A scuola c’è sempre più bisogno di metodo storico | School needs Historical Method more than ever

Il primo libro di didattica della storia di Andrea Micciché, Igor Pizzorusso e Marcello Ravveduto (Mappe, Piccola Biblioteca Einaudi, 2025) è il primo testo “transgenerazionale” che prende di petto le questioni che gli insegnanti “primitivi digitali” si trovano ad affrontare quando iniziano a confrontarsi con metodi, strumenti e strategie, per insegnare a pensare storicamente alla generazione Z, la Google generation – generazione cui a breve, peraltro, apparterrà anche parte dei docenti della scuola italiana.
Per far ciò, la prima parte del testo definisce il perimetro del metodo storico, aiuta a dotarsi e impratichirsi con la cassetta degli attrezzi necessaria ad apprendere la storia – non come narrazione, ma come confronto di fatti informazioni, eventi – utilizzando l’argomentazione delle e sulle fonti. E la cassetta degli attrezzi non può non rimandare agli scritti di Fernand Braudel, Marc Bloch, Edward Carr (a proposito, credo faccia piacere ai nostri autori vedere il loro lavoro pubblicato nella stessa storica collana Einaudi, la mitica PBE, che ha ospitato L’apologia della Storia di Marc Block e le Sei lezioni sulla Storia di Edward Carr) ma anche la lavoro pluridecennale che in Italia hanno portato avanti Ivo Mattozzi con la scuola di Clio ‘92, Antonio Brusa, Historia ludens e i tanti cultori, insegnanti-ricercatori di didattica della storia.
Quindi, tracciate le linee del campo, nella seconda parte del volume la partita si gioca prevalentemente intorno a risorse e metodi della didattica della storia, dentro e fuori dall’aula, nel brodo di coltura dell’immersione digitale, della frenesia dell’immediatezza dell’onlife che ha aumentato illimitatamente i confini dell’uso pubblico della storia. Sembrano trascorsi non decenni, ma secoli da quando la polemica Nolte-Habermas sul revisionismo dell’interpretazione del nazismo e della sua politica di sterminio di massa si spostò sulla stampa, uscendo dai canali ristretti della ricerca accademica e inaugurando la stagione della polemica sull’uso pubblico della storia (la storia piegata ad intenti squisitamente politici).
Oggi l’accesso indiscriminato a informazioni, dati e fonti di ogni genere rende sempre più evidente la deriva verso il relativismo che annulla la complessità perché trasforma tout court la notizia in verità, che non necessita di alcuna mediazione esperta, men che meno della verifica delle fonti (il relativismo a-scientifico si porta dietro il vanverismo culturale degli esperti da web, sul quale ha scritto eccellenti pagine Tom Nichols, nel suo La conoscenza e i suoi nemici, Luiss 2017).
Ecco: nella seconda parte del saggio gli autori intendono mostrare – alla luce di un ricco repertorio di strumenti, esempi e suggestioni utili per realizzare attività laboratoriali – come utilizzare le risorse digitali e audiovisive per leggere in maniera consapevole la realtà e per strutturare percorsi di insegnamento/apprendimento che non demonizzano il web, gli strumenti digitali, le app, i giochi di ruolo, utili per apprendere e fare storia. Questa parte è veramente godibilissima per gli insegnanti che vogliono uscire dall’egemonia (e/o dall’insussistenza) del manuale e dell’impostazione cronologico-lineare che tanto piace ai revisionisti della didattica della storia che hanno il loro campione in Ernesto Galli della Loggia.
Risulta in tutta evidenza come il metodo storico, inteso come strumento per verificare e ragionare sull’attendibilità delle fonti, costituisca l’unico approccio per governare la conoscenza che nasce e si alimenta nel web. La metodologia del webquest trova rinnovata considerazione a fronte di sempre meno trasparente “diffusione di verità alternative”. Il primo libro di didattica della storia va letto anche e soprattutto alla luce di una trasformazione epocale che contraddistingue questo scorcio del xxi secolo. E non si tratta semplicemente di fare i conti con la travolgente evoluzione in tutti i settori dell’economia, dell’istruzione e della cultura, imposta dagli strumenti di generazione di conoscenza controllati dall’IA; la sfida risiede nel contrastare l’istituzionalizzarsi dell’epoca della post-verità e delle verità alternative, propagata, fra gli altri dalla coppia Trump-Musk.
Intronatisi in una dimensione della parola nella quale la distinzione tra il vero e il falso non è più pertinente, Trump, Musk e i loro alleati europei raccontano miti storici sulla provenienza e sulla destinazione dei popoli, favole semi religiose che pretendono di essere credute come articoli di fede e osano risposte alle grandi domande che gli umani si pongono riguardo al loro posto nel cosmo e nel tempo (Antonio Scurati, Musk, Trump e i nuovi idoli, in “La Repubblica”, 16 febbraio 2025).
Non è un caso che nel mirino del tecnocrate miliardario Elon Musk sia entrata Wikipedia (alla ricerca nello spazio del web e a Wiki è dedicato tutto il paragrafo vi nella terza parte terza del nostro testo), con le sue regole ferree, il controllo democratico delle informazioni affidato al confronto continuo di una comunità planetaria di utenti chiamati a rispettare un protocollo condiviso e che, per queste ragioni, costituisce un ostacolo per tutti coloro che intendono conquistare il monopolio delle verità “alternative”.
Che cos’è Wikipedia? È l’illusione illuminista della verità. Non quella assoluta, che da bravi novecenteschi sappiamo non esistere. Ma quella relativa, che si raggiunge con sforzi continui di approssimazione, con l’accuratezza, l’onestà intellettuale, con l’apertura mentale. Tutte parole dal sapore antico, sfuggente, ormai fuori moda. Wikipedia si definisce “l’enciclopedia libera e collaborativa”. E in questi tre termini si compendia buona parte di quello che ci stiamo lasciando alle spalle (Alessandro Trocino, Perché Elon Musk ha iniziato una crociata contro Wikipedia, l'ultimo baluardo del sapere condiviso, in “Corriere della Sera”, 14 febbraio 2025).
Non sappiamo se alla scuola sia affidato il compito di difendere – in una disperata battaglia di retroguardia – “l’illusione illuminista della verità”, che si costruisce attraverso il confronto esperto e il metodo di ricerca. Certamente Il primo libro di didattica della storia può accompagnare studiosi, ricercatori e insegnanti a ricollocare il senso della ricerca storiografica e della didattica della storia, nella complessità di un presente in tumultuosa trasformazione.
La sensazione è che le sfide della didattica della storia (al capitolo iv), fuori e dentro la scuola, vadano ben oltre le mere questioni legate a processi e metodi del pensare storicamente. Ce lo spiegano molto bene gli autori in un paio di pagine centrali nelle quali affrontano l’annosa quanto fondativa questione della differenza fra interpretazioni e opinioni cruciale per studenti immersi nel quotidiano mediatizzato sottoposto ad un incessante diffusione di fake news e che, nella quasi totale maggioranza, si trovano sguarniti e fragilmente esposti all’epoca delle “post-verità”.
La confusione fra interpretazioni storiche e opinioni personali produce la relativizzazione della ricerca scientifica. I risultati a cui arriva lo storico sono considerati una delle tante ipotesi plausibili… il senso comune della storia è esposto al caos informativo delle fake news.
In ultima analisi
Insegnare storia vuol dire anche offrire agli studenti gli strumenti adatti a verificare tutte le informazioni ambigue che risultano credibili perché fanno appello all’emotività. La diffusione delle fake news partorisce la fake history che si nutre della post-verità…è la negazione della storia: è una forma di supremazia ideologica che trasforma la verità in opinioni credibili (pp. 128-9).
Tocca alla didattica della storia aiutare gli studenti a diventare adulti capaci di distinguere fra analisi rigorosa, pregiudizi e falsi costruiti ad arte; in buona sostanza, imparare a riconoscere di chi e di cosa non fidarsi per imparare a saper stare al mondo.
L’autore
Giorgio Cavadi, autore di manuali di storia e di numerose pubblicazioni su temi di didattica della storia, ha insegnato didattica della storia ed epistemologia della Storia presso la Sissis dell’Università di Palermo. Attualmente tiene i laboratori di didattica della storia presso il corso di Scienze della formazione primaria della LUMSA, sede di Palermo.