Analfabetismo funzionale: definizioni e problematiche. Verso una prospettiva critica | Functional illiteracy: definitions and problems. Towards a critical perspective
C Secci, Analfabetismo funzionale: definizioni e problematiche. Verso una prospettiva critica, in “Educazione Aperta” (www.educazioneaperta.it), n. 9 / 2021.
PDF: DOI 10.5281/zenodo.5166453
In questo testo ci si propone di affrontare, dapprima in termini descrittivi, le definizioni e i concetti fondamentali legati all’analfabetismo funzionale, per poi provare a sviluppare, nella parte conclusiva, alcune annotazioni critiche intorno al tema. L’approccio utilizzato è quello della riflessione teorica e fa riferimento a una bibliografia incentrata prevalentemente sulla ricostruzione storica e prospettica del rapporto tra analfabetismo funzionale ed educazione degli adulti.
La situazione dell’Italia
Secondo le statistiche ufficiali, l’Italia è agli ultimi posti, tra le nazioni dell’area geografica europea, per il tasso di analfabetismo funzionale, il quale raggiunge, nelle rilevazioni più recenti, una percentuale del 28%, vicina a quella della Spagna. Questa condizione riguarda le persone che sono incapaci di comprendere testi anche semplici e che non sanno utilizzare le informazioni che ne ricavano. Anche dal rapporto di agenzie che indagano specificamente sul problema, risulta che il tasso di alfabetizzazione funzionale e di “alfabetizzazione matematica” (numeracy) italiano è “significativamente inferiore” alla media OCSE. Si rileva anche il fatto che, nonostante le negatività, il divario tra Italia e altri paesi è diminuito; che le donne hanno recuperato rispetto agli uomini, e sono, ad oggi, tanto competenti quanto essi e anche di più e anche nella popolazione dei migranti risultano competenze maggiori da parte delle donne. Le competenze dei migranti sono fortemente correlate con il numero di anni di presenza nel Paese e con l’età anagrafica nella quale sono migrati, nel senso che chi ha intrapreso il percorso migratorio da giovane, risulta essere più competente; inoltre, occorre tener presente che molti migranti hanno qualifiche elevate nel paese d’origine e spesso queste non possono essere automaticamente tradotte e valorizzate nel paese d’accoglienza, il che può far presupporre che tra la popolazione migrante siano segnalati più “analfabeti funzionali” di quelli che nella realtà sono presenti.
Dati negativi risultano rispetto al divario geografico interno al Paese, là dove il Sud e le Isole manifestano dei livelli di alfabetizzazione funzionale minori rispetto alle altre aree. Tale dato contiene un’importante particolarità, che è significativa rispetto alla ratio della rilevazione: non è tanto la presenza di analfabeti funzionali, elevata, ad esempio, nel nord est come nel sud, a determinare l’entità del divario, quanto l’assenza di persone “altamente competenti”, nel Sud e nelle Isole.
Permangono, inoltre, dati piuttosto gravi nell’alfabetizzazione dei NEET (i giovani non impegnati nell’istruzione, nel lavoro e nella formazione), dei pensionati, delle persone che svolgono un lavoro domestico non retribuito, dei disoccupati di lungo corso.
Analfabetismo funzionale/analfabetismo primario: cenni storico-tematici
Storicamente emerge, quindi, una distinzione tra la mera capacità di leggere, scrivere e fare calcoli elementari (alfabetizzazione primaria) e la capacità di mettere tali competenze fondamentali in connessione con dei significati e delle “utilità” della propria vita (alfabetizzazione funzionale).
L’alfabetizzazione primaria può essere definita come la capacità di collegare grafemi e fonemi e di collegare sequenze alfabetiche e la conoscenza di fondamentali regole combinatorie e ortografiche. Scrivere, inoltre, richiede competenze che potrebbero definirsi “raffinate”, quali quelle di sintetizzare, esprimere e organizzare un testo in modo da “anticipare” i bisogni di comprensione del lettore.
Richiamando alla mente il significato di analfabetismo primario, si nota come L’UNESCO dia dell’alfabetizzazione primaria questa definizione: “È alfabeta una persona che sa sia leggere sia scrivere, comprendendolo, un semplice asserto, relativo alla propria vita quotidiana”. Questa definizione è importante perché estende i confini dell’alfabetizzazione primaria rispetto a un contesto storico nel quale essa era considerata la capacità del soggetto di scrivere il proprio nome. Ma il riferimento alla vita quotidiana ci trasporta in un territorio semantico nel quale dobbiamo intendere l’alfabetizzazione, per considerarla tale, come in rapporto a un utilizzo che la persona può fare della letto/scrittura e della capacità di calcolo e questo è molto importante per giungere a una definizione di analfabetismo funzionale. Infatti, come riporta ancora Minuz: “Un individuo è funzionalmente analfabeta quando non può partecipare a tutte quelle attività in cui l’alfabetismo è necessario per il funzionamento efficace del suo gruppo o della sua comunità ed anche per permettergli di continuare ad usare la lettura, la scrittura e le abilità di calcolo per il proprio sviluppo e quello della comunità”.
Sono compresi, nella definizione dell’UNESCO di analfabetismo funzionale, tre aspetti:
Il grado di alfabetizzazione funzionale di un soggetto comprende anche una fondamentale competenza aritmetica;
Esso si correla sempre al contesto (comunità, società) di vita del soggetto;
Esso si correla alla capacità del soggetto di fare uso dell’alfabetizzazione in modo diacronico, ovvero dando continuità alle proprie capacità e competenze.
Innanzitutto, sono tracciate, nella definizione di analfabetismo funzionale, due grandi prospettive dell’educazione degli adulti: una incentrata sui saperi dell’individuo come diritti individuali e sociali; l’altra incentrata su di essi come funzionali a un “uso” del soggetto nella produzione sociale. La distinzione, per noi così ovvia, è emersa nel tempo, infatti, fino agli anni Sessanta, è esistita soprattutto una definizione “tecnica” di alfabetizzazione, che non teneva conto dell’elemento, appunto, funzionale. L’analfabetismo funzionale, in tal senso, si misura anche in termini storico/geografici, rispetto ai quali risulta una definizione mutevole e da leggere, appunto, in senso diacronico: negli anni Ottanta emerge, infatti, nei paesi industrializzati a scolarizzazione pressoché universale e si ripresenta all’inizio degli anni 2000 (secondo un report dell’OCSE) dove emerge che gli adulti italiani manifestano già un tasso di analfabetismo elevato, nel contesto di una società altamente tecnologica.
Ciò che fa emergere l’analfabetismo funzionale in una società è lo scomparire di realtà economiche che si reggevano anche attraverso una forma di semianalfabetismo, nella quale era sufficiente anche che solo alcune persone sapessero leggere. In una società altamente tecnologizzata, al contrario, la stessa nozione di analfabetismo nella sua staticità perde di valore; si sviluppano fenomeni di analfabetismo di ritorno dovuti al non esercizio, nel tempo, della letto/scrittura e si genera la necessità, legata alla multimedialità, di padroneggiare diversi alfabeti.
Emerge la necessità di alfabetismi multipli, intesa non solo come pluralità di alfabeti da conoscere e gestire contemporaneamente, ma anche come compresenza di concezioni diverse dell’alfabetismo, concetto cruciale nella storia dell’educazione degli adulti e dell’educazione interculturale. Questo contesto comporta un rischio di esclusione per un’ampia fascia di popolazione, che va ben oltre l’area degli analfabeti funzionali intesi in senso “stretto”.
Nel contesto anglofono, il manifestarsi di una distinzione tra i concetti di alfabetizzazione primaria e funzionale è talmente importante da richiedere due termini: come ha scritto Aureliana Alberici, la definizione di literacy, diversamente da quella di alphabetization contiene quelle connotazioni funzionali che sono presenti nella definizione dell’UNESCO che si è osservata precedentemente. L’autrice, tuttavia, argomenta il fatto che il concetto di alfabetizzazione funzionale assume un’importanza tale da estendersi a quello di alfabetizzazione tout court, quasi come se non potesse esserci vera alfabetizzazione se non in un contesto di “messa in opera” delle competenze alfabetiche stesse.
In tal senso, si è potuto parlare di tre modelli di alfabetizzazione:
Quello formale, legato a un concetto tradizionale d’istruzione e conoscenze di base;
Quello consapevolizzante, direttamente legato alla teoria di Freire, che visualizza l’alfabetizzazione come processo di profonda presa di coscienza;
Quello funzionale, per l’appunto, legato a una critica dell’alfabetizzazione di massa, rivolta a tutti e a nessuno, scollegata con esigenze e peculiarità degli alfabetizzandi.
È, poi, lo stesso modello funzionale ad andare incontro a un’aspra critica, giacché esso risulta eccessivamente orientato all’ottenimento della produttività lavorativa ed economica da parte del soggetto, il quale, pertanto, non è messo nelle condizioni di orientare il proprio sviluppo culturale verso obiettivi autonomamente determinati.
Questa critica, come scrisse anche Lorenzetto, fu portata in sede internazionale soprattutto dai cosiddetti paesi emergenti, che, sulla scia dell’opera di Paulo Freire, la cui Pedagogia degli oppressi era stata diffusa negli anni precedenti, rivendicarono un’alfabetizzazione culturale. L’autrice, come si è rilevato anche in un altro lavoro, mise pienamente in luce il carattere ambiguo dell’alfabetizzazione funzionale, che scaturiva da una condizione di inadeguatezza alfabetica di ampia parte della popolazione mondiale, ma era orientata ad accrescerne l’istruzione solo verso un adeguamento condizionato ad interessi ad essa sostanzialmente estranei.
Anche oggi non si può pensare l’educazione degli adulti se non come intrecciata al concetto di analfabetismo funzionale e sconfiggere l’analfabetismo funzionale è da considerarsi uno degli obiettivi primari dell’educazione degli adulti.
In corrispondenza con una concezione dell’analfabetismo funzionale come qualcosa di relativo e che si esprime per vari livelli, si aggiunge al concetto di alfabetizzazione funzionale la connotazione di un sapere in grado di decifrare “linguaggi” più specifici, saperne inserire i testi nei contesti loro propri. L’alfabetizzazione funzionale richiama il concetto dell’“in funzione di…”; l’alfabetizzazione emotiva, ad esempio, rappresenta la capacità di comprendere e connettersi con le emozioni altrui facendo uso di quella che si definisce “intelligenza emotiva”, mentre, su un versante differente, l’alfabetizzazione informatica rappresenta la capacità di decifrare i codici del linguaggio informatico. La specificità dei differenti linguaggi diviene manifesta quando si riflette sulla difficoltà che persone anziane di grande cultura, quindi dotate di una piena alfabetizzazione (primaria e funzionale, in tal caso), appaiono in difficoltà di fronte ai linguaggi informatici e digitali.
Martha Nussbaum, dal canto suo, aveva invece individuato nei saperi umanistici i linguaggi-chiave per lo sviluppo e il progresso della società e per l’economia orientata alla democrazia e non al profitto. Traducendo il suo pensiero con termini legati alle problematiche dell’alfabetizzazione, potremmo dire che l’alfabetismo funzionale è quel tipo di istruzione/formazione che vede la preminenza di saperi trasversali, “collanti”, che travalicano l’istruzione di base e specialistica ma consentono di metterla in connessione con altri saperi specifici. Anche in tal senso l’alfabetizzazione non è un insieme di nozioni che si possiedono stabilmente una volta acquisite, ma un insieme di nozioni che vanno continuamente rielaborate e intrecciate con la propria esperienza.
Il problema dell’alfabetizzazione nell’educazione degli adulti
Soprattutto nel nostro Paese l’emergere dell’Educazione degli adulti è storicamente connesso con lo sforzo per risolvere il problema dell’analfabetismo. Anna Lorenzetto, autrice italiana molto rilevante in quest’ambito di ricerca, scrisse che, anche sull’esempio del lavoro sociale di Aldo Capitini, l’Italia “scoprì” la grande emergenza dell’analfabetismo e fece della lotta contro di esso (anche attraverso movimenti come l’U.N.L.A.) il fondamentale obiettivo dell’educazione con gli adulti.
La scoperta dell’analfabetismo si manifestò successivamente, anche in contesti più ampi ed “esplose” nella conferenza mondiale dell’UNESCO di Montreal (1960). Secondo la testimonianza di Lorenzetto, “Quasi un miliardo di analfabeti adulti non solo rappresenta la somma delle statistiche di ogni singolo paese, uomini e donne che coprono la metà della popolazione adulta della terra, ma esprime anche una componente culturale: quella dell’ingiustizia del mondo”. Negli anni che seguirono la conferenza di Montreal, fino al 1966 (Teheran) e al 1972 (Tokyo) la lotta all’analfabetismo divenne una priorità internazionale, ma gli strumenti individuati, ovvero campagne di alfabetizzazione generalizzate e decontestualizzate, portarono alla luce un concetto fondamentale nella definizione di alfabetizzazione funzionale, ovvero: essa non può considerarsi autentica quando non si connette con peculiarità culturali, tradizionali, territoriali del gruppo di persone cui è rivolta. Lorenzetto in realtà non ridusse il suo sguardo pedagogico sugli adulti alla riflessione intorno all’analfabetismo e all’alfabetizzazione, bensì concentrò in queste nozioni un’idea complessiva, “utopica” dell’educazione permanente, quale movimento coordinato del popolo e delle istituzioni che lo rappresentano in sedi internazionali, orientato a obiettivi comuni di progresso discussi e continuamente aggiornati: si trattò, dunque, di un concetto che per l’autrice coincideva, come rimarca Marescotti, con quello di utopia socialista. Per Lorenzetto – come ella ribadì in un’opera successiva a quella prima menzionata – per il soggetto analfabeta, l’alfabetizzazione corrisponde a un modo rinnovato di comprendere la propria esistenza, allargando il proprio sguardo all’ambiente. A questa prima fase segue un secondo passaggio, caratterizzato dalla consapevolezza di vivere l’ambiente stesso insieme ad altri soggetti che sono in esso collocati e collegati con i loro simili, per poi giungere alla piena prospettiva della trasformazione comunitaria dell’ambiente, in una visione che riecheggia fortemente Freire.
L’opera teorico-pratica di Paulo Freire è fondamentale nell’ambito della comprensione dei problemi legati all’analfabetismo; l’autore brasiliano, infatti, mette in evidenza come il processo di alfabetizzazione non possa mai distaccarsi da quello più generalmente formativo, che egli definisce di coscientizzazione. Acquisire la competenza alfabetica, infatti, rappresenta per Freire il dotarsi di un codice comune per esprimere la propria identità individuale e comunitaria. Imparare a leggere e a scrivere ha un valore insieme d’introspezione e di scoperta: è come se leggendo e scrivendo le parole della propria vita, la si osservasse daccapo e la si scoprisse sotto una nuova luce, anche nelle sue drammatiche contraddizioni e condizioni di fragilità. Com’è abbastanza noto, la coscientizzazione è l’obiettivo auspicato che nel “metodo Freire” è preceduto da un’iniziale vera e propria alfabetizzazione attraverso la ricerca di “parole” generatrici e seguito da una fase di post-alfabetizzazione e coscientizzazione consistente nella ricerca dei “temi generatori”. Il processo di alfabetizzazione, per Freire, doveva avere un carattere euristico sin dai primi passi del percorso e vedere un processo di costruzione comune da parte di educatori e alfabetizzandi, che venivano coinvolti in un progetto attivo, in cui il contenuto dell’educazione da nozione sterile si faceva problema.
L’alfabetizzazione doveva avere, per Freire, un vero e proprio valore rivoluzionario perché conferiva alle classi sociali sfruttate strumenti per comprendere la propria oppressione e per agire contro di essa; s’inscriveva, pertanto, nel contesto di una prospettiva pedagogica che riconosceva il suo carattere insieme dialogico e conflittuale, nel senso di un superamento di una pratica educativa orientata al mantenimento del potere costituito. Nell’alfabetizzazione, in Freire più dimensione espressiva dell’educazione che suo settore specifico, viene a cadere la distinzione tra il grado primario e quello funzionale, giacché essa è, innanzitutto, pratica (di acquisizione) della libertà, che, di per sé, travalica l’obiettivo della mera funzionalità.
Nell’evoluzione dell’educazione degli adulti, la teoria freireiana ha avuto un impatto straordinario, soprattutto dal punto di vista epistemologico, giacché fu lo stesso metodo di alfabetizzazione a rappresentare una rottura in questo senso e in senso pedagogico/educativo: tanti autori ne hanno valorizzato le caratteristiche didattiche e il fatto di avere collegato l’educazione/apprendimento degli adulti con l’idea della trasformazione sociale. Raramente, tuttavia, è stata compresa e accolta a pieno, la dimensione sociale e politica radicale dalla quale scaturiva la pratica freireiana.
Alfabetismo e alfabeti
Chiara Biasin mette in evidenza come l’evoluzione dello sguardo sul tema dell’alfabetizzazione, nel pensiero pedagogico e nella teorizzazione dell’educazione degli adulti, abbia segnato una linea che va dalla lotta all’analfabetismo come lotta all’emarginazione sociale di una parte della popolazione a una lotta contro le forme sempre più complesse e insidiose di analfabetismo funzionale.
Attualmente, sotto la lente d’ingrandimento, vi sono, appunto, le diverse forme e manifestazioni dell’analfabetismo funzionale, il problema della disponibilità o dell’indisponibilità, da parte dell’individuo, di diversi alfabeti, in particolare di quelli che si riferiscono a saperi e competenze trasversali, utili per acquisirne di altre, più specifiche.
Come affermato precedentemente, essere alfabetizzati non significa avere conseguito una volta per tutte una capacità alfabetica, bensì avere una capacità di apprendimento e applicazione tale da potersi adeguare a una molteplicità sincronica e diacronica di contesti. Tale condizione è stata in anni recenti definita “apprendere ad apprendere”, ma le sue radici teoriche si collocano nei lontani XV e XIV secolo, nei quali si sviluppò l’influente teoria comeniana della permanenza della formazione e della natura ciclica dell’apprendimento dell’uomo.
L’azione pedagogico/educativa a favore degli adulti analfabeti primari e funzionali, per un’importante fase storica, si è concentrata su un lavoro di tipo compensativo, volto, in parte, a recuperare un certo livello d’istruzione e di qualificazione di persone culturalmente deprivate e tendenzialmente escluse dalla società, impegno che diede vita, soprattutto negli anni Settanta del Novecento alle “Scuole popolari”, ma anche a forme di educazione degli adulti meno alfabetizzati secondo la fruizione dell’arte e in quei linguaggi estetici che, ad esempio, i Cultural Studies, definiscono rappresentativi di un’identità di classe e costitutivi di una cultura popolare.
In un secondo momento tale azione si è accompagnata a una ricerca di strategie che potessero rendere fruibili le nozioni aggiunte in età adulta a quelle già possedute grazie a percorsi, seppur brevi, d’istruzione obbligatoria.
Oggi, nel campo dell’alfabetizzazione funzionale, si tende a far confluire quella molteplicità di saperi ed alfabeti di cui si è detto precedentemente: il test del PIAAC, il programma ideato dall’OCSE per rilevare il tasso di analfabetismo presente nella popolazione adulta delle diverse regioni geografiche, in un certo qual modo, riflette la condizione composita dell’analfabetismo funzionale, suddividendosi in settori che si riferiscono alla comprensione di testi di carattere letterario e di carattere amministrativo/giuridico, alla comprensione matematica e alle capacità di problem solving.
Il problema della rilevazione: uno sguardo critico
Stanti le differenze di misurazione, valutazione e percezione dell’analfabetismo funzionale, sono state prodotte delle griglie di valutazione che partono dal presupposto che non esista una distinzione netta e incontrovertibile tra analfabetismo primario e analfabetismo funzionale, ma semmai gradi diversi di alfabetizzazione che partono da un livello minimo e salgono verso livelli più elevati e complessi. “La literacy – scriveva Alberici – viene qui considerata come una sorta di sequenza continua, articolata in diversi momenti, cui corrispondono differenti livelli di competenza, che permettono di rilevare in quale misura gli adulti sono in grado di servirsi di un testo scritto”.
Occorre, tuttavia, tenere viva la domanda se gli standard individuati come rappresentativi dell’alfabetismo lo siano poi in modo autentico e aderente alla realtà. È anche legittimo chiedersi se, conseguentemente alla problematicità del test, chi viene definito analfabeta funzionale non debba invece essere valutato sotto una luce differente, che possa farne emergere competenze meno visibili e catalogabili, nondimeno funzionali ad affrontare i compiti della vita. Infine, è necessario chiedersi se l’idea di fondo, alla base della valutazione di “funzionalità” sia un’idea co-costruita e realmente congruente con una concezione del benessere non esclusivamente economicista.
Al contempo, è innegabile che il test ideato dal programma PIAAC sia stato funzionale a far emergere alcuni problemi, che possono essere identificati come nodi cruciali nel rapporto tra età anagrafiche e cultura e istruzione. In particolare, gli alti tassi di analfabetismo funzionale riscontrabili in una fascia particolarmente fragile di giovani e in un’altra particolarmente fragile di cinquantacinque-sessantacinquenni, mettono in evidenza quanto l’analfabetismo funzionale sia legato a una carenza strutturale dell’istruzione ricevuta in passato – nel caso degli adulti maturi e anziani – e di quella attualmente proposta nel caso dei giovani. In particolare, quest’ultima condizione richiama a delle responsabilità presenti e future dei sistemi d’istruzione e di formazione.
Alberici proponeva quali linee-guida essenziali per affrontare l’analfabetismo funzionale, delle strategie di tipo diverso: azioni a breve/medio termine dedicate a persone particolarmente fragili dal punto di vista dell’alfabetizzazione funzionale; strategie a medio/lungo termine dedicate alla qualità dell’apprendimento scolastico, vista l’influenza che esso dimostra di avere nella determinazione di situazioni disfunzionali o di analfabetismo di ritorno; strategie di educazione/istruzione/formazione permanente rivolte in particolare agli adulti in ogni situazione e ambito di vita, con particolare sguardo ai genitori e alle famiglie, per la loro funzione educativa.
Se è vero che la formazione degli adulti ha oggi superato il suo carattere episodico, emergenziale, è anche vero che essa non deve mai abdicare alla sua ispirazione fondamentale, legata all’idea della possibilità sempre viva di apprendere e di colmare carenze culturali e d’istruzione che si sono accumulate nel tempo. In soccorso a tale ispirazione vengono decenni di teorizzazione sull’apprendimento adulto, che con Knowles, Kolb, Mezirow (per citarne solo alcuni) hanno argomentato l’imprevedibilità e la permanenza di una disposizione umana a un apprendimento che nell’età matura avviene secondo sue proprie leggi. Gli studi delle neuroscienze, inoltre, definiscono tale disposizione in termini organici e più rigorosamente scientifici.
Non può esserci superamento dell’analfabetismo funzionale se tale processo non è messo al centro di un’azione istituzionale e latamente pedagogica che ne faccia una priorità sociale e comunitaria. D’altro canto, dal punto di vista individuale dell’analfabeta funzionale, un processo di superamento di tale condizione, non può che avvenire attraverso un percorso che coinvolga l’individuo in profondità, che si colleghi ai suoi saperi e valori “storici”, alle sue motivazioni esistenziali (così presenti nella visione di Paulo Freire) e percezioni di sé e del mondo; che non assuma, quindi, esclusivamente una connotazione tecnica e nozionistica ma si inscriva in un più ampio disegno personale di tipo educativo e pedagogico.
Allo stato attuale, sembra emergere una difficoltà a produrre riflessioni estese sulle forme di analfabetismo funzionale, intese come elaborazioni intorno ai dati, i quali sono invece ampiamente reperibili, che potrebbe essere collegata a differenti fattori. Innanzitutto, non potendosi pensare un analfabetismo funzionale che non sia strettamente interrelato alla insufficiente competenza nei linguaggi cui si faceva precedentemente riferimento, la sua stessa definizione va riaggiornata e ricontestualizzata.
Come scrive E. Marescotti, infatti, “[…] a tutt’oggi, i bisogni di alfabetizzazione, strumentale e funzionale, si ripropongono, sia nelle forme tradizionali innescate dal complesso e variegato fenomeno della cosiddetta dispersione scolastica, sia in forme inedite volte a contrastare l’analfabetismo di ritorno e l’emergere di nuovi analfabetismi; le innovazioni tecnico-scientifiche e organizzative, in senso lato, del mondo del lavoro richiedono continuamente l’acquisizione di saperi e competenze; e, analogamente, anche la sfera più privata, quella degli interessi personali, delle relazioni, della cura di sé, ad esempio, risente di quei cambiamenti socio-culturali che caratterizzano la nostra contemporaneità e, di conseguenza, esige un’attenzione formativa specifica”.
D’altra parte, è più probabile che le forme di analfabetismo funzionale siano osservate e affrontate nell’ambito della cura educativa rivolta a persone che sono caratterizzate da condizioni di vulnerabilità, benché questo fatto, oltre a produrre un effetto di etichettamento, ponga fuori dall’attenzione forme di analfabetismo funzionale che possano albergare presso soggetti e gruppi insospettabili.
Infine, riflettere sull’analfabetismo funzionale, oggi, significa ridefinire gli orientamenti generali dell’impegno educativo, in particolare quelli dell’educazione degli adulti, in una direzione che forse non tutti coloro i quali la praticano sono disposti a intraprendere, in quanto essa costringe a ripensare i concetti di formazione in funzione “compensativa”, della quale si è detto precedentemente. Da questo punto di vista, è importante ricordare come l’educazione permanente sia andata incontro a storici equivoci, presso chi intendeva attribuirle una funzione sì compensativa, ma in senso riduttivo e in funzione di un’assunzione di compiti che in realtà spettano alla scuola.
Si riprende, pertanto, il concetto che gli standard dell’alfabetizzazione funzionale devono essere ripensati in modo democratico e pluralista, che metta in discussione la stessa idea di “funzionalità alfabetica”, allontanandola da una connotazione tecnicistica ed economicistica.
Il legame tra il concetto e le teorie dell’alfabetizzazione con l’educazione degli adulti/educazione permanente è, come detto, molto stretto e storicamente fondato. Si tratta, infatti, di un collegamento con la più generale riflessione pedagogico/politica, definito già nelle pagine di Gramsci, che si poneva il problema dell’analfabetismo come elemento di subordinazione culturale delle classi popolari e prospettava la costituzione di una lingua nazionale come superamento dei particolarismi e delle frammentazioni che determinavano la debolezza delle classi popolari stesse. Pensava, tuttavia, non a una lingua artificiale, ma a una lingua popolare che fosse il risultato di un processo di armonizzazione di culture dialettali, particolari. Se può essere recuperata e attualizzata l’idea gramsciana che l’unificazione linguistica, quando salvaguarda i codici e le culture specifiche, ha una funzione democratizzante, allora sono proprio i criteri e i paradigmi dei nuovi linguaggi unificanti a dover essere ripensati.
Si accenna, infatti, brevemente, rimandando a uno spazio apposito in un’altra sede ed occasione, una discussione approfondita sui temi, che quando taluni “alfabeti”, come quello informatico, divengono talmente rilevanti da determinare la chiave d’accesso fondamentale per qualsiasi tipo di attività burocratica e amministrativa o sanitaria, è allora evidente come non si possa intendere l’alfabetizzazione funzionale tout court se non come la possibilità di accesso a un insieme di linguaggi che sono prominenti nella vita sociale; e che, nel contesto della pandemia, diviene necessario possedere un’alfabetizzazione intesa come sostrato culturale critico, che permette di discernere, almeno all’ingrosso, messaggi validi da messaggi scorretti e incentivare uno stile di vita sufficientemente sicuro, garantire la sopravvivenza occupazionale, sociale e culturale.
Ci si accorge che l’alfabeto digitale tende a rigettare culture anche solide e raffinate; benché possa avere contenuto in origine l’aspirazione all’“apertura, accessibilità e attività”, oggi esso mostra, in misura crescente, nelle sue sofisticazioni controintuitive, il suo lato escludente e antidemocratico. Non può essere sufficiente, in questo contesto, invocare un’alfabetizzazione più efficace e funzionale nel campo informatico, il cui alfabeto può essere preso a metafora dei grandi codici globali, devono essere ripensate più radicalmente caratteristiche e significato della funzionalità, affinché non si arrivi ad eleggere quella che Gorz definiva “integrazione funzionale” come contrapposta all’“integrazione sociale”, a unico grande obiettivo dell’alfabetizzazione.
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Claudia Secci è Professoressa associata di Pedagogia generale e sociale e docente di Pedagogia generale e di Educazione degli adulti all’Università di Cagliari. Lavora su temi quali la dimensione sociale e politica dell’educazione/formazione; l’apprendimento in età adulta; le problematiche dell’adolescenza in prospettiva di una nuova definizione dell’età adulta; la dimensione pedagogica della famiglia. Ha pubblicato La politica come tema e dimensione dell’educazione degli adulti. Gramsci, Capitini, Freire, Napoli 2012; “Build Yourself a Levee Deep Inside”: Perspectives on Violence in Female Songwiters Music, in “Studi Sulla Formazione”, 2, 2020; ha curato Accompagnare i genitori verso un’autoformazione condivisa. Esperienze di educazione e di ricerca, Lecce 2021.
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Ivi, p. 17.
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Cfr. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano 1971; P. Freire, L’educazione come pratica della libertà, Mondadori, Milano 1973.
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Si veda, rispetto a questi aspetti, l’analisi condotta da L. Decembrotto sulla condizione dei detenuti, in particolare i migranti: L. Decembrotto, Istruzione e formazione in carcere: università, competenze e processi inclusivi, in “Life Long Learning”, 14, 32, 2018, pp. 112, 116.
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Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 2011, pp. 2342-2345.
Cfr. D. Del Fante, Gramsci: Lingua, Dialetto, Egemonia, url: https://www.academia.edu/13446073/Gramsci_Lingua_Dialetto_Egemonia
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