono per produrre diversi tipi di disuguaglianza sociale. Si tratta di mettere al centro l’esperienza vissuta dalle persone discriminate e di analizzare i processi di razzializzazione.
Sulla base dell’approccio intersezionale, partiamo dal presupposto che più di una categoria di oppressione (razza, genere, classe, orientamento sessuale, religione) sia coinvolta in tutte le dinamiche di potere e in tutti i processi di razzializzazione; che occorre prestare attenzione a tutte queste categorie nella consapevolezza che le relazioni tra le categorie sono variabili e sono sempre “situate” in un determinato contesto storico e sociale; inoltre, che ogni categoria è internamente diversa ed è il frutto di un continuo processo di costruzione e ricostruzione in cui intervengono fattori individuali, interpersonali, intergruppo, culturali e istituzionali.
Riconoscere la natura strutturale del razzismo comporta mettere in discussione concetti classici dell’intervento socio-educativo interculturale, come “inclusione” o “integrazione”. Se la società è strutturalmente razzista, l’integrazione implica, in realtà, un “assimilazione subalterna” (Aguilar e Buraschi, 2012) e l’inclusione implica la legittimazione di un sistema iniquo.
Protagonismo delle strategie di resistenza delle persone e dei gruppi razzializzati
Per superare i limiti delle azioni socio-educative antirazziste, dobbiamo concepirle come un processo di emancipazione dei membri di gruppi razzializzati, ponendo l’accento sulla loro capacità di agency, le loro risorse, la loro resilienza. Riconoscere e dare spazio alle strategie che mettono in atto per resistere al razzismo e all’impatto che le discriminazioni hanno sulla loro vita quotidiana. Si tratta di valorizzare la loro capacità di trasformare gli svantaggi relazionati con l’esperienza migratoria in opportunità creative e storie di successo in diverse sfere della loro vita (Santagati, 2019).
L’educazione sociale antirazzista deve essere essenzialmente partecipativa, creando strutture dialogiche che permettano di lavorare in spazi di riconoscimento reciproco e coscientizzazione (Buraschi et al., 2017). Non si tratta solo di “dare voce” alle persone immigrate e razzializzate, ma di saper ascoltare e creare spazi di dignità che rendano possibile l’ascolto (Sclavi e Buraschi, 2022).
L’intervento socio-educativo antirazzista, se vuole evitare il rischio di essere funzionale al sistema, deve essere presenza impegnata, riconoscendo che non esistono progetti di educazione interculturale e antirazzista neutrali. Se il razzismo è un fenomeno strutturale, l’educazione antirazzista deve avere anche una dimensione politica. In altre parole, l’azione socio-educativa antirazzista deve riconoscere i gruppi razzializzati come soggetti politici con le proprie rivendicazioni, strategie e narrazioni di emancipazione, come soggetti che metteno in campo strategie innovative e autonome.
#RegularizaciónYa: un esempio di educazione sociale antirazzista critica
Terminiamo questo testo con un esempio di come si possono superare i modelli di antirazzismo funzionale e integrare proposte di impegno politico e educazione antirazzista critica con metodologie partecipative e creative.
Negli ultimi anni, in Spagna si sta vivendo un rinnovamento dell’antirazzismo che sta generando importanti conseguenze nelle pratiche socio-educative. Queste esperienze si inquadrano nel denominato “antirazzismo politico”, che nasce come risposta ai limiti dell’antirazzismo funzionale e incorpora molti degli elementi propri della prospettiva critica.
Nel novembre del 2017 si è organizzata la prima marcia antirazzista spagnola organizzata da gruppi razzializzati, la data commemorava l’assassinio di Lucrezia Pérez, di origine dominicana, da parte di una Guardia Civile di estrema destra nel 1992. La marcia ha rappresentato un punto di svolta per la lotta antirazzista, riportando in primo piano il protagonismo delle persone immigrate e dei gruppi razzializzati, non più mero oggetto dell’attivismo bianco europeo. Dal 2017 si sono moltiplicate iniziative, movimenti sociali, campagne ed esperienze educative che promuovono il passaggio dall’antirazzismo funzionale all’antirazzismo critico e il protagonismo delle persone razzializzate come soggetti politici autonomi, capaci di organizzarsi, di far sentire la propria voce e guidare la lotta antirazzista, perché se il razzismo è un problema strutturale e politico e non individuale, la lotta contro il razzismo dev’essere strutturale e politica.
Nel contesto delle dure conseguenze della pandemia, nel marzo del 2020 nasce un importante movimento per la regolarizzazione delle persone immigrate in situazione amministrativa irregolare. L’iniziativa #RegularizaciónYa è un movimento nazionale composto di collettivi e organizzazioni di migranti e persone razzializzate che si auto-organizzano politicamente per rivendicare diritti sociali, politici ed economici delle persone “sin papeles”. L’obiettivo principale è raccogliere 500.000 firme per promuovere un’iniziativa legislativa popolare, al fine di ottenere la regolarizzazione della situazione amministrativa di centinaia di migliaia di persone.
Questo movimento rappresenta un buon esempio, da un punto di vista metodologico, di come si possono applicare i principi proposti in questo testo per passare da un antirazzismo funzionale a un antirazzismo critico.
Innanzi tutto, si tratta di un movimento sociale (ma anche politico e educativo) in cui le persone migranti e razzializzate sono protagoniste. Il punto di partenza è la presa di coscienza durante la crisi sanitaria del ruolo essenziale dei lavoratori stranieri nell’economia spagnola, in particolare, nel settore primario e nel settore socio-sanitario. Tutte le campagne di sensibilizzazione e di educazione sociale antirazzista si sono basate su questo principio: la regolarizzazione non è una questione di solidarietà, non è una concessione, ma un diritto, una questione di giustizia sociale.
Un secondo elemento di grande importanza è che non si è limitato ad essere un movimento sociale finalizzato ad appoggiare una iniziativa legislativa popolare ma ha organizzato in tutto il territorio nazionale numerose azioni socio-educative incentrate nell’informare, denunciare il carattere strutturale della discriminazione, le pratiche di razzismo istituzionale, in particolare il profiling razziale, e sensibilizzare la popolazione spagnola sull’importanza di un cambiamento di paradigma rispetto alle politiche migratorie. Queste iniziative educative hanno sviluppato strategie di comunicazione sociale e formazione innovative e creative attraverso l’arte, il corpo, valorizzando i saperi popolari delle persone immigrate con un efficace uso dei Social Network.
Inoltre, il movimento #RegularizaciónYa, rappresenta un’esperienza importante che ha permesso la riconfigurazione delle gerarchie dentro i movimenti sociali antirazzisti. Si sono create reti nazionali e reti locali, che collaborano con numerose ONG e altri movimenti sociali. In queste reti le persone non razzializzate non erano più le “esperte”, “portavoce” o “leader” degli interventi, ma alleate. L’assunzione del protagonismo delle persone immigrate ha implicato imparare ad ascoltare, a dare spazio, ad essere autocritici e accettare di uscire dalla propria zona di comfort.
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Gli autori
Daniel Buraschi è dottore di ricerca in Psicologia Sociale presso l’Universidad Nacional de Educación a Distância (UNED) e dottore di ricerca in Diritto e Lavoro Sociale presso l’Università di Castilla La Mancha (UCLM). Ha una laurea in Scienze dell’Educazione presso l’Università di Padova, una laurea magistrale in Ricerca in Psicologia presso l’UNED. È professore del Master in Migrazioni e Interculturalità presso l’UCLM e professore tutor di Pedagogia Sociale presso l’UNED de La Laguna (Tenerife). Ricercatore del Grupo Interdisciplinar de Estudios sobre Migraciones, Interculturalidad e Ciudadanía (GIEMIC) dell’UCLM e dell’Osservatorio sull’Immigrazione di Tenerife dell’Universidade de La Laguna. Vicedirettore dell’Istituto Internazionale di Scienze Sociali Applicate (IICSA). Ha lavorato in diverse organizzazioni no profit in Italia, Spagna, Inghilterra, Francia e Marocco. È coordinatore dell’area ricerca e progettazione partecipata della Red de Acción e Investigación Social, dove svolge diversi progetti di consulenza, ricerca, facilitazione e formazione in politiche sociali, educazione interculturale e processi comunitari.
María José Aguilar Idáñez é docente di Lavoro Sociale nell’ UCLM. Phd in Sociologia e Scienze Politiche. Consulente di diverse organizzazioni internazionali, è direttrice dell’IICSA. Autrice di più di 200 pubblicazioni riguardanti pratiche partecipative, immigrazione, interculturalità, lavoro sociale, servizi sociale e progettazione sociale. Dirige il Master in Immigrazione e Interculturalità dell’UCLM ed è ricercatrice principale del gruppo di ricerca competitivo GIEMIC presso l’UCLM.