Due anni di didattica a distanza: una occasione perduta? | Two years of distance learning: a missed opportunity?
PDF: DOI 10.5281/zenodo.6855411
Quando un certo tema viene presentato come “evidente”, così evidente da non meritare nemmeno una spiegazione, allora occorre drizzare le orecchie e prestare attenzione. Perlomeno, dovrebbero farlo quelli che si occupano di filosofia, perché quando si danno troppe cose per scontate l’odore dell’ideologia sale a volute e riempie le stanze (reali o virtuali che siano).
In questi mesi mi pare sia il caso della didattica, ossia del dibattito sul modo “giusto” di insegnare. Tutti sono a parlare bene della “didattica in presenza”, contrapposta alla “didattica a distanza”, la famosa (o famigerata) didattica a distanza che in un modo o nell’altro ha tenuto in piedi la scuola italiana durante l’emergenza Covid-19.
“Tutti dicono I love you”, come la collega Zenone su una pagina di Facebook il 25 maggio 2020:
Non voglio essere una Brava Maestra “a distanza”, voglio tornare ad essere una normale Maestra in presenza.
Sì, in presenza, come quando si fa l'appello al mattino e li guardo, assonnati e con ancora i loro sogni attorcigliati tra i capelli. Il loro vociare stridulo che ti riporta alla realtà, ti fa sentire la nostalgia del silenzio, ti fa contare i giorni che mancano al prossimo Ponte. Il loro continuo movimento che somiglia ad un formicaio in piena attività e ti ricordare ogni giorno da quanto non fai una corsa liberatoria in un prato. E vogliamo parlare degli sguardi? Questi mi mancano più di tutti: occhi negli occhi, senza la barriera di uno schermo, occhi che sorridono, occhi che si inumidiscono, occhi furiosi, occhi curiosi e occhi malinconici.
Ma da quanto non sentite più profumo di matite temperate, di merende scartate e di libri colorati? Insieme, in classe hanno un sentore diverso... Un profumo di scuola
Ecco cosa mi manca...
Ha fatto un certo scalpore, tra i mille altri, anche l’intervento di Cacciari su “La Stampa” del 20 maggio 2020, in cui il filosofo, insieme a una ventina di altri firmatari, esclamava:
dare superficialmente per assodata l’intercambiabilità fra le due modalità di insegnamento – in presenza o da remoto – vuol dire non aver colto il fondamento culturale e civile della scuola, dimostrandosi immemori di una tradizione che dura da più di due millenni e mezzo e che non può essere allegramente rimpiazzata dai monitor dei computer o dalla distribuzione di tablet… Ne consegue che la scuola non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni, non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di ricerca. Vuol dire anzitutto socialità, in senso orizzontale (fra allievi) e verticale (con i docenti), dinamiche di formazione onnilaterale, crescita intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica”.
Per finire con l’intervento senza appello di Massimo Recalcati su "Repubblica" del 19 giugno 2020: “la relazione non è qualcosa che si aggiunge alla didattica come una sua appendice esterna, ma è la condizione di ogni didattica. Dunque non esiste una didattica a distanza. La tecnologia non può supplire alla vita comunitaria della scuola”.
Tutti, insomma, sono a definire la scuola “in presenza” come “vera” e “autentica”, quella “a distanza” come un “ripiego” e una “emergenza”: ma in cosa consiste esattamente, chiedo io, la differenza tra le due? Insomma: al di là dei problemi tecnici, dove sta la differenza essenziale tra l’insegnamento/apprendimento in presenza e quello a distanza? Perché tutti gli insegnanti vogliono tornare alla lezione “in presenza”?
Preciso che le mie riflessioni si concentrano esclusivamente sulla scuola superiore, e nella scuola superiore solo sul secondo biennio e l’anno conclusivo: un periodo in cui i ragazzi non sono più bambini, in tutti i sensi.
Vorrei mettere a fuoco il tema di queste righe con la massima chiarezza di cui sono capace: non si tratta di proclamare delle tesi ma di problematizzare una esperienza, compiendo quella che in filosofia si chiama “ricerca fenomenologica”, cercando di lasciare cadere tutti i pre-giudizi per lasciare emergere “la cosa in sé” ricordando non solo Husserl ma anche Spinoza: “nec ridere, nec lugere, nec detestari, sed intelligere”. E quello che voglio cercare di capire meglio è proprio l’essenza di quelle attività che chiamiamo “insegnare” e “imparare”, sfruttando l’esperienza Covid come un immenso esperimento sociale che mai ci saremmo sognati di organizzare volontariamente ma che di fatto ci siamo trovati a vivere. Uno sforzo in questa direzione, purtroppo, non mi sembra molto presente nelle discussioni di questi mesi, dominate piuttosto dallo scontro di certezze contrapposte. Non posso garantire, peraltro, sull’esito del mio tentativo.
Il primissimo livello di risposta, quello su cui per forza di cose si è concentrata la discussione in questi mesi, si colloca banalmente nella tecnologia, ossia nel “medium” elettronico che insieme si interpone e connette gli attori del dialogo. A questo livello con tutta evidenza quello che conta è la “potenza” della tecnologia di cui si dispone. Ascoltare una persona di cui si sente una frase si e una no mentre il buffer di riempie e poi si vuota di colpo accelerando video e audio non è certamente paragonabile al flusso continuo di informazioni che ci proviene da una dialogo in presenza . E lo stesso si può dire della qualità del video. Quindi tutti coloro che puntano il dito sulle differenze di classe sociale e di reddito che il lockdown e la didattica a distanza hanno impietosamente messo in luce hanno ragione, senza dubbio. E di conseguenza hanno ragione tutti coloro che fanno presente che senza investimenti massicci e reali da parte dello Stato non si va da nessuna parte. Questi investimenti col tempo piano piano sono arrivati, grazie anche ai finanziamenti dell’Unione, ma sembra ancora presto per capire se sono stati spesi bene oppure sono andati inutilmente dispersi in mille rivoli. Resta il fatto che molti di noi hanno fatto la triste esperienza negli scorsi mesi di parlare davanti a 20 icone mute, senza avere nessun tipo di riscontro dall’altra parte. È indubbio che questa frustrante esperienza non può essere considerata come un accettabile modo di fare lezione; così come difficilmente può essere considerato “insegnare” il caricare sul registro elettronico gli esercizi da svolgere, le pagine da studiare, il link a un video su YouTube.
Su questo punto, dopo due anni di esperienza, credo si sia formato un certo consenso (anche se naturalmente potrei sbagliarmi). In un mondo ideale (e inesistente) avremmo avuto tutti a disposizione schermi enormi e luminosissimi, connessioni istantanee, computer potenti e reattivi, programmi professionali aggiornati all’ultima versione, tavolette grafiche touchscreen: è evidente che il vissuto della didattica a distanza sarebbe stato ben altro . E tuttavia anche nel mondo reale spesso è stato possibile realizzare delle modalità di comunicazione non solo efficaci ma che anzi potrebbero essere riprese e sfruttate anche in una scuola “normale”. Lo scopo delle seguenti righe è anche di riflettere su questa possibilità.
Un’altra osservazione iniziale che mi pare importante fare è che la situazione didattica che abbiamo vissuto in realtà non è stata quella di una formazione totalmente a distanza, come quella che spesso si vive in azienda. Noi tutti abbiamo conosciuto di persona i nostri ragazzi, anche se soltanto per poche settimane; li abbiamo visti da vicino, ci abbiamo parlato, li abbiamo ascoltati di persona. Usando webcam, computer, Moodle, Meet e simili diavolerie abbiamo solo articolato un rapporto che esisteva già e che non andava costruito da zero come nei corsi di aggiornamento professionali o aziendali, che sono davvero impersonali e che infatti spesso sono ben poco efficaci nella trasmissione delle conoscenze. A scuola c’è sempre stato un substrato di esperienze empatiche e, simmetricamente, c’è sempre stata la consapevolezza che la didattica a distanza sarebbe finita. Forse proprio questa consapevolezza, peraltro, ha fatto nascere in tanti la convinzione (per molti la speranza) che questa esperienza sarebbe stata solo una parentesi, un incubo da cui prima o poi ci saremmo risvegliati, e che dunque si trattava solo di tener duro e di aspettare che passasse “‘a nuttata”, lasciando perdere le riflessioni teoriche.
Il primo argomento a favore del lavoro in classe è l'abitudine. È ovvio che tutti noi insegnanti ci sentiamo più a nostro agio stando in classe: è quello che abbiamo fatto per anni, in alcuni casi per tutta la vita. Sappiamo come fare, sappiamo come fronteggiare le emergenze, sappiamo in generale come trattare i ragazzi (o almeno siamo convinti di saperlo). Stare in classe ci è comodo, da tanti punti di vista. Esiste perciò un fattore “abitudine” di cui tener conto. La semplice abitudine però non può essere un criterio di verità o di validità. Non credo si possa dire che la didattica in presenza sia quella “vera” solo perché è quella che abbiamo fatto fino a questo momento. Al massimo si può dire che è la più comoda, proprio perché è quella cui siamo abituati. Se è davvero quella “vera” ci dovrebbero essere dei motivi più profondi, più strutturali, più essenziali, e sono quelli che vorrei portare alla luce (se ci sono). L’argomento del “si è sempre fatto così” non è un argomento (anche se il “consensus omnium” ha il suo peso). Perciò archiviamolo e andiamo avanti.
Il secondo argomento che viene portato a favore della lezione in presenza è quello di una comunicazione più “autentica” tra il docente e lo studente, attraverso tutta una serie di messaggi non verbali che passano attraverso il corpo, l’atteggiamento, le sfumature dello sguardo e così via. Questo è un argomento più serio.
Quando siamo “in presenza” sicuramente noi siamo nelle condizioni di raccogliere e trasmettere tutta una serie di “messaggi non verbali”, che raccogliamo e trasmettiamo in modo per lo più inconscio attraverso la nostra prossemica e la aptica. Una parte di questi messaggi certamente non possono essere trasmessi né raccolti da un'inquadratura a mezzo busto. Tutto questo è certamente vero, ma è poi davvero così importante, al di là della soddisfazione del mio ego nel vedermi sempre al centro della situazione? È davvero qualcosa che fa parte per essenza del processo di insegnamento/apprendimento? È qualcosa cioè senza la quale non si può parlare di insegnamento/apprendimento?
L’apprendimento, lo sappiamo, ha un componente anche emotiva, che “fissa” meglio la conoscenza nell’intreccio della narrazione che di noi facciamo a noi stessi (i paradigmi dei verbi irregolari greci che ancora ricordo sono legati alla memoria del mio docente di quinta ginnasio e all’aura di autorità in parte paterna in parte poliziesca che lo circondava): l’emozione ha bisogno a sua volta di una empatia che non si vede come possa scaturire da un monitor. Tutto questo è verissimo e illumina in modo significativo la situazione. Ma è anche vero che l’emozione può avere un ruolo opposto, distraendo l’attenzione dello studente dal suo compito: quante volte noi insegnanti ci siamo sentiti dire che una interrogazione o una verifica sono andate male perché lo studente era “agitato”, “emozionato”, “sconvolto” e così via? Non a caso, molte testimonianze di studentesse e di studenti durante il periodo di lockdown riguardano il senso di maggiore tranquillità e sicurezza in se stessi che i ragazzi hanno provato sostenendo una interrogazione a casa loro, in un ambiente familiare, senza essere sotto lo sguardo dei compagni.
Questo accenno ai compagni ci fa ricordare la cosa più ovvia di tutte: dal punto di vista dell’insegnante c’è una relazione sola, quella tra lui stesso e la classe (o i singoli studenti); ma dal punto di vista del singolo studente ci sono due relazioni, quella verso il docente e quella verso i compagni, che vengono vissute in modo del tutto diverso. Questa differenza è evidente e immediata nella situazione normale in un ambiente fisico, quello della classe, che è fatto apposta per sottolinearla; ma si indebolisce molto nella situazione virtuale in cui tutti sono “alla stessa distanza”, anche da un punto di vista percettivo.[1] Tutto ciò ci ricorda che ogni studente è presente non solo all’insegnante, ma anche a ciascuno dei suoi compagni, con cui interagisce continuamente per il solo fatto di essere costretto a condividere uno spazio fisico. Tale presenza, che in condizioni normali poteva avere una gamma vastissima di sfumature, durante la didattica a distanza si è asciugata e ristretta fino al minimo indispensabile. Se la scuola normale era un argine alla tendenza degli adolescenti a vivere nel mondo semi-onirico dei device elettronici, durante la didattica a distanza questo argine è per forza di cose crollato.
Il tema della “presenza” è connesso con quello della corporeità, che poi è quello che segna la cesura netta con la dimensione virtuale degli strumenti elettronici: essere “in presenza” significa essere fisicamente (cioè corporalmente) in prossimità di un altro corpo, in modo tale che si stabiliscano dei legami particolare di apertura coscienziale (quella che chiamiamo “attenzione”).
Perciò possiamo anche reimpostare la questione così: quanto conta il corpo nell’insegnamento / apprendimento? A quanto pare infatti è proprio questo che manca nella didattica a distanza. Il monitor restituisce un’immagine, un avatar, un fantasma, non certo un corpo in carne ed ossa.
Impostando la questione da questo punto di vista riemergono subito le differenze legate alle classi di età (che poi diventano una metafora semplice per alludere alle forme di apprendimento diverse che si susseguono durante la crescita) perché il rapporto col corpo cambia moltissimo in funzione degli anni: una maestra delle primarie deve abbracciare ed essere abbracciata, pulire nasi e allacciare stringhe delle scarpe, guidare la mano nel tracciare una linea e aiutare a tagliare dritto un foglio di carta. Un professore di liceo (soprattutto se maschio e sessantenne come me), però, se sfiora fisicamente una diciottenne rischia la denuncia per violenza sessuale.
Il lavoro dell’insegnamento può essere molto intimo, ma certamente al liceo è soprattutto mentale: devo aiutare i ragazzi e le ragazze che mi stanno davanti a costruirsi un’immagine di sé, del mondo e degli altri che sia la più ricca e profonda possibile, in modo che possano prendere le decisioni che li riguardano nel modo più razionale e responsabile possibile. Per fare questo devo essere fisicamente davanti a loro (facendo la tara, lo ripeto ancora una volta, sui problemi tecnici di connessione)?
Da un punto di vista più filosofico, possiamo forse procedere “via remotionis”: se la didattica cessa di essere tale se togliamo la caratteristica di essere in presenza, allora significa che l’essenza noematica dell’insegnamento / apprendimento (ciò per cui l'insegnamento/apprendimento è insegnamento / apprendimento) consiste nell’essere presenti l’uno all'altro del docente e del discente. Ma è davvero così? A me pare che non può essere il puro e semplice essere uno di fronte all’altro (fisicamente) l’essenza dell'insegnamento, perché esistono numerosissime forme di rapporto di questo tipo (ossia di situazioni in cui i corpi si fronteggiano a distanza ravvicinata, dal prendere un drink al bar allo stare in spiaggia) che sicuramente non sono qualificabili come ”insegnamento” o ”didattica”: è quindi evidente che ciò che qualifica l’insegnamento/apprendimento come tale è qualcos’altro, e se è qualcos'altro non è detto che debba per forza verificarsi solo in presenza (presenza fisica, intendo, in uno spazio fisico condiviso). Si risponderà: no, l’essere in presenza è solo una “condizione di possibilità” della didattica autentica. Appunto: quindi l’essenza della didattica autentica è qualcosa d’altro.
Proviamo ad affrontare la questione da un altro punto di vista ancora.
Esiste certamente una sorta di “moral suasion” che deriva da un processo di imitazione, anche inconscia. Io insegnante, che lo voglia o no, semplicemente per il fatto di essere inserito in una rete di relazioni umane ben precisa come è quella che si realizza a scuola, vengo presentato agli studenti come un “modello”, come un “punto di riferimento” (uso queste parole in senso neutro, senza quella sfumatura positiva che viene dal considerare il “modello”). Questo legame particolare a quanto pare si attiva grazie ai cosiddetti “neuroni specchio”, che ci spingono a imitare il comportamento di chi ci sta di fronte, interiorizzando quindi la passione e l’interesse del docente per quello che sta spiegando. Questa moral suasion, questa guida più o meno empatica sembra difficile da far vivere attraverso il medium elettronico, perché chi guarda non vede una persona, ma una immagine su uno schermo.
D’altra parte, questa dinamica innescata dall’essere in presenza non è necessariamente di segno positivo: noi insegnanti possiamo risultare anche noiosi, antipatici, insopportabili, odiosi e provocare una reazione di rigetto nei ragazzi che abbiamo di fronte. Tutti i supposti benefici della “lezione in presenza” se ne vanno a farsi benedire se io insegnante la trasformo in una tortura per i ragazzi. Certo, agli studenti rimangono i benefici della relazione tra pari, posto e non concesso che siano di segno positivo e non, anch’essi, elementi di sofferenza (come le esperienze di bullismo ci ricordano).
La conseguenza di tutto questo è che non la lezione in presenza in quanto tale è ciò che dobbiamo cercare, ma la lezione “ben fatta”: che evidentemente è cosa diversa.
Torniamo alla nostra analisi fenomenologica della lezione in presenza. Se il compito di un insegnante al liceo è quello di aiutare i suoi studenti a formarsi una visione del mondo, è essenziale per ottenere questo risultato essere in presenza? Cosa c’è, nella lezione in presenza, che la qualifica come il modo “autentico” di formare le persone?
È certamente vero che quando sono in classe e guardo un ragazzo il mio campo percettivo (visivo e uditivo) si allarga a tutta la classe, senza salti o spazi mancanti, nella classica struttura gestaltica oggetto-sfondo. Perciò mi accorgo, guardando Ermenegildo, che Genoveffa sta tirando fuori il cellulare e, senza distogliere lo sguardo da Ermenegildo, posso richiamare la signorina in questione con i toni che la situazione mi suggerisce (ironici, seccati, decisamente arrabbiati), provocando così la reazione ma-come-ha-fatto-prof? che tutti gli insegnanti conoscono bene. Questo giochino, se cerchiamo di farlo stando dietro le webcam, naturalmente non funziona. Questo è particolarmente evidente al momento della valutazione, soprattutto orale. Io stesso per moltissimo tempo ho sostenuto che ci sono due cose sulle quale lo studente non può barare al momento dell’interrogazione: lo sguardo e il tono di voce. Implicitamente ammettevo così che la mia valutazione dipendeva (dipende) da una serie di parametri “olistici” non oggettivabili né misurabili, per i quali il fattore chiave era (è) la mia stessa persona, la mia formazione, la mia costellazione di valori. Tutti parametri testati durante la mia formazione e certificati, una volta per tutte, con un esame (severo, bisogna riconoscerlo, a cui però non è seguito nulla) circa 35 anni fa. Indubbiamente tono di voce e sguardo sono difficili da valutare attraverso la webcam (lasciando da parte per un attimo la questione dei possibili suggerimenti o dei possibili testi o appunti che lo studente si tiene sottomano). È proprio il medium che seleziona certi stimoli creando un certo campo percettivo, diverso da quello che si ha in un'esperienza “dal vivo”: è per questo che in molti, anche all’università, si è cercato di porre rimedio usando una seconda webcam (magari quella del cellulare dello studente) per avere una ripresa di controcampo e quindi avere maggiormente sotto controllo la situazione.
Ecco, siamo incappati quasi per caso in una parola che forse ci può aiutare a comprendere meglio la situazione. Questo infatti è (o può essere) il modo in cui un insegnante si rapporta con i suoi studenti in classe: “tenere sotto controllo la situazione”. Non voglio qui dare un senso “poliziesco” a queste parole, o almeno non solo. Bisogna seguire le sfumature della lingua. Dire che il docente vuole “avere il controllo della situazione” è troppo ambizioso: vorrebbe dire che io insegnante intervengo in ogni minimo dettaglio della vita della classe durante la mia ora, ispezionando tutto e dominando tutto. L’espressione “tenere sotto controllo la situazione” invece mi sembra che, anche linguisticamente, implichi proprio l’idea cara alla fenomenologia dell’ “avere-alla-mano”, dell’ “avere-a-disposizione” qualcosa che sta sullo sfondo (e quindi non è al centro esatto dell’attenzione) ma che può essere facilmente recuperato. Io spiego la dialettica trascendentale di Kant o la dinamica di lunga durata che si innesca all’inizio del secolo breve, ma “tengo-sullo-sfondo”, e quindi “sotto controllo”, immediatamente disponibili, una grandissima quantità di fattori e di elementi: i volti degli studenti, il loro atteggiamento corporeo (lean forward /lean back, per esempio), la direzione degli sguardi, eventualmente il flusso della loro scrittura, i bisbiglii che si passano tra loro, e così via fino alla domanda esplicita dello studente e al dialogo che ne può scaturire. È una forma di presenza attenuata ma realissima: presenza di sfondo, appunto, che in ogni momento può sbocciare ed essere portata in primo piano. È ciò che rappresenta la ricchezza della lezione in presenza: le potenzialità che si rinnovano ogni volta di un'apertura diversa, di un manifestarsi diverso delle persone che mi stanno davanti.
Attenzione: prima di esclamare trionfanti “Ecco! È proprio quello che dicevo io! La lezione in presenza è meglio di quella a distanza! Discorso chiuso, spegnete i computer e aprite i quaderni”, prima di saltare a questa conclusione, dicevo, vi inviterei a riflettere sul fatto che quello che ho descritto è solo una potenzialità. Non è affatto detto che automaticamente la lezione in presenza sfrutti queste situazioni di sfondo per portarle in primo piano. Tutto questo fiorire di opzioni e di prospettive diverse che entrano in costruttiva relazione reciproca non sono affatto cose che avvengono da sole. La possibilità che il delicato e fragile ventaglio delle opzioni (il dialogo docente-studente) si chiuda fino ad assomigliare molto a una rigida bacchetta (lezione versativa unidirezionale) sono al contrario molto alte, per una elementare questione di risparmio di energie. Di nuovo, non è il fatto di essere in presenza che rende una lezione “una buona lezione”, ossia una lezione efficace dal punto di vista comunicativo. Anche nella lezione in presenza la tentazione del trincerarsi dietro l’ “ipse dixit” (“è così, punto; ed è così perché lo dico io” ovvero “perché c’è scritto su manuale”, di cui il docente si fa portatore e mero trasmettitore) è sempre presente perché è infinitamente più comoda in termini di risparmio di tempo e di energie (dell’insegnante): da questo punto di vista la lezione a distanza non è poi così diversa da una lezione in presenza in cui il docente parla dalla cattedra per cinquanta minuti e poi se ne va.[2] In fondo, se è vero che il docente che arriva nelle case con una videolezione in cui una voce commenta un Power Point assomiglia tanto a Pitagora che parla da dietro la sua tenda, la sua variante in classe che trasmette il suo messaggio in modo unidirezionale verso la platea di studenti costretti a ricevere passivamente le informazioni non è poi tanto diversa né tanto migliore.
Resta il fatto che durante la lezione in presenza il docente può esercitare il controllo sugli studenti in modalità che la didattica a distanza appiattisce, sfuma o annulla del tutto. Quante volte abbiamo sentito dire che gli studenti in una lezione a distanza possono “spegnere la webcam con la scusa della connessione che salta”, “possono guardare le chat su WhatsUp”, “«possono caricare come immagine del proprio profilo una foto presa con la webcam in modo da dare l’impressione di esserci mentre si stanno facendo gli affari loro”? Con ciò siamo tornati alla questione del controllo. In una lezione a distanza l’insegnante non ha il controllo della classe, né dei singoli studenti. O meglio, il suo potere di controllo diretto si indebolisce, proprio in virtù o a causa del medium: quel controllo (vorrei evitare di dire «potere», nonostante tutto) che in modo automatico gli viene dato dalla configurazione fisica e corporea che si ha nelle aule tradizionali, con gli studenti allineati di fronte a una cattedra che rappresenta il punto di fuga prospettivo dell’attenzione, non c’è più proprio perché non c’è più l’aula (intesa in senso fisico). In realtà, come abbiamo già detto sopra, la tecnologia potrebbe supplire, e in modo ancora più pervasivo realizzando uno scenario da “grande fratello” in cui ogni attimo della vita dello studente potrebbe essere ripreso e riportato al docente. Questa considerazione, a prescindere dalla massa di problemi legali e giuridici connessi al tema della privacy, ci riporta al nocciolo della questione: nella didattica a distanza gli studenti sfuggono al normale controllo che gli insegnanti esercitano su di loro, e devono essere in qualche modo “riconquistati” in altro modo.
Ma in presenza, si dice, “gli studenti possono fare domande”, “possono far vedere l’esercizio che non viene”, “possono chiedere di ripetere un pezzo di spiegazione che non hanno capito”: in altre parole, in presenza c’è una interazione tra docente e studente che a distanza non c’è. Ma quale di queste azioni non può essere fatta anche attraverso i moderni sistemi di videochat (al netto, come abbiamo detto all’inizio, dei problemi di connessione)? Zoom, Jitsi, TheBigBlueBotton e altri possiedono tutti la funzione “raise hand” per richiamare l’attenzione del docente e chiedere di avere la parola per fare una domanda; e tutti i sistemi dispongono di un chat testuale che, di fatto, svolge la stessa funzione. Al limite, anche senza avere a disposizione tavolette grafiche o sistemi di scansione veloci delle immagini, basta che lo studenti posizioni davanti alla webcam il quaderno aperto alla pagina dell’esercizio che non viene perché il docente possa fare una diagnosi e indicare dove sta l’errore.
La differenza tra le due situazioni passa ancora una volta dal corpo. Ogni classe è anche una piccola tribù (o se volete un piccolo villaggio), in cui vale il principio “invasivo” della comunicazione oralista e acustica di cui parlano McLuhan, Ong e la scuola di Toronto. La parola parlata, e a quanto pare solo quella, ha il potere della fascinazione e del «rapimento» più o meno estatico, trascinatorio, nel quale tutti noi cadiamo quando siamo di fronte a una persona che sa veramente parlare. È indubbio che questo modello comunicativo aumenta il senso di comunità, il sentirsi uniti, e sicuramente anche questo è un passaggio importante nella formazione delle persone. Io credo che tutti noi abbiamo fatto, in un qualche momento, l’esperienza del “pendere dalle labbra” di qualche insegnante, con il quale si creava un forte rapporto emotivo. Certamente non è stata una esperienza continua, forse neppure prevalente, ma almeno qualche volta sarà capitato. Tuttavia, come ricorda Walter Ong citando Omero, le parole “sono alate”: volano via, fluiscono fuori dalla coscienza un attimo dopo esservi entrate e non vi lasciano traccia, se non un generico ricordo di un'emozione positiva (o negativa). Se volete esprimervi in modo meno poetico e più vicino alla terminologia della psicologia sperimentale, possiamo dire che vengono cancellate dalla memoria a breve termine prima di essere trascritte in quella a lungo termine. Resta il fatto, vissuto forse da in prima persona, che quando la madre o il padre chiedono, a pranzo: «Che cosa avete fatto di bello oggi a scuola?» la risposta nella stragrande maggioranza dei casi è «Niente»: non solo per pigrizia, non solo per la mancanza di voglia di incominciare una discussione, non solo per mantenere uno spazio privato preservandolo dalla benevola invadenza dei genitori, ma proprio perché non ci si ricorda nulla, anche se poche ore prima eravamo stati attenti e ci sembrava di aver capito tutto.
L’esperienza della tribù compatta il gruppo, ma non è detto che automaticamente si traduca in educazione (acquisizione di valori), istruzione (acquisizione di conoscenze), formazione (acquisizione del saper fare). Di nuovo, non è detto che automaticamente la lezione in presenza si traduca in una «buona lezione» per il semplice fatto di essere in presenza.
L’obiettivo dell’insegnamento è quello di formare i ragazzi con una visione del mondo più articolata e aperta possibile, in grado di prendere decisioni e assumersene la responsabilità.
Quello che vorrei suggerire qui, senza minimamente credere di dire qualcosa di nuovo (personalmente sospetto che la storia della pedagogia sia una lunga serie di scoperte dell’acqua calda) è che ciò che è essenziale è la “prossimità” agli studenti, è lo “star vicino” a loro: che non è affatto una questione che si misuri in centimetri, almeno per gli studenti delle superiori. Consiste in una capacità di ascolto, in una disponibilità di tempo, in una apertura alla persona. Paradossalmente potrebbe anche essere che la possibilità del collegamento a distanza, attraverso la videochat, realizzi un equilibrio accettabile tra intimità (io e lo studente siamo soli) e distanza (non siamo fisicamente a contatto; non c’è il rischio di un fraintendimento), quell'equilibrio che serve per il dialogo maieutico. Il dia-logos, ossia il logos (pensiero che manifesta l’essere e che collega gli elementi in gioco) che passa-tra (la particella greca dia-) te e me, è la base di ogni educazione. Non è detto che questo dialogo possa scaturire solo in presenza e dalla presenza. Se scrivo queste cose è perché ho l’esperienza di diversi incontri simili con i ragazzi che preparavano l’esame di stato: la discussione spesso usciva dai binari tecnici dei consigli sulla preparazione e si aggirava invece sul rapporto tra lo studente e la scuola, i compagni, l’università, il futuro. Più di uno al termine della chiacchierata ammetteva che proprio il fatto di aver parlato in quel modo e in quelle condizioni li aveva rassicurati e fatti aprire a dire cose che in classe molto probabilmente non avrebbero confessato.
La pandemia ci ha messo nelle condizioni di sperimentare in modo massiccio il medium elettronico nella didattica, modificando in modo specifico il concetto stesso di “presenza”. Invece di auspicare un ritorno acritico alla situazione pre-covid come se fosse una specie di “età dell’oro” della didattica per il solo fatto di essere nelle aule fisiche, sarebbe opportuno valutare l’impatto che la corporeità ha nel processo di comunicazione (e quindi di apprendimento / insegnamento) e, sull’altro versante, come si possano sfruttare le forme di presenza generate dal medium elettronico per rendere migliore la relazione educativa.
[1] Nell’aula fisica ci si può allontanare dal centro (ossia dal docente) nascondendosi nelle ultime file o applicando noti stratagemmi (sistemarsi nella fila centrale, proprio davanti al prof., così da essere coperto dal compagno davanti). Il docente vede bene i volti dei ragazzi in prima fila, molto meno bene quelli all’ultima. Durante una videochat tutti, anche il docente, appaiono delle stesse dimensioni e sono visibili nello stesso modo (sempre facendo la tara sulle variabili tecnologiche).
[2] In effetti una mia studentessa di quinta al termine del suo percorso nel maggio del 2021 rifletteva più o meno così: “prima venivo a scuola, ascoltavo la lezione, tornavo a casa, aprivo il libro e studiavo; adesso accendo il computer, ascolto la lezione, poi apro il libro e studio”.
Martino Sacchi Laureato in filosofia teoretica presso l’Università Cattolica di Milano nel 1984. Nel 2009 si diploma come Esperto di didattica assistite dalle Nuove Tecnologie presso il Politecnico di Milano. Lo stesso anno apre Il filo di Arianna, Rivista on line per la didattica nelle scuole superiori. Dal 2010 è webmaster per il sito del liceo Giordano Bruno di Melzo. Da 2012 al 2016 è cultore di materia presso la facoltà di Sociologia all’Università Cattolica di Milano. Nel 2015 prende il diploma CLIL presso l'Università Cattolica di Milano. Nel 2013 è tutor per il progetto Bicocca “Distretto Digitale” (corso di formazione per docenti scuola primaria su MOODLE e presso l’Istituto Villoresi di Monza). Nel 2016-2017 tiene cicli di incontri seminariali su Uso di Moodle e delle ICT per la didattica nelle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di 1° grado (Università Bicocca). Dal 2019 è membro del Direttivo della Società filosofica Italiana – Sezione Lombarda. Pubblica i risultati della attività di sperimentazione con MOODLE e in generale le ICTs su Bricks e Media Education.
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