Creonte mai | Creon never
Ad Atene, 442 anni prima dell’era cristiana, viene messo in scena, per la prima volta, lo scontro tra sentimenti e potere.
Sofocle prova a riflettere sulla difficoltà a far convivere le ragioni del cuore e la sicurezza della città.
Abbiamo sperimentato, con il tempo, che in tutte le relazioni (quelle familiari e quelle scolastiche, persino quelle sulla tutela della salute) il potere giustifica il ricorso alla forza nascondendosi dietro lo stato di necessità, non cercando mai un’alternativa allo scontro, addirittura dimostrando che è sempre della parte debole la responsabilità della scelta dell’uso della forza, così carica di conseguenze negative sulla tenuta sociale, qualunque sia la dose a cui si ricorre.[1]
Insomma, il potere punisce chi infrange le regole (non condivise, ma questo si sa, le regole le fa il più forte), ma sostiene che deve farlo solo perché è costretto: in fondo non interverrebbe se i corpi e le menti fossero ubbidienti.
Nessuna divergenza, o nessuna preferenza, nessuna punizione: è tanto semplice.
Basta che nulla venga messo in discussione. La parola d’ordine è adattamento all’esistente.
Il potere non si dà altro strumento che la forza. Lui costringe, ma solo perché si sente a sua volta obbligato. Una logica senza via d’uscita. Una logica senza la possibilità dell’affetto.
Lo scontro, tra padre e figli, tra marito e moglie, tra educatore e educando, tra stato e cittadino, tra medico e paziente, qualsiasi scontro tra ragioni diverse e preferenze diverse, riconduce alla relazione tra Antigone e Creonte, facendo di loro personaggi che occupano la nostra mente ogni volta che il conflitto viene riproposto come unica soluzione.
E naturalmente è anche il tema della utilità o necessità del sistema premio punizione, quello su cui dovremmo riflettere.
Della punizione, intesa come afflizione, desiderio di arrecare dolore, di stabilire gerarchie, che distrugge le condizioni di base per creare relazioni serene, aperte, che diventino il connettivo per una vita sociale da cui la paura viene allontanata, e nella quale tutti si sentono tutelati e aiutati, anche quando sbagliano.
E invece il potere vuole creare l’abitudine a convivere con la minaccia della punizione come possibile forma di riequilibrio di una relazione tra chi ha il potere e chi non ce l’ha.
Esperienza che facciamo fare ai bambini fin dall’inizio della loro vita; e che, in certi casi, i bambini e i ragazzi imparano a utilizzare anche dalla loro posizione debole. Basta solo che decidano di esercitare il potere di farsi del male per fermare chi del male ha sempre fatto, naturalmente, a fin di bene.
In un momento della sua vita Antigone non trova altra possibilità che la simmetria con il potere e subito si vede attribuire il ruolo della ribelle. Il potere non conosce la dialettica che nasce dall’ascolto e dallo stare insieme, sa solo creare scontro.
Fino a quando non ho avuto l’occasione di leggere il saggio di Pepino e Rossi: Il potere e la ribelle[2] un dialogo tra due giudici che hanno animato Magistratura democratica, ho creduto che la tragica vicenda di Antigone nascesse dalla difficile relazione tra chi esercita il potere e chi si ribella, anche se si ribella in modo pacifico, non usando la forza altro che su sé stessa, e non facendo correre alcun rischio agli altri.
Il potere, per far emergere tutta la sua brutalità, usa come giustificazione ogni occasione nella quale qualcuno osa chiedere che venga rispettata la sua libertà di esistere e di soddisfare la sua maggiore, e per il potere insopportabile, necessità di non maltrattarsi o, più spesso, di non maltrattare. La considera semplicisticamente una ribellione.
La storia è nota, ma vale la pena di raccontarla in soggettiva, per provare a capire in quale personaggio ci immedesimiamo (Pepino sceglie Antigone, Rossi prende le parti di Creonte), soprattutto sul piano emotivo e quali conseguenze questa scelta ha nelle nostre vite e nelle vite di coloro che dipendono da noi.
Antigone, la giovane figlia di Edipo, ha avuto una vita terribilmente difficile.
Ha imparato ad adattarsi a tutto quello che il mondo degli adulti le imponeva: un padre, che è suo fratello per parte di madre, che passa dall’essere un eroe, amato da tutti, a riconoscere sé stesso come pericolo mortale per la sua città.
Ha avuto come madre sua nonna, che aveva dovuto ingannare suo nonno, Laio, approfittando della sua ubriachezza nell’intimità, per riuscire a restare incinta di Edipo.
Non ha mai conosciuto suo nonno, che prima aveva tentato di far morire il proprio figlio, suo padre, appena nato, e poi era stato ucciso da lui, dopo averlo provocato per una questione di precedenza.
E dopo tutto questo non ha altra scelta che diventare la compagna di sventura del padre che si acceca.
Non ha potuto scegliere nulla, non ha potuto coronare il suo desiderio di amare. Ma, nonostante tutto, sta al mondo con infinita pazienza.
La vita degli altri non le risparmia nulla.
In un’altra tragica giornata della sua vita, i suoi due fratelli, Eteocle e Polinice, si sfidano a duello per risolvere un problema di potere (non ha funzionato il loro progetto di alternarsi, un anno per uno, alla guida della città ed Eteocle ha allontanato con la forza Polinice. Quest’ultimo, per riprendere il potere, è tornato ad assediare Tebe con l’aiuto dell’esercito di Argo).
Muoiono entrambi.
Antigone prova un dolore immenso, possiamo immedesimarci in lei.
Ma le cose vanno diversamente per tutti gli altri, compreso Creonte.
Posso sentire e vedere il pubblico sugli spalti della città: fa il tifo, parteggia per Eteocle, maledice Polinice. Non capisce, non è pronto a capire che niente di buono può venire da quello scontro, chiunque sia il vincitore. La loro situazione emotiva è sterilizzata: si compartono come se tutto quello che è successo prima non dovesse avere ripercussioni. Per loro la vita continuerà uguale a prima, poiché non esiste un altrimenti e neanche un altrove. Per il potere la situazione è questa che abbiamo sotto gli occhi e non si può trovare altra soluzione che quella dettata dalla forza.
L’unica persona capace di dolore, l’unica capace di percepire l’immane tragedia che sta sconvolgendo la vita di tutti, l’unica che ha una sensibilità umana, è Antigone.
È già sola, vive in disparte, impotente. Nel silenzio dello stupore. Non ha più lacrime da versare. Sente che quello che sta accadendo è troppo anche per lei che troppo ha già dovuto sopportare.
Ci sono cose alle quali non si può sopravvivere, ci sono mondi nei quali non si vuole continuare a vivere. C’è un minimo al di sotto del quale non si può andare, neanche 2400 anni fa.
Nel suo ultimo romanzo[3], Macchine come me, Ian mcEwan parla di automi, androidi simili in quasi tutto a noi, progettati da Alan Turing che nel romanzo non solo non si è suicidato, ma vive felicemente sposato con un fisico che ha vinto il premio Nobel. Turing ha condotto a buon fine i suoi studi sull’intelligenza artificiale e nel 1982 è riuscito a rendere disponibili sul mercato dodici Adam e tredici Eva.
Due di questi androidi, due Eva, non credo sia un caso, si suicidano, abbracciandosi nel momento finale della loro vita, perché non riescono ad accettare la disumanità degli umani.
Per Antigone quelli che stanno tentando di uccidersi sono suoi fratelli, e, per lei, non esiste distinzione tra buono e cattivo: non vuole che uno sopravviva e l’altro muoia. Non vuole vederli morire.
Creonte, che pure è loro parente, questa distinzione invece la fa: si sa, gli adulti sono abituati a giudicare e a sapere qual è la parte giusta.
Lei non giudica: sono entrambi morti.
Ed è di fronte alla morte che il potere manifesta il peggio di sé.
Creonte decide che siano fatti funerali di stato, con tutti gli onori che si devono a chi è morto per la patria, per Eteocle.
E su questo nessuno può avere niente da ridire: niente come i morti, e i morti per la patria, fanno sentire i cittadini uniti, motivati a stare insieme, orgogliosi di proteggere la propria polis.
Poi Creonte fa una cosa che non ha niente a che vedere con l’interesse e la protezione del benessere comune: decide che Polinice non debba essere seppellito, e che chiunque venga colto nell’atto di provare a farlo, debba essere punito. Non solo, ma minaccia di esemplari punizioni i propri sgherri, persino loro più umani di lui, se non faranno rispettare il suo editto.
Lei che ha accettato tutto, che ha chinato la testa sempre, decide che questa volta è troppo.
Non cederà di un passo: vuole seppellire anche Polinice.
Cosa dice il decreto di Creonte? Per cosa è stato pensato? Al benessere di chi si riferisce la legge che crea Creonte? A chi renderà la vita più facile e sicura? Ai suoi concittadini? A suo figlio? A sua moglie? Oppure a sua nipote?
A nessuno.
Creonte pensa solo a sé stesso, al suo ruolo, alla sua immagine.
Pensa a farsi bello, a dire quanto è bravo e affidabile. Pensa al pericolo che ha corso e vuole semplicemente vendicarsi. Lui può farlo: ha il potere.
Spiega quanto bene farà alla sua città e intanto nasconde ciò che è ovvio a tutti: la sua decisione è condizionata dal desiderio di vendicarsi, anche del cadavere del nemico.
Queste sono le parole che Sofocle fa pronunciare a Creonte:
Chi poi mette l’amico al di sopra della patria, costui, io dico che non è degno di esistere. Zeus, che tutto vede nel tempo, oda questo: se in luogo della salvezza io vedessi la rovina sovrastare ai cittadini, non tacerei; né amico sarei giammai di un uomo nemico della mia patria, perché nella patria risiede la salvezza.
E se questa nave guideremo per la giusta rotta, da ogni parte incontro ci verranno gli amici.
Tali norme perseguendo eleverò lo stato. Ed ecco il mio decreto, che a tali norme si adegua, riguardo ai figli di Edipo.
Eteocle morto avanti a tutti col ferro in pugno, da prode, per la sua terra, sia chiuso nella tomba; a lui si facciano offerte, quelle sacre che laggiù discendono, ai morti buoni.
Il fratello suo, Polinice dico, l’esule ritornato che tentò di svellere la terra dei padri e i divini aviti simulacri, e volle abbeverarsi del sangue comune, e noi tutti piegare a servitù, non abbia né sepolcro né pianto: il suo corpo sia preda, ai cani e agli uccelli, orrenda.
Questo è il mio giudizio. I perversi, almeno da me, non avranno mai il rispetto dovuto ai giusti.
Ma chi ama la sua patria morto o vivo sarà da me parimenti onorato.
Ancora oggi, a immaginare di ascoltare dal vivo questo discorso, da cittadino che ha subito un assedio, che ha visto morire molti per la difesa della città, che ha patito una riduzione della sua libertà di muoversi, che ha considerato ingiusta e disumana una guerra, come ogni guerra, ma questa ancora di più perché scatenata da due fratelli, mi ritrovo a pensare che non posso fare a meno di stare dalla parte di Antigone, del suo impegno a lenire il dolore, a stargli accanto, non ad aumentarlo.
Leggendo Il potere e la ribelle mi sono reso conto che la tragedia non è tra le ragioni dell’affetto e quelle della polis, non è quella che nasce intorno allo scontro tra Antigone, come persona, e Creonte, come persona.
La tragedia viene partorita da chi ha il potere (il potere rende la vita di tutti una tragedia), e mette radici molto prima di quello che succede nella relazione tra Antigone e Creonte.
La possibilità di scelte tragiche nasce nel modo in cui Creonte affronta la sua vita. I suoi affetti, i suoi preconcetti sulle donne. Creonte non ammette che le regole, le leggi, servano a rendere la vita più facile, migliore la convivenza. Lui conosce solo l’inflessibile linguaggio del controllo, della punizione, del dare l’esempio che ammaestri i cittadini: domare, castigare.
Creonte ha dimenticato il dovere di trattare umanamente, non sa cosa significa immedesimarsi.
Ha fatto una legge iniqua, una legge solo vendicativa.
Non si interroga su quali saranno le conseguenze, perché, come chi esercita il potere, si sente al di sopra delle conseguenze.
Il diritto, o il dovere, di continuare a essere umani: questo vuole rispettare Antigone.
Non arretra di un millimetro, di fronte a chi ha la forza per minacciarla e ha il potere di privare chi è debole, impotente, privo di risorse (proprio perché è morto) del suo diritto di essere trattato da essere umano.
I comportamenti che apparivano particolarmente riprovevoli ai greci antichi sono tre (tanto da essere maledetti dai Bouzygai, ovvero “coloro che aggiogano i buoi”[4], sacerdoti che ogni anno facevano un’aratura sacra, per propiziare un raccolto generoso): negare fuoco e acqua a chi ne faceva richiesta, non mostrare la strada agli erranti, lasciare insepolto un cadavere.
La domanda allora è: può la legge rendere legale la vendetta?
Un’azione di questo genere, da parte del comune cittadino, verrebbe considerata un reato.
Ma se a promulgarla è il re, lo stato, il legislatore, il padre, l’educatore, allora va rispettata, pena la morte.
Antigone non si ribella alla legge, ma alla vendetta divenuta legge.
Che Creonte sia animato da uno spirito vendicativo lo si percepisce nell’accanimento che mette nella ricerca del colpevole.
Dice Pepino, da giudice che non vuole seguire le impronte di Creonte, che il re avrebbe potuto, senza rinnegare il suo editto e mantenendo ferma la punizione per la sua violazione, attenuare la pena in considerazione del vincolo di parentela tra Antigone e Polinice.
Creonte no.
Alla fine Creonte viene minacciato da Tiresia, che parla il suo linguaggio.
“Il male di cui soffre Tebe deriva dal tuo volere.”
E ancora: “Cedi dunque al morto; risparmia un caduto. Quale prodezza è uccidere una seconda volta un caduto?”
E di fronte alla sordità di Creonte, del potere, ecco la minaccia:
“In breve tempo lamenti di uomini e di donne risuoneranno nella tua casa”.
Obtorto collo (“Ahimè, rinuncio ai miei piani, mio malgrado, contro il destino è inutile lottare”) torna sulle sue decisioni.
Ma è troppo tardi, la tragedia è compiuta: Antigone si è suicidata. Poi si suicida Emone, alla fine Euridice.
Non è un caso che a rimanere vivo sia solo Creonte. Perché Creonte non muore mai. Continua a condizionare la nostra vita con la sua rigidità, la sua sicurezza, la sua sordità.
Per questo non posso stare dalla parte di Creonte, non me ne vorrà il giudice Rossi, non voglio correre il rischio di comportarmi come lui.
Io voglio costruire un mondo nel quale Creonte non la fa da padrone, piangendo amare lacrime da vivo, dopo aver scelto di essere schiavo del suo ruolo e aver fatto una strage di persone che avrebbero dovuto essere a lui care.
C’è uno spazio, una possibilità per riflettere e creare un governo mite della società.
La scuola.
Finalmente pensata non come una istituzione che garantisce la trasmissione del sapere assegnando compiti e valutando i progressi, nella quale il confine tra chi insegna e chi apprende è ben tracciato, secondo logiche di potere per le quali noi spieghiamo e voi studiate per conto vostro.
La scuola che si fa carico di escludere il maltrattamento dalle relazioni, perché è a scuola, oltre che in famiglia, che i ragazzi imparano la relazione con gli altri, con il sapere. Ma soprattutto con sé stessi.
La scuola che non accetta come fisiologico perdere ragazzi per strada, o creare un malessere interiore, che considera inevitabile, per far raggiungere agli studenti quegli obiettivi che poi va a misurare.
Il disastro di una cattiva relazione con sé stessi, i danni che fa il potere sulla capacità di trattare bene se stessi, li valuterà un altro specialista, l’esperto di sofferenze non oggettivabili.
Occorre fare in modo che la scuola diventi uno spazio relazionale che ha a cuore sapere come stanno i ragazzi e che ponga come obiettivo della sua ricerca cosa possiamo fare, insieme, per creare benessere, serenità, piacere di stare insieme, rapporto curioso, possibile con l’apprendimento.
Perché è a scuola che si crea la possibilità di diventare o non diventare Creonte, e di non obbligare Antigone a divenire testimone dell’impossibilità di sopravvivere accanto a persone che non hanno imparato, a scuola, a rispettare le preferenze individuali.
Bibliografia
McEwan I., Macchine come me, Einaudi, Torino 2019.
Bettini M., Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019.
Palma R., Qual è la dose minima di maltrattamento accettabile, in “Educazione democratica”, n. 6, 2013, pp. 180-189
Pepino L., Rossi N., Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2019.
Renato Palma. Medico e psicoterapeuta, partendo dalla ricerca di un modello non conflittuale e non autoritario nella relazione inter e intrapersonale, considera fondamentale un cambiamento del rapporto tra adulti e giovani, riflette sulle dinamiche di potere all’interno del momento educativo e sul loro travaso nella terapia. Pubblica nel 1983 Malattia come sogno sulla relazione tra medico e paziente. Nel 2002 scrive un saggio sul paradosso della felicità nelle società ricche (Economia e felicità, una proposta di accordo in collaborazione con Stefano Bartolini in Economia come impegno civile, Città Nuova Ed.). Nel 2009 pubblica I sì che aiutano a crescere, edizioni ETS.
[1] R. Palma, Qual è la dose minima di maltrattamento accettabile, in “Educazione democratica”, n. 6, 2013.
[2] L. Pepino, N. Rossi, Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2019.
[3] I. McEwan, Macchine come me, Einaudi, Torino 2019.
[4] M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019.